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Nel capitolo precedente abbiamo visto che anche i testi destinati alla lettura pubblica (recensioni, articoli, interviste, ecc.), oltre al carteggio, rappresentano un modo di comunicazione, diretta o indiretta, tra Pascoli e D’Annunzio. Due di questi, Il Commiato e la

Prefazione ai Poemi conviviali, fanno parte delle opere letterarie.1 D’Annunzio parla di Pascoli2 anche nella Contemplazione della morte, però questa, essendo stata scritta dopo la morte di Pascoli, è una specie di commemorazione, di ricordo del poeta e perciò merita di essere esaminata separatamente.

Il suo valore sta per lo più nel carattere memorialistico e lo sguardo che D’Annunzio getta indietro sulla storia del rapporto con Pascoli è puntato proprio sui momenti di cui

l’epistolario e gli altri documenti non conservano notizie: il primo e l’ultimo incontro.3

L’altra peculiarità di questo testo è che rappresenta una piccola rassegna di alcuni temi e motivi pascoliani usati a scopo narrativo fin dall’inizio:

Anche una volta il mondo par diminuito di valore.4 Quando un grande poeta volge la fronte verso l’Eternità, la mano pia che gli chiude gli occhi sembra suggellare sotto le esangui palpebre la più luminosa parte della bellezza terrena. Penso che Maria dolce sorella, la tessitrice dalle mani d’oro, a cui Giovanni

      

1 Dell’Alcyone e, appunto, dei Poemi conviviali.

2 La Contemplazione della morte è stata scritta «alla memoria di Giovanni Pascoli e di Adolphe Bermond», l’ospite

di D’Annunzio ad Arcachon in Francia. Contiene un prologo (A Mario da Pisa) e quattro prose (VII aprile MCMXII, XI aprile MCMXII, XV aprile MCMXII, XVII aprile MCMXII): la prima è dedicata a Pascoli, le seconda e la terza a Bermond; la quarta si ricollega alle due precedenti solo che è più intrisa di varie riflessioni e ricordi, tra cui anche quelle su Pascoli.

3 Maria nelle sue memorie ricorda qualche impressione di Pascoli dopo gli incontri con D’Annunzio, ma non riporta

le descrizioni dettagliate. La più dettagliata è quella del luglio 1897 contenuta in una lettera in cui Pascoli le scrive: «Ieri fui a colazione con Gabriele. Egli andò a comprare i poemetti. A tavola lesse l`ultimo. Lo ammirò. Lo rilesse forte a Rastignac (Morello) e De Bosis. Fu un piccolo coro di lodi. Gabriele è molto amabile, ma molto diverso. È raffinato ultra». (LVGP, p. 565).

4 «[...] risuonano le parole del Fuoco per la morte di Wagner: “– Riccardo Wagner è morto! – / Il mondo parve

diminuito di valore” [...]» (CM1, p. 86) «Anche nel Libro segreto viene detto per la lontananza della Duse: “... diminuito di valore non era il mondo, in assenza di lei, ma il mio grado di umanità” (qui a p. 1695)» (G. D’Annunzio, Contemplazione della morte in Id., Prose di ricerca, II, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005, pp. 2111-2185, p. 3710; d’ora in poi CM2). È da notare che D’Annunzio usa questa espressione poche volte e si tratta sempre dei personaggi reali (nonostante non venisse adoperata nei discorsi o nelle commemorazioni, ma nelle opere letterarie dove non importa se il personaggio è esistito realmente o meno) e, appunto, di grande fama – sceglieva con cura di chi parlare e a chi dedicare la sua attenzione, perché era consapevole di valorizzare così la propria opera.

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«Maria, dolce sorella» è la ripresa del modo in cui Pascoli si rivolge alla sorella nella

Prefazione ai Poemetti:6 «Dì, Maria, dolce sorella: c’è stato tempo che noi non s’udiva quella

voce?».7 Dei Poemetti si conserva al Vittoriale la seconda edizione uscita presso il Sandron,

Milano-Palermo, MCM (seconda edizione raddoppiata). Il volume8 reca segni di lettura

soprattuto nella Prefazione.

