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Corpi, rappresentazioni e azione politica

3.1. Soggetto e corpo nel pensiero femminista

Il femminismo è la corrente di pensiero che probabilmente per prima ha inteso il peso politico del concetto di corpo e che proprio a partire da questo punto ha sviluppato una critica all’ordine dominante e una teoria dell’azione politica, volta a produrre un cambiamento in direzione dell’uguaglianza reale tra i sessi. Dal punto di vista politico, il pensiero femminista ha indubbiamente origine dalla matrice liberale, ma a partire da essa ha elaborato un’estrema varietà di approcci al problema della disuguaglianza tra i sessi che rende del tutto inadeguata la sua ricostruzione nella forma di una storia lineare della sua evoluzione. Di questa inadeguatezza è un testimone sicuro il fatto che nelle modalità in cui oggi si affronta a livello istituzionale (e non solo) la ‘questione femminile’, per usare un termine ormai desueto, sono ancora largamente presenti temi e problematiche che hanno contraddistinto l’opera delle prime esponenti del movimento. Di conseguenza, senza alcuna pretesa di esaustività descrittiva del pensiero femminista nel suo insieme, nel seguito si cercherà di concentrarsi sui presupposti teorici del femminismo, tentando di mettere in luce le connessioni che essi instaurano fra il tema del corpo e quello del soggetto.

Come nota Adriana Cavarero, pur nella sua varietà interna184 il

184 Come sottolinea Cavarero, già parlare di un pensiero «[...] femminista, riunendo sotto un

unico termine posizioni molteplici e persino conflittuali, costituisce un problema. Nell’epoca presente […] tale problema è ancora più evidente. Basti pensare alle difficoltà del linguaggio – pur inteso nella sua valenza minima di lessico o terminologia – afferente alle diverse posizioni. Per esempio nel femminismo di lingua inglese è comunemente adottata la distinzione tra sex e gender. Il termine sesso indica il fenomeno biologico della differenza fra uomini e donne, ciò che distingue il maschile dal femminile; genere indica invece la costruzione culturale che definisce l’uomo e la

pensiero femminista è accomunato dalla trattazione di tre temi fondamentali: quello della critica al patriarcato, quello dell’uguaglianza tra uomini e donne e quello del soggetto. Sin dalle prime rivendicazioni di Mary Wollestonecraft la logica argomentativa della riflessione femminista è già pienamente riconoscibile. La differenza sessuale è intesa come il principio della discriminazione tra un sesso dominante e uno dominato che determina la superiorità del maschile tipica di tutta la cultura occidentale, dalle sue origini greche185 sino ai giorni nostri. In tal senso, nell’ottica femminista la tradizione culturale dell’Occidente appare patriarcale sin dalle sue prime attestazioni, ed è appunto tale originaria discriminazione che produce la subordinazione pressoché universale della donna agli interessi dell’uomo, che è riscontrabile ovunque nella storia.

Un secondo punto teorico attorno al quale il movimento si è coagulato, può essere individuato nel tentativo di definire il funzionamento dell’ordine patriarcale in quanto sistema di natura storico-sociale che produce la disuguaglianza tra i sessi, intesa come momento preliminare alla definizione di una strategia efficace affinché essa possa essere superata. Ciò implica, ovviamente, una definizione del soggetto femminile in cui il tema dell’uguaglianza s’intreccia con quello del corpo e tale da rendere conto sia della modalità attraverso cui il soggetto femminile è sottomesso, sia di quella della sua emancipazione.

donna, ossia il maschile e il femminile. Nel pensiero femminista italiano è invece egemone il termine differenza sessuale che proviene dalla lingua francese di Luce Irigaray e indica sia il dato biologico che l’ordine simbolico, sia la morfologia corporea sia il lavoro dell’immaginario, alludendo alla loro inscindibilità» (A. Cavarero (2002), Il

pensiero femminista. Un approccio teoretico, in A. Cavarero e F. Restaino (2002), Le filosofie femministe, cit. p. 78). Sulla diversa connotazione che la distinzione tra sesso e

genere assume in tradizioni linguistiche diverse, delimitando campi di studio non perfettamente coincidenti vedi anche E. Varikas, (2009), Il sesso e il genere.

L’esclusione delle donne nelle società moderne, Edizioni Alegre, Roma.

