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35 Siamo in presenza di testi che, con l’eccezione di F, risultano privi di esatte occorrenze epigrafiche e letterarie, oltre che di un unico modello di riferimento, probabilmente in quanto riflettevano un sentire comune43. In E si esortano i vivi a godere dei piaceri terreni senza rincorrere falsi valori e finché sarà possibile (dum licet utamur) ; in B e C si invita a bere, a divertirsi e a non piangere per la scomparsa del proprio caro. La constatazione, messa in bocca ai superstiti, che quel che il morto fu noi ancora siamo e quel che ora giace noi diventeremo (B, rr. 4-5) è un’evidente eco della celebre massima epicurea che tanta fortuna ebbe, pur con molte varianti, nell’epigrafia funeraria latina di età imperiale ; essa sembra peraltro rappresentare, insieme al distico finale (F), l’unico altro verso compiuto e perfetto in senso sia metrico (un pentametro) che concettuale, ammesso però che si consideri « muta » la s finale di sumus preceduta da vocale breve e seguita da consonante44

. Qualsiasi parvenza metrica sembrerebbe invece da escludere all’ultima riga di B (moneo … ludite), nelle sezioni C, D e in buona parte di E (fino a morietur). All’invito a non piangere (B, r. 3) si uniscono l’esortazione a liberarsi da tutto ciò che turba l’animo umano, vale a dire quei bisogni non naturali e non necessari che possono procurare dolore (come la sete di potere e di ricchezza e la smaniosa ricerca di beni superflui)45, e la considerazione quod futurum est scit nemo, con la quale ancora una volta si insiste a godere del momento presente senza preoccuparsi di ciò che sarà (esortazione che, coerente con il messaggio epicureo, era divenuta ormai un luogo comune)46.

36 In sostanza questo nuovo documento ha tutto l’aspetto di un centone di sentenze giustapposte, di per sé poco originali in quanto ispirate a un diffuso sentire (il motivo del

bere, l’esortazione ad accontentarsi di poco e a sapere godere dell’oggi senza preoccuparsi del domani, l’ineluttabilità della morte e l’invito a non piangere per la scomparsa di una persona cara), cui si è voluto attribuire solennità e tono elevato tramite una patina letteraria a tratti arcaizzante e dotta ; anche la presenza di spezzoni metrico-ritmici sarà quindi da ricondurre alla stessa finalità. Quanto agli echi lucreziani e oraziani, essi sembrano da attribuire più a un colorito letterario di maniera che a richiami voluti e precisi. Lo stesso vale per l’esortazione a godere di Venere e Bacco (C, r. 8), frequente già nella commedia arcaica e nella diatriba47.

37 Se i concetti espressi sembrano a prima vista poco congruenti con la condizione servile dei tre personaggi, per i quali l’invito a bere e a divertirsi senza preoccuparsi del domani (C, rr. 8-9) parrebbe fuori luogo, non si deve dimenticare che molti carmina epigraphica sono del tutto convenzionali, intessuti di stereotipi e formule di uso comune che prescindono dallo status del defunto48. È lecito dunque domandarsi se non abbiamo a che fare con un ossario preconfezionato, sul cui coperchio e contenitore fosse stato lasciato vuoto lo spazio destinato ai soli nomi dei defunti (A, D).

38 Sul piano epigrafico la novità principale consiste nell’aver trovato massime di per sé piuttosto ricorrenti riunite assieme.

39 Per quanto riguarda, infine, la datazione, per l’uso del marmo, il tipo di ordinatio, la paleografia (con caratteri ispirati alla capitale libraria o rustica, lettere montanti, apici, Q con lunga coda che scende sotto la linea di scrittura), il formulario (Dis Manibus scritto per esteso e il distico finale) e alcune forme linguistiche (in particolare il genitivo femminile in -aes del cognome femminile Arescusa), sembrerebbe probabile un inquadramento nei primi anni dell’Impero. Si consideri in proposito che la forma auarities in luogo di auaritia si ritrova solo in Lucrezio (3, 59) e, in ambito epigrafico, unicamente in due testi di età tardorepubblicana49. Anche le forme ultuma e lacrumate/lacrumetis rinviano allo stesso periodo, come pure, se non sono tutti di maniera, i numerosi richiami letterari cui si è fatto cenno nel contributo50.