A Myricae, invece, rinviano «la tessitrice dalle mani d’oro» e il «funebre panno»: «O mani d’oro, le cui tenui dita / menano i tenui fili ad escir fiori [...] or m’apprestate quel che già

chiedevo / funebre panno, o tenui mani d’oro», Ida e Maria, vv. 1-14.9

Gli omaggi a Pascoli continuano poi con la citazione della Canzone d’aprile (Myricae) e con un’altra evocazione delle pagine della Prefazione ai Pometti:

E chi allora fu di lei più certo che nei cari occhi abbuiati dalla pressura scompariva anche l’allegrezza dell’aprile presente:

Fantasma tu giungi, tu parti mistero. Venisti, o di lungi? ché lega già il pero, fiorisce il cotogno là giù.10

[...]

Se imagino i suoi occhi nell’ultima ora e se imagino le rondini all’Osservanza «quelle dal petto rosso e dal petto bianco» traversanti pel vano della finestra nel cielo di Pasqua, mi torna alla memoria una sua

      

5 CM2, p. 2121. 6

 Il dettaglio è stato notato precedentemente anche dai commentatori del CM1 (p. 86) e del CM2 (pp. 3710-3711).

7 G. Pascoli, Poemetti, Sandron, Milano-Palermo, MCM, p. X. In CM2 si cita brevemente un altro passo della Prefazione: «Maria, dolce sorella: c’è stato tempo che noi non eravamo qui?». I Poemetti diventeranno i Primi poemetti a partire dalla terza edizione (1904).

8 Esaminato da noi personalmente. 9 CM1, p. 86; CM2, p. 3711. 10

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dì, mentre sto curvo sui libri, negli occhi attenti ad altro, la vertigine d’ombra del vostro volo!» Oggi riodo gli stridi delle sue compagne sotto le grondaie lontane, e vedo in que’ suoi occhi intenti ad altro la vertigine d’ombra. [...]11

D’Annunzio nella Prefazione segna a lapis verde: «[e vorrei avere tutto il dì,] mentre sto

curvo sui libri, negli occhi intenti ad altro la vertigine d’ombra del vostro volo!».12 La frase che

precede questa è: «O rondinelle dal petto rosso, o rondinelle dal petto bianco, se poteste andar d’accordo!», citata in parte all’inizio del passo sopra riportato: «[...] se imagino le rondini all’Osservanza “quelle dal petto rosso e dal petto bianco” [...]»; tuttavia D’Annunzio usa il motivo per descrivere l’atmosfera a casa di Pascoli in via Osservanza a Bologna, mentre nella

Prefazione ai Poemetti il motivo è associato alle atmosfere della casa di Castelvecchio.

Dopo questo attacco poetico e celebrativo, la memoria di D’Annunzio ci riporta al momento in cui si pensava che Pascoli avrebbe potuto presiedere una Fondazione d’Annunzio per il recupero di manoscritti e libri della Capponcina. Il progetto viene ostacolato dalla sua malattia e D’Annunzio, ovviamente preoccupato per il destino della sua biblioteca, telegrafa dalla Francia a Maria il 12 febbraio 1912: «Leggo stamani notizie che mi rendono inquieto. Prego telegrafarmi assicurandomi. Dica a Giovanni che gli sono vicino. Lo abbracci per me».

      