185 Sul rapporto tra il pensiero femminista e la filosofia greca un’utile introduzione è

costituita da S. Lovibond (2000), Feminism in Ancient Philosophy. The feminist stake in greek rationalism, in M. Fricker e J. Hornsby (2000), The Cambridge Companion to

Feminism in Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 10-28; un

esempio di come il pensiero femminista riscopre nella filosofia greca l’esclusione della donna può essere trovato in A. Cavarero (1990), Nonostante Platone. Figure femminili

Secondo Wollstonecraft, ad esempio, il problema della disuguaglianza tra uomini e donne era di natura principalmente educativa e cognitiva, nel senso che la differenza sessuale determinava l’inserimento obbligato in un sistema educativo che imponeva una formazione differenziata per gli individui di sesso maschile e per quelli di sesso femminile. In particolare, alle donne era insegnato a investire più sul corpo che sulle capacità intellettive, a dedicarsi a compiti e mansioni specifiche, come la cura dei figli e del focolare domestico. In tal modo, se ne circoscriveva l’esistenza a una dimensione protetta ma allo stesso tempo artificiale, quella privata, esclusa dalle pressioni della vita pubblica, ma anche dalle utili stimolazioni che questa offriva:

Le donne si trovano dovunque a vivere in questa deplorevole condizione: per difendere la loro innocenza, eufemismo per ignoranza, le si tiene ben lontane dalla verità e si impone loro un carattere artificioso, prima ancora che le loro facoltà intellettive si siano fortificate. Fin dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna e la mente quindi si modella sul corpo e si aggira nella sua gabbia dorata, contenta di adorarne la prigione. Gli uomini [al contrario] possono scegliere attività e occupazioni diverse che […] concorrono a dare un carattere alla mente in formazione. [Tuttavia, questa deplorevole condizione permette alle donne di ottenere] il potere per vie traverse, praticando o favorendo il vizio, [...ma] nel momento in cui acquisiscono quel potere, perdono ogni semplicità e dignità mentale, e agiscono come si vedono agire gli uomini che sono saliti al potere con gli stessi mezzi186.

Per quanto riguarda invece l’uso delle facoltà intellettive, Wollestonecraft scrive:

[Sia agli uomini che alle donne] per diventare rispettabili è necessario l’esercizio dell’intelligenza, che è elemento indispensabile per l’indipendenza del carattere,

186 M. Wollstonecraft (1977), I diritti delle donne, Editori riuniti, Roma, a cura di F.

[… ma] è la necessità che affina le facoltà intellettive [...], se non c’è questo esse rimangono intorpidite187.

Ne risulta una condizione che, se è in parte condivisa, va comunque a maggior svantaggio delle donne:

Le donne, assieme agli uomini, sono rese deboli e amanti del lusso dai piaceri rilassanti che il benessere procura; ma in aggiunta a questo, sono rese schiave della propria persona, e devono renderla attraente in modo che l’uomo presti loro la sua ragione per guidarne bene i passi malsicuri. Oppure, se sono ambiziose, devono governare i loro tiranni attraverso espedienti sinistri, perché senza diritti non possono esserci doveri che obbligano. Le leggi relative alla donna […], sanciscono un assurdo insieme di marito e moglie; e poi, con un facile passaggio in cui si considera solo lui responsabile, la si riduce a una nullità188.

E’ possibile rintracciare sottotraccia allo scritto di Wollstonecraft una riflessione sul corpo che contraddistingue tutta la sua opera e che la colloca su posizioni vicine a quelle delle aree più radicali dell’illuminismo, quali quelle rappresentate dal suo compagno William Godwin. L’ottica che essa assume è, infatti, quella della valorizzazione assoluta della razionalità umana intesa però in senso minimo come ciò che accomuna l’intero genere umano a prescindere dal sesso. La disuguaglianza è di conseguenza intesa come disuguaglianza nello sviluppo delle facoltà intellettive, mentre il corpo è concepito come portatore di una differenza accidentale che dev’essere superata, in quanto può costituire una sorta di limitazione allo sviluppo di una ‘dignità mentale’ in due sensi distinti. Da un lato, il soddisfacimento dei bisogni fisici, legati alla sopravvivenza, è ciò che costringe le classi più popolari a un’esistenza priva di spessore culturale. I membri di queste classi sono costretti a fare del proprio corpo l’unico strumento attraverso cui garantirsi la sopravvivenza nella società. Le classi più agiate, al contrario,

187 M. Wollstonecraft (1977), I diritti delle donne, cit., p. 137. 188 M. Wollstonecraft (1977), I diritti delle donne, cit., pp. 276-277.

hanno la possibilità di sviluppare le proprie facoltà intellettive superiori proprio perché su di loro le pressioni del bisogno sono più lievi.

