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Consiglio d’Egitto – a farsi romanzo

521 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. III, Torino, Utet, 2007 (1964), p. 707; e

proseguiva: ‹‹A nc he d i s pu ta , p ol e m i c a s u a r g om e n ti d ot tr i na l i , d o m m a t i c i › ›.

522 Cfr. L. Sciascia, La sicilia come metafora, cit., p. 43: ‹‹Qui [in Sicilia, ndr]camminare diritto si

dice “camminare latino” e camminare drittissimo “camminare latino latino”; nelle bilance il contrappeso viene chiamato ancora “romano”. Tutto questo, per dire come il diritto romano abbia dovuto improntare davvero di sé l’anima siciliana››; e Id. Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico

Porzio, Milano, Mondadori, 1992, p. 113: ‹‹Era il diritto romano che permeava l’ordine dei

sentimenti››; ma valga, su tutto, l’unicuique suum che dà il titolo al racconto A ciascuno il suo: un aforisma del diritto romano desunto dalla prosa ciceroniana (‹‹Nam iustitia, quae suum cuique distribuit, quid pertinet ad deos?››, De natura deorum, III, 15:, Opere politiche e filosofiche, vol. III, Torino, UTET, 2007) e consacrato dal digesto giustinianeo («Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens», lib. I, tit. I, 1; Corpus Iuris Civilis. Institutiones).

523 A parte – forse – l’episodio che diede avvio allo scontro: il 22 gennaio 1711, sull’isola di

Lipari (sede dell’unico vescovado di nomina pontificia in Sicilia), gli ufficiali d’annona Giovanni Battista Tesorero e Giacomo Cristò, provvidero all’esazione di un piccolo balzello nei confronti del bottegaio Nicolò Buzzanca, che aveva messo in mostra, per venderla, una partita di ceci. La merce avrebbe però dovuto essere esente dal dazio, perché proveniente dalla mensa del vescovo dell’isola, il catanese Niccolò Maria Tedeschi; a seguito delle rimostranze del mercante, i due vennero perciò raggiunti dalla scomunica del vescovo, nonostante le scuse e la restituzione della piccola quantità di merce erroneamnete esatta. Su ricorso delle due guardie, il Tribunale della Regia Monarchia annullò quindi la scomunica anche se solo, in un primo momento, ad cautelam et cum

reincidentia, cioè con un provvedimento temporaneo, tale consentire ai presunti rei di presentarsi a

discolpa di fronte al Tribunale di R. Monarchia: la conseguente assoluzione, concessa in maggio, segnò il punto iniziale della controversia. Ma il fatterello era stato in realtà preso a pretesto, poiché i precorsi del rapporto fra i governi siciliani e la chiesa di Roma si perdevano ormai nei secoli. Dal 1097 la bolla Quia propter prudentiam tuam, promulgata da papa Urbano II, concedeva al conte Ruggero I il Normanno il privilegio della Legazia Apostolica, il titolo cioè di “legato nato” del pontefice di Roma nel Regnum Siciliae. Secoli di stratificazione dottinaria non erano valsi da allora a un pieno e reciproco riconoscimento dell’estensione e dei limiti dell’istituto: interpretato dal