11 CM2, p. 2121-2122.

12 G. Pascoli, Poemetti, cit., p. IX. «[...] il passo evidenziato da D’Annunzio, relativo alla vertigine di volo delle

rondini [...] rinvia anche all’alcionia Lungo l’Affrico: “O nere e bianche rondini, tra notte / e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere / ospiti lungo l’Affrico notturno! / Volan esse sì basso che la molle / erba sfioran coi petti, e dal piacere / il loro volo sembra fatto azzurro...”[...]». (CM2, p. 3711). In pagina VIII della Prefazione D’Annunzio segna, ma non rielabora poi, il seguente passo: «E quel fringuello che canta così da vicino il suo francesco mio e il suo barbaspizio, non è stato sempre così vicino? non li abbiamo sentiti sempre quei più minuti e più confusi e più teneri chiacchiericci dei cardellini? quelle verlette (sono venute da poco a portare il caldo ), quelle canipaiole (vennero quando c’era da seminar la canapa; vennero a dirlo ai contadini), che sembrano ninnare i loro nidiaci con una fila di note sempre uguali; tonde, in gorgia, le prime, limpide e veloci e tristi, come un lamento di piccolo, le altre; non le abbiamo sempre avute nella nostra campagna? e non abbiamo sempre udito cantar gli sgriccioli, che hanno tanta voce e sono così piccini? gli sgriccioli che... parlano romagnolo?». E in pagina XI: «Sappiate che la dolcezza lunga delle vostre voci nasce da non so quale risonanza che esse hanno nell’intima cavità del dolore passato». La Prefazione non reca altri segni di lettura e tra i componimenti sono segnati solo i vv. 4-8 della poesia

Nella nebbia: «E c’era appena, qua e là, lo strano / vocìo di gridi piccoli e selvaggi: / uccelli sparsi per quel mondo

125  almeno non riceve notizie negative:

Lo credevo quasi guarito,14 o almeno fuor d’ogni pericolo. Notizie recenti mi assicuravano ch’egli fosse per tornare alle sue consuetudini cotidiane e per riprendere il lavoro designato. Venerdì notte,15 cedendo alla svogliatezza primaverile, lasciai a mezzo la mia pagina; e mi misi a sfogliare qualche libro di figure. Mi venne fatto di scorrere la raccolta delle acqueforti pascoliane di Vico Viganò. Per confrontare il ritratto inciso del poeta con una imagine d’esattezza fotografica, cercai il volume illustrato dell’Inno a Roma credendo che ci fosse. La memoria m’ingannava: non c’era. 16

D’Annunzio possedeva nella sua biblioteca l’Albo pascoliano, Canti di Giovanni Pascoli,

Acqueforti di Vico Viganò, Prefazione di Leonardo Bistolfi, Bologna, Zanichelli, MCMXI, che in

una delle prime pagine reca un’incisione del volto di Pascoli, mentre tra le lettere di Pascoli a D’Annunzio c’è una fotografia di Pascoli – forse D’Annunzio voleva vedere quella foto, ma non si ricordava che essa non faceva parte di un libro. Della foto non è chiara la provenienza, perchè non reca né la data né la dedica.

Avendo, quindi, in mano l’Hymnus in Romam, D’Annunzio sposta l’interesse verso essa, riportandone due citazioni (vv. 115-116 e vv. 112-114):

[...] mi soffermai su l’impronta dell’ascia sepolcrale; e rilessi i bellissimi esametri:

Ascia, teque eadem magnae devovit in oris omnibus Italiae, dein toto condidit orbe...

Anche una volta l’evocatore delle auguste forze scomparse aboliva nel mio spirito l’errore del tempo. Riconoscevo a quel dilattato respiro del mio sogno uno dei più alti suoi doni; perché certe sue evocazioni dell’antico si avvicinavano ai limiti della magìa. Qualcosa di magico è nella potenza repentina

      

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 In realtà si trattò della malattia prolungata che finì con la morte del poeta il 6 aprile 1912. «D’Annunzio ebbe la notizia del decesso da Rino Alessi del “Giornale del Mattino” di Bologna, al quale rispose la sera del medesimo giorno [...]: “Caro amico, ho dalla vostra parola l’improvviso annunzio. Lo [Pascoli] credevo convalescente e iersera gli scrivevo per augurargli la più rapida guarigione, il fresco vigore necessario a compiere tante opere meditate. [...]» (CM1, pp. VIII e 87).

14 V. la n. precedente (la lettera di D’Annunzio a Rino Alessi).

15 Fu il 5 aprile, l’ultima notte di vita di Pascoli, morto il sabato 6 aprile 1912. Il 7 aprile, quando D’Annunzio scrive

il primo capitolo della Contemplazione, era domenica.