NOTE

1. Nel 2010 indagini archeologiche preliminari alla realizzazione di edifici residenziali, al km 24,00 della Via Aurelia, dirette da D. Rizzo, hanno messo in luce un importante complesso archeologico (forse a destinazione termale), caratterizzato da un tratto basolato della via Aurelia Antica e da una serie di edifici che si affacciavano lungo il tracciato romano. Le tecniche costruttive e il rinvenimento di alcune tegole con bollo di fabbrica suggeriscono un arco cronologico di frequentazione dal I sec. a. C. al tardo Impero, con una fase di fruizione funeraria testimoniata dalla presenza di sepolture (http://www.etruriameridionale.beniculturali.it/index.php?it/265/aranova). Nel dicembre 2012, tra i resti di quella che potrebbe essere stata una villa imperiale, è stato recuperato un ritratto attribuito a Giulia, figlia di Augusto. Non sono state tuttavia trovate finora, a quanto ci consta, iscrizioni.

2. Numerose in particolare le ville marittime rinvenute lungo il vicino litorale tirrenico (Marina di San Nicola, Palo, Ladispoli …) ; per i risultati delle ricognizioni archeologiche nell’antico ager Caeretanus, nel quale Roma dedusse da N a S le colonie di Castrum Nouum, Pyrgi e Alsium, vd. Enei 2001 e cfr. Maffei, Nastasi 1990. Nel corso del III sec. a. C. avvenne anche, più a S, la fondazione della colonia marittima di Fregenae. Per la fascia interna, al confine dei territori di Caere e Veii, anche essa ricca di ritrovamenti archeologici, cfr. Tartara 1999.

3. La destinazione di questi fori non è affatto sicura e non si può escludere che essi siano stati realizzati in tempi recenti per facilitare il sollevamento del pesante coperchio. 4. Per alcuni confronti sull’ordinatio dei testi in tabelle di colombario, in contesti metrici e/o affettivi, cfr. Massaro 2011 e Massaro 2012-2013.

5. In alternativa conger potrebbe essere stato modellato su confer. Si tratta comunque di un imperativo, come per gli altri due verbi (il testo è in effetti ricco di espressioni esortative), e non di un infinito abbreviato per troncamento retto da studere ; in questo secondo caso si dovrebbe ipotizzare un uso avverbiale di quid (come si riscontra in alcune iscrizioni metriche di Roma) e un uso assoluto di questo verbo, che in ambito letterario si ritrova in Cic., Tusc., 4, 67, che riprende tuttavia versi di un’anonima palliata (Quid uelim ? Quid studeam ?), e nelle iscrizioni in CIL, VI, 8991 = CLE, 101.

6. Massaro 2014, in particolare p. 87-88.

7. Più frequentemente esso è impiegato come aggettivo riferito a olla, aedicula funeraria (eventualmente all’interno di un colombario) o ad ara ; nelle iscrizioni di Roma è più comune la forma ossuarium (una quarantina di attestazioni a fronte di una dozzina per ossarium) già dalla prima età imperiale, nonostante per i grammatici ossua fosse un barbarismo (Consent., Gramm., 5, p. 396, 25 ; Ps. Palaem., Gramm., 5, p. 538, 40) ; cfr. TLL, IX, 2, c. 1119. Ossarium/ossuarium seguito dal nome del defunto in genitivo ricorre a Roma anche in CIL, VI, 2198, 22003, 33174, 36334 e l’espressione olla ossuaria compare, per esempio, in CIL, VI, 6824, 7508, 8726, 12312, 12671, 28126, 33263, 35035.

8. Il fatto che sull’ossario la formula onomastica sia ridotta al solo cognome non impedisce di pensare che i tre personaggi fossero in realtà dei liberti, la cui onomastica completa comparisse in altra parte del sepolcro.

9. Solin 1996, p. 116-118 (Primigenius : un centinaio di casi), 451 (Arescusa : una trentina di casi), 470-471 (Chrestus : una sessantina di casi). A parte alcune attestazioni su sigillata aretina risalenti al I sec. a. C., la diffusione di questi cognomi in ambito urbano non sembra anteriore all’età augustea.

10. La forma Arescusaes è presente finora solo a Roma (CIL, VI, 12211, 12314) ; Arescuses non è invece mai attestata. Sulla terminazione -aes del genitivo femminile cfr. Leumann 19775, p. 419 ; Adams 2003, p. 473, 479-483 ; per quest’ultimo il fenomeno appare diffuso soprattutto per nomi latini di schiavi di origine greca, a differenza di quanto si riscontra per -es.