Vaticano come un privilegio a tempo, da non potersi estendere a tutte le signorie e le forme di governo che si sarebbero succedute sull’isola; e viceversa inteso dai “regalisti” come patto territoriale, contratto irresolubile stipulato a ristoro delle imprese di Ruggero I, che aveva cacciato gli Arabi e ricondotto l’isola sotto le insegne della Chiesa cattolica, e in definitiva da ritenersi valido per tutti i successori del conte normanno. L’esistenza dello stesso Tribunale della Regia Monarchia (‹‹alle nostre orecchie inutile endiade››, scriveva lo storico Catalano a metà dello scorso secolo: ma proprio su di essa i “regalisti” del primo Settecento argomentarono le loro posizioni, restaurando il significato di “diocesi, circoscrizione territoriale” che la parola aveva ancora intorno all’anno mille) deriva dal privilegio della Legazia: una magistratura forte, sorta nel XVI secolo con carattere occasionale (il giudice era nominato di volta in volta, al presentarsi delle cause) ma ben presto stabilizzata, nel 1578. Nel nuovo corso assolutista che si preparava in Europa, fu anch’esso un puntello per la fabbrica della ragion di stato contro le richieste di immunità da parte del governo ecclesiastico: corte di appello per i giudicati dai tribunali diocesani (di qualunque natura fosse la causa: civile, penale, beneficiaria, etc.), deteneva giurisdizione privilegiata per gli ecclesiastici cosiddetti esenti (cioè direttamente dipendenti dal Vaticano) e sui reati dei Regolari commessi all’esterno dei chiostri; aveva facoltà di avocare a sé ogni causa ecclesiastica di competenza dei tribunali ordinari (cioè diocesani); oltre a questi poteri giurisdizionali, il Tribunale aveva compiti di vigilanza sulla disciplina dei monaci, poteva nominare provvisoriamente i Superiori e le Abbadesse, assolvere da censure ecclesiastiche e invalidare, e siamo al punto, anche le scomuniche. Da tali poteri giudiziari ed esecutivi restavano escluse le discipline ecclesiastiche riguardanri i dogmi di fede. Ora, l’annullamento della scomunica dei due malcapitati (che – come vitandi, soggetti da evitare – erano fortemente menomati anche delle loro libertà civili) fu interpretato dalla Chiesa – che oltre tutto non riconosceva Filippo V come legittimo sovrano di Spagna – come un atto sacrilego. La questione, a questo punto, mostrò dietro il pretesto giuridico la sua vera facies politica; e si prefigurò come occasione propizia – per entrambe le parti – di attaccare i reciproci sconfinamenti di campo: dell’autorità pontificia in materia civile, del potere regio nel governo ecclesiastico. Seguirono così diciasette anni di tensione, durante i quali si rasentò più volte lo scisma. Alcune date salienti: il 15 agosto 1711, in una lettera indirizzata al Tedeschi, la Sacra Congregazione delle immunità ecclesiastiche dichiarò nulla, per difetto di giurisdizione, l’assoluzione della scomunica concessa ai poveri dazieri di Lipari dal Tribunale della Regia Monarchia; il 16 gennaio 1712 un’altra lettera, ora indirizzata ai vescovi siciliani con ordine di pubblicazione, ribadì l’incompetenza del Tribunale a trattare le scomuniche maggiori: obbedirono – di concerto – solo i vescovi di Catania, Girgenti e Mazara, che la pubblicarono lo stesso giorno, il 21 marzo di quell’anno, aggirando l’obbligo di richiedere prima l’autorizzazione del vicerè (il cosiddetto regio exequatur ). A colpi di lettere, bandi e brevi, lo scontro si era ormai fatto aperto. Il Tedeschi era a Roma già dal giugno dell’anno prima; il vescovo di Catania, Andrea Riggio, attivissimo cospiratore e stratega del fronte curialista, fu espulso dal regno con decreto del 18 aprile 1713; il 6 agosto toccò al vescovo Ramirez di Girgenti: su entrambe le diocesi, i prelati in fuga posero l’interdetto. Con la proibizione del culto ai fedeli, lo scontro assumeva contorni sociali imprevisti. Il Tribunale della Regia Monarchia invalidò ogni interdetto e riaprì le chiese: iniziò la caccia ai sacerdoti reprobi che venivano – se ostinati nel rifiuto di officiare i sacramenti in pubblico – arrestati ed espulsi dal Regno. Intanto, dal 13 luglio 1713, giorno della firma del trattato di Utrecht, la Sicilia aveva un nuovo Re: con Vittorio Amedeo II di Savoia la condotta dello scontro toccò il vertice della tensione. Obbligato dal trattato a far rispettare tutti i provvedimenti presi dai predecessori spagnoli (e fu operativa in questo senso, dal 7 febbraio 1714, una “Giunta per la conservazione e difesa delle Regalie del Regno di Sicilia”: la componevano i magistrati che ritroveremo protagonisti nella Recitazione di Sciascia) il nuovo sovrano conduceva intanto tentativi diplomatici presso la Santa Sede, destinati però a non ricevere benevola accoglienza. Firmata da Clemente XI il 20 febbraio 1714 e tenuta segreta e inattuata per quasi un anno (a far meglio inasprire la lotta) la bolla Romanus pontifex quem Salvator, pubblicata il 20 gennaio 1715, decretò infatti la soppressione del privilegio della Legazia Apostolica. Non toccherà al sovrano sabaudo la composizione dello scontro. Con lo sbarco a Palermo dell’esercito di Filippo V nel giugno 1718 (che rompeva gli accordi di Utrecht), si riapriva la lotta di successione al trono di Sicilia. Emissari spagnoli conclusero con la Santa Sede un accordo il 7 aprile 1719; non fu riaperta le questioni della Legazia e della legittimità del Tribunale della Regia Monarchia, ma da parte spagnola furono

Un limite che tenne per lo più lontani da quegli eventi anche

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