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vedico pareva la sua stessa eco ripercossa dall’invisibile confino. «Ciò ch’io ti prendo, o Terra, racquisterai presto. Possa io, o pura, non ferire alcuna tua parte vitale, non il cuor tuo».

Roma sed existens e sulco pura cruento sacravit Terrae Matri, qua laeserat et qua esset per gentes omnes laesura, bipennem.17

Al Vittoriale ci sono due copie dell’Hymnus in Romam: Inno a Roma, testo latino e traduzione italiana, Bologna, Zanichelli, 1911 e Hymne à Rome, traduction de Luigi Stubbe, Lausanne, Rouge & C.ie, 1912. Solo la prima porta un segno di lettura a lapis verde accanto ai vv. 417-418: «Desuper ignoto capiti vigil imminet ignis / et priscum flamma non cessat lambere vulnus». D’Annunzio con le citazioni dell’Inno a Roma nella Contemplazione ricorda implicitamente il caso del mancato primo premio a Pascoli al concorso in poesia latina per il cinquantenario di Roma capitale, da lui criticato acutamente nell’intervista Come fu composto il

«San Sebastiano» uscita il 3 maggio 1911 sul «Corriere della Sera».18

Chiuso il libro dell’Inno, i suoni del «venerdì notte» evocano l’atmosfera dell’Ultimo

viaggio, apprezzato già nella lettera del 7 settembre 1904 («Non mi riccordo di aver avuto tanta

ebbrezza da alcun libro di poesia [Poemi conviviali]. Il cuore dell’Ulisside ancor trema davanti all’ Ultimo viaggio».):

La notte era tranquilla ma non serena, con istelle forse infauste, prese in avvolgimenti di veli e di crini. L’acqua dell’insenata non aveva quasi respiro, ma di là dalle dune e dalle selve l’Oceano senza sonno faceva il suo rombo. Nondimeno questa quiete comunicava con quel tumulto, e la sabbia di quella riva tormentosa era simile alla sabbia di questa che si taceva. Così talvolta, nella più agitata angoscia,un meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace. E dove dunque era per approdare l’Ulisse dell’Ultimo

viaggio? su questa o su quella riva?

      

17 CM2, pp. 2122-2123.

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dell’artista lombardo, né sapevo dove cercarne un’immagine precisa. E, se chiudevo gli occhi e mi sforzavo di ricomporne le linee sul fondo buio, il volto indistinto si dissolveva in bagliori.19

Dalla vanità dei tentativi di rintracciare nei libri e nella memoria il viso del poeta, scaturisce il ricordo del primo incontro, la parte più utile per il suo valore documentario. Sono acutissime le ossevazioni che riguardano le emozioni che intercorrono tra Pascoli e D’Annunzio:

[...] in verità egli [Pascoli] non s’era mai lasciato guardare da me fisamente.

La nostra amicizia soffriva d’una strana timidezza che non potemmo mai vincere perché i nostri incontri furono sempre troppo brevi. Era un’amicizia di «terra lontana» come l’amore di Gianfré Rudel, e per ciò forse la più delicata e la più gentile che sia stata mai tra emuli. Si alimentava di messaggi e di piccoli doni.20

Vediamo subito una parola che chiarisce molto il rapporto tra i due poeti: «emuli». Davanti a una definizione così netta e proveniente direttamente da uno dei due protagonisti non è

possibile negare l’esistenza della reciproca voglia di emulare.21 Sembra quasi un ossimoro dire

«la più delicata e la più gentile» amicizia «tra emuli» - la spiegazione si cela nell’espressione «amicizia di “terra lontana”», ‘interpretata’ da D’Annunzio stesso nel Libro segreto intendendo che grazie alla lontananza la loro amicizia riuscì a sopravvivere:

Il fiore dell’amicizia è un fiore di lontananza; ‘amistà di terra lontana’ si potrebbe dire come dell’amore di Gianfré Rudèl.

La comunanza della vita quotidiana logora anche l’amicizia. L’amicizia allontanata non invecchia.