11. La forma ultum- ricorre soprattutto in Plauto, Sallustio, Cicerone, Cornelio Nepote e Seneca retore ; in epigrafia si registrano a Roma un paio di occorrenze, entrambe tardorepubblicane (CIL, I2,1297 = VI, 16614, 41062). A sua volta lacrumo, frequente in autori di età repubblicana e augustea (Ennio, Plauto, Terenzio, Sallustio, Cicerone, Virgilio e Livio), al pari di lacrumae, ha riscontri nell’epigrafia metrica repubblicana e soprattutto imperiale, in particolare a Roma (CIL, I2, 1215 = CLE, 59 ; CIL, VI, 3561 = 32990 ; CIL, VI, 4385 = CLE, 1015 ; CIL, VI, 25617 = CLE, 965 ; CIL, VI, 28047 = CLE, 1128 ; CIL, VI, 28810 =

34185 = CLE, 972 ; CIL, VI, 34397a = CLE 2136 ; CIL, VI, 36202 = CLE, 1545). Generalmente intransitivo, questo verbo è usato in forma passiva, e quindi transitiva, da Ov., Fast., 1, 339 (lacrimatas […] murras) ; i casi veramente pertinenti (lacrimo nel significato di defleo) sono in realtà successivi (TLL, VII, 2, c. 845 r. 82 s.). Per un’espressione simile alla nostra, ma con verbo diverso, cfr. CIL, VI, 10098 = 33961 = CLE, 1110 (… flete meos cineres).

12. Sui rapporti tra le forme del latino parlato, che si riscontrano in epigrafia, e quelle del latino standard cfr. Bodel 2015, p. 757-758 ; Kruschwitz 2015.

13. Per quest’uso di et cfr. TLL, V, 2, c. 894.

14. Per analoghe sequenze in cui si può cogliere un ritmo dattilico, ma senza che si configuri un verso completo, cfr. Silvestrini, Massaro 1999, p. 162-176.

15. Nel caso in cui ci fosse corrispondenza tra riga e sequenza metrica, a r. 1 avremmo dei dattili, che formerebbero un esametro ipermetro, la r. 2 potrebbe essere interpretata come una serie di sei piedi anapestici o come un esametro dattilico, acefalo e ipermetro al tempo stesso, e la r. 3 presenterebbe un inizio anapestico (o dattilico acefalo). Se invece la sequenza metrica non corrispondesse alle singole righe di testo, potremmo : a) attribuire l’ultima sillaba delle rr. 1-2 ai versi successivi, avendo così due esametri dattilici in sinafia seguiti dall’emistichio di un pentametro (ultuma dum requies fatis me traxerit ad plu/res ubi nemo est ne lacrumate meos cineres et / uos onerate mero et) ; b) ipotizzare una semplice sequenza di piedi.

16. Secondo la definizione di Massaro 2007 in casi analoghi.

17. Il verbo abit può intendersi come indicativo presente, se si ipotizza che la frase sia detta prima del definitivo distacco del defunto dai vivi, oppure come perfetto ( = abiit), se la si immagina pronunciata dai superstiti quando Cresto sarà morto. L’epiteto bellus presenta ben pochi riscontri epigrafici (e solo nei graffiti pompeiani CIL, IV, 8259, 8966a), mentre maggiori sono le ricorrenze letterarie (TLL, II, c. 1856-1857) ; in particolare homo bellus torna in Catullo (24, 7), Cicerone (Ad fam. 7, 16) e Petronio (42, 3), in quest’ultimo con riferimento a un defunto come nel nostro testo.

18. Analoga esortazione, seppure formulata diversamente, anche in CIL, VI, 12652 = CLE, 995 ; CIL, XIV, 2553 = CLE, 1032.

19. Il verbo onero ricorre negli autori con riferimento a bere e mangiare (TLL, IX, 2, c. 631), ma raro è il suo uso epigrafico (CIL, VI, 41107a) ; inviti concettualmente analoghi a quelli del nostro testo sono tuttavia presenti anche in CIL, II, 1877 = CLE, 1500 (Cadice) ; CIL, III, 293 = 6825 = CLE, 243 (Antiochia di Pisidia) ; CIL, VI, 17985a = 34112 = CLE, 856 ; CIL, XI, 4866 = 1167 (Spoleto) ; ILLRP, 1125 = CLE, 935 (Pompei). Sul topos della vita come banchetto, non esclusivo dell’epicureismo, cfr. Berno 2008 e Berno 2014 ; per l’espressione spatium breue uitae, ma in un diverso contesto, cfr. CIL, XII, 5411 = CLE, 1428 (Tolosa) : coniugio nostro spatium breue contigit aeui.