Tuttavia, questo vantaggio può avere effetti negativi, in quanto il lusso e le comodità divengono un ostacolo al confronto con quelle asprezze della vita concreta che costituiscono l’occasione fondamentale di ‘esercizio dell’intelligenza’ e il presupposto necessario alla formazione del ‘carattere’. Secondo Wollstonecraft, le donne sono sottoposte a entrambe queste limitazioni a prescindere dalla classe di appartenenza. Anche se provengono da classi agiate, e sono quindi libere dalla schiavitù imposta dal bisogno, la loro educazione pone in primo piano la cura del corpo rispetto a quella dell’intelligenza e, in secondo luogo, la funzione di madri che è stata loro assegnata dalla natura giustifica il loro isolamento dallo spazio della vita pubblica, considerato per loro dannoso189.

A causa di questa carenza educativa, la stragrande maggioranza delle donne non possono che apparire frivole, irrazionali, incapaci di riconoscere quali sono i loro veri doveri di madri e di mogli, e, quando riescono a imporre la propria volontà, non possono farlo che con il piglio odioso del tiranno, ovvero secondo le stesse modalità degli uomini che raggiungono una posizione di potere senza aver debitamente sviluppato la loro razionalità. Di conseguenza, la proposta di Wollstonecraft non è una diretta contestazione del ruolo sociale di madre e di moglie che la donna occupa, piuttosto è la rivendicazione del fatto che questo ruolo può essere giocato in molti modi diversi senza essere snaturato nella sua sostanza, anzi apportando miglioramenti all’intera società.

Il suo pamphlet è una chiamata a raccolta di quelle donne che all’interno delle classi più agiate avevano ricevuto una formazione più equilibrata e che potevano testimoniare con la loro ‘dignità mentale’ che le ‘frivolezze’ femminili erano un prodotto dell’educazione, ma la sua proposta politica è rivolta ai padri, ai mariti, ai figli, a coloro, cioè, che

189 Non a caso, l’espressione ‘donna pubblica’ era sinonimo di ‘donna di dubbia moralità’

dispongono di un potere sulle donne sancito dalla legge e dalla tradizione. A questi uomini, Wollstonecraft cercava di dimostrare la necessità di eliminare le limitazioni giuridiche e consuetudinarie che condannavano le donne all’ignoranza, subordinando lo sviluppo delle loro capacità intellettive a quello di alcune caratteristiche fisiche. Questa eliminazione, che avrebbe dichiarato l’uguaglianza di principio tra uomini e donne, avrebbe condotto a sua volta all’eliminazione delle limitazioni pratiche consuetudinarie che escludevano le donne dalla piena partecipazione alla vita pubblica in nome di una tradizione dannosa e ormai desueta.

Possiamo dire che Wollstonecraft elabora una teoria della relazione tra esperienza concreta e razionalità che individua nel corpo, coerentemente con quella che era la consuetudine della sua epoca, il potenziale limite allo sviluppo delle facoltà intellettuali. Sebbene la pensatrice descriva il corpo come in grado di sviluppare una particolare forma di potere, tale potere è incapace di produrre alcunché di diverso dal bene personale del singolo attraverso la soppressione del bene della comunità. Tuttavia, se le donne dispongono di questo potere, ciò non deve essere inteso come espressione di una soggettività intrinsecamente ostile che giustificherebbe la loro esclusione. La sua lettura sottolinea che la relazione tra quelli che potremmo definire fattori sociali e la soggettività è decisamente sbilanciata verso i primi: l’essere umano, nelle sue caratteristiche distintive di specie, ovvero la ragione intesa come capacità di definire il giusto limite entro cui il bene personale coincide con quello della comunità, è del tutto determinato dall’ambiente nel quale si sviluppa. Esso sarà subordinato o meritevole di esclusione solo se gli sarà impartito un certo tipo di educazione o se sarà costretto (ad esempio per nascita) a non potersi permettere quel distacco dalle pressioni del bisogno tale da garantire lo sviluppo dell’intelligenza.