Per Adolofo [de Carolis] mi sentivo sempre il giovine cavaliere in sella che sostava alla soglia della sua casa lungo il Mugnone. per Annibale [Tenneroni] mi sentivo sempre il giovane amatore di monne e di testi: quegli che parlave del bel libro come della muliere bella. per Ferdinando [Martini] mi sentivo sempre l’alunno del collegio di Prato, lo scrittore della prima novella, il novellatore quindicenne di ‘Cincinnato’.22

      

19 CM2, p. 2123. 20 CM2, p. 2123.

21 V. il paragrafo (Non)emuli.

22 G. D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire,

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vediamo il nome di Pascoli tra gli amici cui D’Annunzio era legato nonostante la lontananza. Infatti, subito dopo si espone il lato negativo delle amicizie «di ‘terra lontana’» dove si riconosce anche la figura di Pascoli:

Oimè, in contraddizione, al rimpianto si accompagna il rammarico di non aver da vicino assaporato l’amicizia degli ultimi anni: il rammarico delle neglette visitazioni, il rammarico delle neglette assistenze: il rimorso di non aver sofferto per loro allo spettacolo del male progrediente, allo spettacolo della morte urgente.

E l’angoscia di non avere abbastanza donato, e l’angosciosa domanda: ‘ora che donerò’? come dimostrerò il mio amore?’23

Queste righe sembrano scritte per Pascoli: i due si incontrarono solo tre volte, D’Annunzio prometteva di andare a trovare i fratelli Pascoli a Castelvecchio, ma non lo fece

mai24 e non assistette ai funerali di Pascoli, né gli fu vicino durante la malattia. E quanto ai

regali, è vero che quell’amicizia «si alimentava di messaggi e di piccoli doni» - il 7 settembre 1904 D’Annunzio scrive a Pascoli: «[...] ti mando una piccola catena a cui potrai sospendere quelle medagliette e quei talismani che ti son cari. [...]; e v’aggiungo un arnese da campagna fornito di varii ingegni», e sappiamo poi del panettone mandato alla fine del 1903 da D’Annunzio a Maria, che lo ringraziò con l’odicina pubblicata sul «Marzocco» (il panettone viene rispedito anche l’anno dopo, sempre a Natale: «Mando il dolce pane a Mariù», lettera del 30 dicembre 1904).

D’altra parte anche Pascoli evita i contatti da vicino con D’Annunzio: «Da prima egli temeva che la sua rusticità e la sua parsimonia mi dispiacessero, come io temevo che gli

increscesse la mia diretta discendenza dalla brigata spendereccia. [...]».25

      

23 Idem, p. 104.

24 D’Annunzio nelle lettere a Pascoli annunciava spesso una visita a Castelvecchio, mai realizzata: «Quando ci

vedremo? Poiché tu sei così schivo, bisognerà che io venga nella tua casa di Barga all’improvviso, con un ramoscello di lauro» (16 febbraio 1897); «Vorrei rivederti e parlarti. Forse nell’autunno verrò alla tua porta [...]» (16 luglio 1903); «Io spero di venire a Castelvecchio verso la fine di questo settembre» (3 settembre 1903); «Spero di poter salire a Castelvecchio, verso la fine di questo settembre» (7 settembre 1903).

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ne troviamo la conferma soprattutto nelle lettere spedite alle sorelle Ida e Maria durante il soggiorno romano del 1895:

Io vivo orribilmente qui. [...] Non vedo nessuno, non so nulla, non fo nulla. [7 giugno]

Domenica e lunedì, giorni di festa e di chiasso, io sono stato sull’orlo della disperazione. Non ho più colletti e polsini. Ho un caldo! un caldo! [11 giugno]

Ho sempre quei polsini coi quali venni, un colletto rovesciato. Mi vergogno. Le scarpe basse sono molto brutte, le altre mi fanno molto male. [13 giugno]

Mi sono vestito, ma tuona orribilmente e tra poco pioverà a torrenti. Come farò perché l’ombrello non lo posso acquistare, perché sono a stecchetto. [13 giugno]