20. Uso che, seppure molto raro, è attestato con il futuro anteriore : TLL, V, 1, c. 2218, 39 s. 21. Piuttosto che rendere hodierna lux ni pereat con « perché non finisca questo giorno », preferiamo, seguendo un suggerimento di A. Bettenworth, intendere l’espressione con « perché questo giorno non vada sprecato » : il giorno infatti finirà in ogni caso (erit dies sine me), ma almeno ci si sarà goduti la vita bevendo e giocando (bibamus et ludamus). Per questo valore di pereo cfr. Plaut., Aul., 249 ; Ov., Her., 19, 74 ; Iuv., 4, 55-56.

22. Scheid 2011, p. 140-166. Cfr. CIL, VI, 37556 : amici bibite et mi propinate ! Cene in ambito funebre sono menzionate in CIL, X, 4717 (Carinola) ; CIL, XIII, 2494 (Murs-et-Gelignieux,

Ambarres, Lugdunense) ; CIL, XIV, 350 = 4450 (Ostia) ; AE, 1894, 148 (Petelia) e forse in CIL, I2, 2634 (Ferento).

23. Interessante la definizione della morte come ultuma requies : questo concetto si ritrova anche in Seneca nella Consolatio ad Marciam (Dial., 6, 24, 5, 10 : aeterna requies), così come in un’iscrizione di Gubbio (CIL, XI, 5882 = CLE, 1843 : aeterna conditus in requie). Nei poeti di età augustea requies ha piuttosto il significato di riposo dalle fatiche e dalle preoccupazioni, come di solito nell’epigrafia sepolcrale pagana di carattere metrico : vd. per esempio CIL, III, 1552 = 8001 = CLE, 460 (Dacia) ; CIL, VI, 6502 = CLE, 1001 ; CIL, VI, 19007 = CLE, 562 ; CIL, VI, 20132 = 30132 = CLE, 1171 ; CIL, VI, 24638 = 34152 = CLE, 1097 ; CIL, VI, 30125 = CLE, 490 ; CIL, VIII, 9509 = CLE, 2032 (Cherchell) ; CIL, XI, 207 = CLE 507 (Ravenna) ; CIL, XII, 5026 = CLE, 1276 (Narbona) ; CIL, XIII, 11889 = CLE, 2092 (Magonza). Anche il verbo trahere connesso con fata ritorna in Seneca (Ep., 107, 11 : ducunt uolentem fata, nolentem trahunt). Per l’espressione fatis me traxerit ad plures cfr. CLE, 2177 (Roma) ; CIL, VI, 9241 = CLE, 425 (fatis extinctus) ; CIL, VI, 10220 (fatis abreptus), 12845, 15077 ; ICUR, IX, 24556. Tra gli autori lo stesso verbo è usato, per un concetto analogo, da Verg., Aen., 5, 618 (traxerit ad laetum) ; Sil., Pun., 13, 710 (traxisti ad Stygias … tenebras) ; Sen., Apoc., 11, 6 (illum collo obtorto trahit ad inferos).

24. Rara in epigrafia la definizione dei defunti come plures : CIL, VI, 142 = CLE, 1317 ; CIL, XIII, 2315 = CLE, 645 (Lione) ; ICUR, IX, 24556. Petron., 42, 5 usa l’espressione abiit ad plures per indicare la morte di Crysanthus.

25. Hodierna lux, espressione che sembra tornare solo in Properzio (3, 10, 7) e in Livio (1, 16, 6), ha qui probabilmente la valenza di hodierna dies : cfr. CIL, VIII, 15880 = ILTun., 1593 (Sicca Veneria) : hodierna die defunctam e nota 46.

26. Cfr., ma per altri contesti, CIL, VIII, 21031 = CLE, 479 (Cherchell) : ite mei sine me ad meos ; AE, 1987, 179 (Ostia) : numquam sine me in publicum aut in balineum aut ubicumque ire uoluit. Nell’espressione erit dies sine me (per cui cfr. Ov., Ars, 3, 69 s. : tempus erit, quo tu … frigida deserta nocte iacebis anus), se non ci fosse un riferimento puntuale al definitivo trapasso del defunto nel regno dei morti (vd. supra), si potrebbe vedere un riferimento a un generico futuro in cui Cresto non ci sarà più.