Da questo punto di vista, donne e uomini sono sostanzialmente uguali (come lo sono gli appartenenti a classi sociali diverse), ma formalmente diversi. Quindi, la lotta per l’emancipazione della donna deve essere concepita come la rimozione degli ostacoli formali che confinano le

donne nella sfera privata e indirizzata a favorire il loro ingresso in quella pubblica concepita come lo spazio in cui, grazie all’esercizio della razionalità, le donne possono cogliere il giusto ed essere uguali agli uomini e costruire una relazione collaborativa tra i sessi. La proposta di Wollstonecraft, consiste, dunque, nella rivendicazione dell’allargamento del principio di uguaglianza anche alle donne, nel senso che la legge deve riconoscere loro gli stessi diritti sociali e politici degli uomini in modo da favorire la loro uscita dalla ‘deplorevole condizione’ in cui sono costrette e la loro partecipazione alla vita pubblica.

L’affermazione di Wollstonecraft secondo cui anche le donne sono dotate di razionalità fu considerata, ovviamente, scandalosa. Tuttavia, risolvere il problema della parità e dell’emancipazione femminile attraverso l’uguaglianza di fronte alla legge si è configurato come un problema più che come una soluzione per il pensiero femminista, dato che, nonostante a partire delle prime rivendicazioni le donne abbiano raggiunto al prezzo di dure battaglie numerosi riconoscimenti dal punto di vista delle codificazioni del diritto (si pensi ad esempio al diritto di voto, a quello di accedere all’istruzione o alle carriere militari), la disuguaglianza può essere ancora oggi ben documentata anche nelle democrazie più avanzate, nonostante la parità tra i sessi sia formalmente riconosciuta. Molte femministe hanno quindi connesso la persistenza della disuguaglianza alle modalità in cui i regimi democratici intendono l’uguaglianza. La critica principale che il pensiero femminista ha sollevato consiste nell’idea che nonostante questi regimi facciano dell’uguaglianza il loro emblema, la sua definizione in termini formali e astratti (in senso giuridico, come uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge) non tiene conto del fatto che le donne, per raggiungere una parità effettiva nel contesto delle limitazioni concrete imposte loro dalla mentalità patriarcale, necessitano di cambiamenti sostanziali aderenti, ad esempio, alla distribuzione della ricchezza e dei salari e alla distribuzione delle responsabilità in relazione al lavoro domestico e di cura dei figli, senza i quali il riconoscimento formale risulta

del tutto inefficace.

A tal proposito, la critica femminista rivela che la distinzione tra pubblico e privato proposta dagli ordinamenti democratici fa coincidere tradizionalmente il privato con il luogo in cui vengono relegate tutte quelle istanze che non giudica compatibili con l’imparzialità e la neutralità190: in tal senso, la donna può essere uguale solo se rinuncia a mettere da parte tutto l’insieme di ruoli e significati culturali che sono tradizionalmente associati con la sua figura. Di conseguenza, la stessa possibilità di una neutralità effettiva di una sfera pubblica definita in questo modo è, dal punto di vista delle donne, minata in partenza, dato che questa condizione viene realizzata solo a partire dall’esclusione di tutto ciò che è associato con la vita familiare e l’emotività, cioè di tutti quegli aspetti della vita sociale associati con la figura della donna. In questo senso, il contesto democratico impone alle donne la rinuncia alla loro specificità rispetto all’uomo in virtù dell’avvicinamento a parametri di razionalità, autonomia e indipendenza modellati su un’idealizzazione del maschio abile e bianco, che si presenta, a un esame critico, come disfunzionale e troppo costosa, in quanto generatrice di conflitto.

Su questo terreno, la critica femminista ha quindi messo in evidenza, trovando assonanze con la critica all’universalismo politico di tipo culturalista e comunitarista191, come l’esclusione perpetrata in nome della concezione di neutralità della sfera pubblica declinata in termini formali non sia condotta ai danni delle sole donne, ma anche nei confronti di sistemi di legami e relazioni che pure costituiscono parte inscindibile della condizione umana, quali quelli rappresentati, appunto, dalla famiglia e dalla comunità, e

190 Drucilla Cornell, ad esempio, traccia una lettura critica dei concetti di base dell’ideale

democratico da Kant alle contemporanee teorie di Rawls, mettendone in evidenza i pregiudizi sessisti sia dal punto di vista linguistico che da quello concettuale, soprattutto in relazione alla definizione di una sfera pubblica. Cfr. D. Cornell (1998), At the heart

of freedom. Feminism, sex and equality, Princeton University Press, Princeton.