Le scarpe gialle non mi vanno. Ho provato a farle allargare. [18 giugno]27

Quindi, D’Annunzio non ebbe quasi esperienze dirette della vita di Pascoli: «[...] la sorte volle ch’io non conoscessi il sapore del pane intriso rimenato e foggiato a crocette, secondo

l’usanza di Romagna, dalle mani di Giovanni e Maria».28 Gli rimasero in memoria solo le

descrizioni libresche, come in questo caso, dov’è «preciso il ricordo della prefazione ai Primi

poemetti: “Andiamo, buona sorella a fabbricarci il nostro pane [...], che ci sembra poi così

buono, né solo perché fatto a crocette, come è usanza della nostra Romagna [...], ma perché

intriso, rimenato e foggiato dalle nostre proprie mani!”».29 Neanche la vicinanza fisica li indusse

      

26 In realtà Pascoli si sentirà sempre inferiore di D’Annunzio per la diversità dei modi di vivere e glielo dimostra

chiaramente nella lettera del 20 luglio 1903 (con la quale risponde all’anuncio della visita di D’Annunzio del 16 luglio – v. la n. 26): «Mio Gabriele, non vedo l’ora di stringerti quella mano che scrive cose tanto alte per tutti e così dolci per me [...]. E se te la potrò qui, in questa casa diroccata e mal fornita, bene: sono certo io, sebbene la mia sorella già tema, che tu compatirai». Gli scrive ancora il 5 settembre dello stesso anno (rispondendo alla sua lettera del 3 settembre – v. sempre la n. 26): «Maria è tanto lieta di codesta venuta! E si ricorda le tue parole d’un giorno: – Non ci son uova a Castelvecchio?». D’Annunzio, temendo che «gli increscesse la sua diretta discendenza dalla brigata spendereccia», risponde il 18 settembre: «Vedo che la tua dolce Maria mi crede sul serio un sibarita stillante d’unguenti ! In questi giorni ho portato meco, sul cavallo, una bisaccia; ho mangiato pane e cacio; e ho dormito su una stoia, come un padre del Deserto. Ed ero felice».

27 LVGP, pp. 430-440. 28 CM2, p. 2124.

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perché ci sembrava pur sempre che qualcosa delle nostre persone facesse ingombro alla

familiarità dei nostri spiriti».30

La Pania, che separa la Versilia da Castelvecchio, ispiratrice di un passo della lettera pascoliana del 20 luglio 1903 («Oh che bel giorno sarà quello, in cospetto della Pania sublime che per un pezzo abbiamo contemplata tutti e due, sebbene tu da una parte e io da un’altra; ma nel medesimo tempo, con lo stesso cuore!») e conseguentemente di alcuni versi del Commiato

alcionio31, si incontra come uno dei motivi anche in Maia, (Laus vitae, 20, v. 139: «di là dalla

Pania su l’aspra»), Alcyone (Undulna, v. 87: «La Pania di marmi ferace»; Feria d’Agosto, v. 20: «la cruda Pania»; Il Commiato, v. 92: «[...], o Pania!», L’Alpe sublime, v. 15: «tra la Pania e la Tambura,») e nei Canti di Castelvecchio (The hammerless gun, v. 22: «[...] leva la Pania alto la fronte»; Diario autunnale, v. 7: «la neve è sulla Pania solitaria»; Il ritorno delle bestie, vv. 17-

18: «C’è un falcetto lucido ancora, / sulla Pania al fior del sereno»).32 Accomuna così i due poeti

anche sul piano poetico, almeno come punto di riferimento che unisce e divide. E D’Annunzio annovera Il Commiato tra i doni a Pascoli: «Di Boccadarno io gli mandai un di quei coltelli

ingegnosi che hanno nel manico tuttu gli arnesi del giardiniere, dalle cesoie al potaiolo.33 Di

Versilia gli mandai un’ode incurvata in ghirlanda con l’arte mia più leggera».34 È una

rielaborazione dei vv. 149-152 del Commiato: «Ospite immacolato, a te mi manda / il fratel tuo

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