27. Tuttavia il tipo di piacere evocato nel nostro caso sembrerebbe lontano da quello derivante dalla mera eliminazione del dolore, su cui si era fondato l’insegnamento di Epicuro (cfr. a titolo esemplificativo Ep., Men., 130-132), che, come è noto, esortava a forme di autarchia lontane da ogni godimento sfrenato. L’ossimoro breve/lunga riferito alla vita ricorre anche nel De breuitate vitae senecano (1, 1, 8) come sentenza attribuita a Ippocrate (uitam breuem esse, longam artem) e tutto il dialogo gioca su questo tema ; cfr. però in precedenza Publil., Sent., B 36 (breuis ipsa uita est sed malis fit longior) e Hor., Carm., 1, 4, 2 e 1, 11, 6-7, che per primo attribuisce valore temporale alla definizione spaziale (come poi Velleio Patercolo e Quintiliano). La stessa contrapposizione tra una vita breve, ma al tempo stesso lunga, torna in CIL, V, 5320 = CLE, 1203 (Como) : uita breuis longo melior mortalibus aeuo.

28. In particolare per l’uso di onero cfr. Plaut., Mil., 677 (est, bibe, animo obsequere mecum atque onera te hilaritudine) e Curt. Ruf., Alex., 5, 7, 4 ; tra le iscrizioni vd. CIL, VI, 9797 = CLE, 29 (unguento marcido onerate amantes), ma cfr. anche CLEPann., 67 (dabo ego tibi mensam epulisque oneratam). Per potate cfr. Plaut., Most., 394 (nam intus potate hau tantillo hac quidem causa minus) ; Curc., 1, 86 (potate, fite mihi uolentes propitiae) ; in epigrafia un solo confronto in CIL, VI, 17985a = 34112 = CLE, 856 (amici qui legitis moneo miscete Lyaeum et potate). Per ludite cfr. Mart., Apoph., 79, 1 (ludite lasciui, sed tantum ludite, serui).

29. Meno probabile sembra qui attribuire a cum un valore temporale (« quando ci siano Venere e Libero »), dal momento che si creerebbe una contraddizione con gli insistiti inviti a darsi al vino e ai divertimenti.

30. In Virgilio, come pure in alcuni celebri passi senecani, Fatum (cfr. qui fatis in B, r. 2) e Fortuna possono sovrapporsi nel significato : Berno 2014, p. 126. L’espressione seruire Fortunae torna in Porph., Hor. Ep., 1, 16, 69, ma cfr. anche Sen., Ep., 51, 9. Liber e Venus si ritrovano insieme, in contesti conviviali, in Hor., Carm., 1, 32, 1 e 3, 21, 21-24 (con il commento di Porfirione, interessante per la locuzione usque in crastinum mane producturum, utile confronto per hodierna lux ni pereat … erit dies sine me del nostro testo C, r. 9). Talora negli epitaffi metrici balnea, uina , Venus compaiono insieme (sempre in quest’ordine), come fattori che danno senso alla vita (CIL, VI, 15258 = CLE, 1499 ; CIL, XIV, 918 = CLE, 1318, da Ostia).

31. Per Roma in generale cfr. Gregori 2008. Negli autori e nelle iscrizioni sono attestate sia la forma aspirata, sia quella senza aspirazione (TLL, I, c. 1300-1303) ; per l’ambito epigrafico cfr. in particolare CIL, VI, 2552 : aue Terti et uale ; CIL, VI, 6492, 23685 = CLE, 64 ; CIL, VIII, 2841 (Lambesi) ; CIL, IX, 761 (Larino) : h(auete) et ual(ete) ; CIL, X, 1517 (Napoli) ; CIL, XIII, 5386 (Besançon) : uale Eusebi, aue Eusebi ; AE, 2006, 475 (Gambulaga) : […] aue M( arce) […] uale M(arce) ; Walker 1990, n° 3.2.2.16 (Roma) : Aue Euphrosyne et uale. In ambito letterario cfr. Petron., 74, 7 : … illi quidem exclamauere : “ uale Gai ”, hi autem : “ aue Gai ” ; questa formula di saluto è destinata a chiudere l’epitaffio di Trimalcione (Petron., 71, 12), sul quale vd. Cucchiarelli 2007, p. 57-58 e n. 66. Essa perdura fino alla tarda antichità : cfr. Auson., Eph., 2, 4, 5 : dicendum amicis est haue / ualeque, quod fit mutuum ; 10, 102 : … haueque dicto dic uale (cfr. anche 21, 28).