191 Sulle intersezioni tra femminismo e multiculturalismo vedi ad esempio A. Shachar

(2007), Feminism and multiculturalism. Mapping the terrain, in Multiculturalism and

political theory, Cambridge University Press, Cambridge, a cura di A.S. Laden e D.

che di frequente si pongono in concorrenza o in aperto contrasto con la relazione tra stato e individuo così come è intesa dal modello neutralista. Secondo Nancy Fraser, di contro ad esempio alle teorie di Jürgen Habermas, occorre riconoscere che è decisamente improbabile che sia possibile elaborare procedure democratiche neutrali mettendo fra parentesi differenze e disuguaglianze rilevanti come quelle tra uomini e donne. L’affermazione di una sfera pubblica universale e neutrale presuppone «uno spazio contraddistinto da una sorta di grado zero di cultura, talmente sterilizzato da qualsiasi ethos specifico al punto da accogliere con neutralità perfetta e uguale agio interventi espressione di qualunque ethos culturale»192.

Dato che le procedure democratiche sono messe in atto da individui in carne e ossa, che inevitabilmente portano con sé i condizionamenti e i pregiudizi di tipo socio-culturale del proprio particolare background, i moderni stati democratici, in definitiva, possono dichiararsi egualitari solo in quanto presuppongono un modello astratto di individuo che assicuri che particolarismi e differenze non contaminino i modelli di partecipazione che essi propongono. Ma questo modello, non tenendo conto delle condizioni reali e delle limitazioni concrete imposte ai singoli, che Fraser considera come risultanti dall’intersezione della disuguaglianza di genere con quella di classe, risulta dal punto di vista femminile del tutto fittizio o immaginario e, allo stesso tempo, capace di determinare effetti concreti quali la conservazione della disuguaglianza tra i sessi e tra le classi sociali, il disagio della donna e la stessa impossibilità di successo d’interventi volti ad affermare realmente l’uguaglianza.

In definitiva, ciò che queste critiche mettono in discussione è la relazione tra rivendicazione dell’uguaglianza formale ed emancipazione concreta. Se agli albori dell’ideale democratico, come risulta chiaramente ad esempio nel pensiero di Wollstonecraft, il riconoscimento formale dell’uguaglianza aveva una carica rivoluzionaria in quanto era considerato

192 N. Fraser (1997), Justice interruptus. Critical reflections on the postsocialist condition,

in grado di provocare simultaneamente l’emancipazione, ciò che permette di rilevare una fondamentale assonanza con il pensiero anarchico delle origini, la storia sembra dimostrare che la realtà concreta, ossia l’insieme delle pratiche quotidiane, è resistente al cambiamento suggerito dalle modificazioni dell’ordinamento giuridico, rivelando una fondamentale discontinuità. È importante sottolineare che nel pensiero femminista l’idea che la distinzione critica tra un livello formale e uno sostanziale dell’uguaglianza e l’identificazione, che smentisce la posizione originaria di Wollstonecraft, di una relazione non consequenziale tra questi due piani non implica necessariamente il rifiuto dell’idea che lo stesso ideale di uguaglianza sia abbandonato. Se il pensiero femminista concorda sul fatto che nella teoria democratica contemporanea l’uguaglianza formale corrisponda a una reale uguaglianza solo per i maschi bianchi (e a un esame più approfondito solo per alcuni di essi), e che, dunque, questo ideale è viziato in partenza, una sua porzione rilevante ha concentrato i propri sforzi proprio nella definizione di nuovi possibili modelli di uguaglianza che siano in grado di recepire la differenza entro il quadro democratico.

Come nota Janice McLaughlin nel suo lavoro ricostruttivo193, in maniera sintetica possiamo dire che questi tentativi mettono in luce la necessità di concepire l’uguaglianza non semplicemente come uguaglianza di opportunità, ma anche come uguaglianza di risultati; di favorire l’uguaglianza economica e materiale rispetto all’uguaglianza politica; di elaborare un modello di soggetto politico in grado d’incorporare le differenze collettive e individuali svincolandosi dal troppo astratto soggetto politico della tradizione democratica. Queste proposte hanno condotto alla

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