32. Scheid 2011, p. 146. 33. Catull., 101, 7.

34. Per la sequenza rape, conger(e) cfr. Mart., 8, 44, 9 in un contesto analogo al nostro : rape , congere, aufer, posside : relinquendum est. Una tematica affine si riscontra in Sall., Cat., 12, 2 ([…] auaritia cum superbia inuasere : rapere, consumere) ; Hor., Carm., 4, 12, 25 (studium lucri). 35. L’espressione nihil perpetuum, con riferimento alla caducità di tutte le cose, è presente in Sen., Dial., 11, 1, 1 (Consolatio ad Polybium) ; cfr. anche Hor., Sat., 1, 9, 59-60 (nihil sine magno / vita labore dedit mortalibus). Sugli effetti della morte e sul comune destino di tutti gli uomini cfr. CIL, VI, 11252 = CLE, 1567 : mors etenim omnium natura non poena est, cui contigit nasci instat et mori. La brevità della vita è del resto un topos dei carmi epigrafici ; per fare solo alcuni esempi di provenienza varia, CLE, 191 (Modena) : sumus mortales, immortales non sumus ; 486 (Cherchell) : uiuete mortales moneo : mors omnibus instat ; 610 (Vercelli) : omnes mortales eodem sorte tenemur ; 808 (Cagliari) : qui legis hunc titulum mortalem te esse memento ; 1203 (Como) : uita breuis longo melior mortalibus aeuo ; 1495 (Roma) : nihil sumus ut fuimus mortales. Respice lector in nihil ab nihilo quam cito reccidimus. 36. Sulla fragilità della condizione umana Trimalcione, durante la famosa cena, improvvisa versi nei quali esorta a godere della vita finché sia possibile e conclude con l’esortazione finale […] ergo uiuamus, dum licet esse bene (Petron., 34, 10 ; cfr. 55, 3). Cfr. Setaioli 2011, p. 91-112.

37. Molto comune in particolare l’espressione utere felix ! ; in un caso si trova pure utamur felices ! (CIL, III, 3881 = 10760, da Emona).

38. Cfr. CIL, VI, 7872 = CLE, 971 ; CIL, VI, 21200 = CLE, 973 ; CIL, VI, 23551 = CLE, 970 ; CIL, VIII, 20914 = CLE, 318 (Tipasa) ; CIL, IX, 5401 = CLE, 1514 (Fermo) ; CIL, X, 2752 = CLE, 1053

(Pozzuoli) ; CIL, XI, 987 (Regium Lepidum) ; AE, 1969/70, 658 (Mactar). Oltre che in Petronio (vd. supra), tale espressione ricorre in Terenzio (Heat., 345) e Cicerone (Ad fam., 9, 17, 2) con fruor, in Seneca (Phaedr., 774) con utor, ma soprattutto in Orazio (Carm., 2, 11, 16 ; 4, 12, 26 ; Sat., 2, 6, 96 ; Ep., 1, 11, 20) ; in Ovidio (Ars, 3, 61-64) compare l’espressione dum licet … ludite, in Properzio (1, 19, 25) quare, dum licet, inter nos laetamur amantes.

39. CIL, II/5, 399 (Castro del Rio) ; CIL, V, 470 = CLE, 1471 (Piquentum) ; CIL, VI, 27728 e 28523 = CLE, 1538 e 1540 ; CIL, XI, 7024 = CLE, 1542 (Lucca).

40. Cfr. Gamberale 1983, p. 385.

41. Vd. ora in proposito l’approfondita analisi di Massaro 2014. Agli otto casi urbani attestanti questo distico, seppure con alcune varianti, si deve aggiungere un inedito, noto da un apografo di G. Q. Giglioli conservato nello schedario dell’Archivio di Epigrafia Latina della Sapienza : su una lastrina di colombario in giallo antico, mutila a destra, vista in un villino di via B. Eustachio (che non è stato possibile identificare), si leggeva il solo distico in esame nella seguente forma : Te lapis obtestor / leuiter super / ossa residas / ne [nos]tri / doleat condi[tus] / off[icio]. Anche qui, come nel nostro testo, compare il pronome personale nostri (vd. anche nota seguente), ma in una differente sede metrica (-- | -∪∪ | , anziché -∪∪ | -- | -) ; la terminazione del pronome nostri è stata incisa dal lapicida nell’interlinea soprastante.

42. L(ucius) Turranius Optatus / uix(it) ann(os) XXXV. / Te lapis obtestor leuiter super / ossa resides ni doleat / nostri conditus officio. Questa è la sola iscrizione edita che abbia il genitivo singolare del pronome di prima persona plurale nostri ; tutte le altre occorrenze del distico presentano l’aggettivo possessivo (nostro officio), al di fuori del testo inedito alla nota precedente.

43. Fra i tanti esempi si segnalano, in iscrizioni provenienti da varie parti dell’Impero, esortazioni del tipo : desine flere meos casus rogo, desine mater luctu te miseram totos exagitare dies (AE, 1990, 95) ; bibite uos qui uiuitis ( CLE, 243) ; desine iam mater lacrimis renouare querellas namque dolor talis non tibi contigit uni (CLE, 823) ; moneo miscite lyeum et potate (CLE, 856) ; es, bibe, lude (CLE, 935, 1500) ; moneo ne quis me lugeat (CLE, 1032) ; desine soror me iam flere (CLE, 1068) ; qui legitis moneo : uiuite, mors properat (CLE, 1231) ; manduca, bibe, lude et ueni ad me (CLE, 1317).

44. Ep., Men., 125 ; cfr. anche Ov., Met., 12, 499 (quamquam ille uir est, nos segnibus actis, / quod fuit ille, sumus) ; 15, 214-216 (nostra quoque ipsorum semper requieque sine ulla / corpora uertuntur, nec, quod fuimusue sumusue, / cras erimus) ; Prop., 2, 13b, 31 (qui nunc iacet horrida pulvis …) e la successiva rivisitazione della massima in Sen., Ep., 54, 4-5 ; per Lucrezio cfr. Perelli 1977, p. 90-94. In ambito epigrafico numerosi sono i richiami e molte le varianti ; tra i tanti casi, a titolo di esempio, si rinvia a CLE, 799 (Germania superiore) : quod sumus hoc eritis, fuimus quandoque quod estis ; 1559 (Roma) : quod fueram non sum sed rursum ero quod modo non sum ; IAq., 3488 : quod es ego fui et tu eris quod sum ; ILCV, 3865 (Roma) : quod estis fui et quod sum essere habetis ; ma anche CIL, VI, 22215 = CLE, 801 : uixit homo, nunc homo non est.

45. Per la differenza tra dominus e possessor (il primo « possessore » sul piano giuridico, il secondo detentore del possesso, ma non necessariamente della proprietà) vd. rispettivamente TLL, V, 1, c. 1907-1935 ; TLL, X, 2, c. 102-105 ; cfr. anche DE, II, 3, 1922, p. 1942-1943. Non mancano tuttavia casi in cui possessor è usato con il significato di dominus, come ad es. in Dig., 43, 17, 1. Nella figura del futuro dominus e possessor si potrebbe vedere un riferimento al tema topico dell’erede avido che si impadronirà di

quanto accumulato in precedenza da altri ; cfr. in proposito Hor., Carm., 2, 3, 19-20 ; 2, 14, 25-27 ; 3, 24, 59-62 ; 4, 7, 19 ; Sat., 2, 2, 175-177, 190-192 ; 2, 3, 122-123, 146-151 ; Ep., 1, 5, 13-14 (su questa figura i confronti letterari si potrebbero di certo moltiplicare). Sul destino dell’uomo in relazione ai beni terreni cfr. CIL, III, 2083 = CLE, 1060 (Salona) : … numina saeva ut plura eriperent plura dedere bona.

46. L’importanza attribuita all’istante presente, evitando l’indefinitezza del futuro che nessuno può conoscere, potrebbe richiamare la nozione epicurea del tempo, sia pure nel nostro caso in una forma molto sfumata (cfr. Ep., Men., 127) ; manca infatti nei nostri testi l’elemento razionale (nephon logismos), che prevedeva un calcolo dei vantaggi e dei danni conseguenti a ogni atto (Verde 2013, p. 132). C’è qui anche una vicinanza tematica con Hor., Carm., 4, 12 e con il suo invito carpe diem. Per hodiernus cfr. TLL, VI, 2-3, c. 2854 ; in