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Crisi dell’identità: quid novi?

Esiste un coro a più voci, composto da vari filoni di pensie- ro (gli studi femministi sulla identità multipla, il poststrutturali- smo, il relativismo post-moderno1) che si accorda su un mono-

tono: oggi più che mai assistiamo alla proliferazione delle ap- partenenze a cui ciascuna/o di noi è, in varie forme e modalità, obbligata/o, e a cui deve far fronte con difficoltà crescenti. A ben vedere, ciò di cui parla è la crisi del cosiddetto ‘io medio sociale’, la figurazione, relativamente stabile per periodi deter- minati, del punto di raccordo fra l’elemento individuale e l’ele- mento sociale di cui ogni soggetto empirico è costituito; in tale figurazione sono stati trasfusi elementi contenutistici e selettivi molto precisi e dirimenti rispetto a ciò che è chiamata norma- lità sociale.

Ricordiamo che il self è struttura procedurale, sintesi selet- tiva, da intendersi nel significato di prestazione formale aperta negli esiti e non irrigidita in valori, tradizioni, princìpi etici con- tenutisticamente determinati. Eppure, l’io medio sociale tipico per le nostre compagini collettive, ed in cui indebitamente ma diffusamente si fa confluire il self, è considerato qualcosa di

1Come esempi, si vedano: R. BRAIDOTTI, Metamorphoses. Towards a Ma-

terialistic Theory of Becoming, Polity Press, Cambridge 2002; ID., Nuovi sog-

getti nomadi, Sossella, Roma 2002; H. KEUPP, “Auf der Suche nach der verlo- renen Identität”, in ID., Riskante Chancen. Das Subjekt zwischen Psychokultur

und Selbstorganisation, Asanger, Heidelberg 1988, pp. 131-151; W. WELSCH, Ästhetisches Denken, Reclam, Stuttgart 1990.

molto più fragile e discutibile di quanto non fosse vent’anni fa. Si parla oggi fra l’altro di saturated self, lo si mette in connessio- ne con le trasformazioni di ordine globale, e riguardanti in pri-

mis i codici simbolici della comunicazione, che veicolano incer-

tezza accanto e mediante le informazioni stesse. La saturazione dell’io medio sociale si vede compiersi ad opera di tecnologie legate alla comunicazione di immagini e stili di vita, provenienti da altrove, ossia da culture, da generi, da professioni, da strati sociali diversi dai propri. I mezzi tecnici, dai più antichi ai più recenti – macchina fotografica, telefono, radio, televisione, fax, cinepresa, videoregistratore, computer, WorldWideWeb, Ict – si trasformano incessantemente cumulando i loro effetti e mol- tiplicando tanto le potenzialità espressive, quanto gli obblighi e le aspettative a cui l’io deve far fronte. Il singolo intreccia sem- pre nuovi contatti e relazioni; nel contempo è costretto a giusti- ficarsi, davanti a se stesso e ai numerosissimi ‘altri significativi’, per dover soddisfare sempre nuove pretese insorgenti dall’am- pliamento delle proprie capacità ricettive rispetto al mondo. Questo sovraccarico di incombenze e responsabilità produce in ciascuno incertezza sulle priorità da dare ai vari adempimenti. ‘L’ordine del giorno’ va continuamente contrattato con se stessi e con gli altri. Nei casi più gravi il singolo smarrisce la capacità di darsi forme coerenti di autointerpretazione, e vede sfilacciar- si il proprio progetto di vita.

Se tale diagnosi corrispondesse a verità, l’identità come self parrebbe incapace di fronteggiare le sfide della differenza e del- la complessità. Per alcuni tale condizione non sarebbe depreca- bile; la frammentazione dell’io sociale è salutata anzi come un evento liberatorio. Vi sono autori postmoderni che, sulla scia di F. Lyotard, pongono l’accento sulla possibilità di affinare la sen- sibilità per le differenze, e di imparare a tollerare l’incommen- surabile, ciò che è irriducibile ai nostri consueti ideali di verità e di comportamento razionale; anche questi costrutti appaiono del resto altrettanto poco universali quanto lo sono i prodotti di ogni altra cultura. L’arte romantica dell’ironia verso se stessi e il proprio mondo parrebbe affine alla migliore delle virtù post- moderne, la decostruzione irriverente. Tuttavia, qualora essa si ritraducesse in un relativismo culturale autoreferenziale nella

propria icastica autodistruttività, si ridurebbero drasticamente anche gli spazi concettuali e politici per una rimodulazione an- cora ‘fruibile’ della sfera individuale e collettiva dell’identità moderna.

Non dimentichiamo che i forti limiti del linguaggio emanci- pativo della modernità discendono in gran parte dai debiti che esso ha verso la prospettiva atomistica relativa alla concezione del soggetto quale individuo nucleico, libero e autonomo, privo di relazioni, di legami e di dipendenze. Tale visione, come tale, riprodotta nell’espressione dell’unencumbered self di Michael Sandel, viene attribuita in forma tipica alla tradizione liberale classica, e criticata per tale aspetto sia all’interno dei gender stu-

dies che della riflessione dei communitarians. A questo punto si

può azzardare un’ipotesi; l’idea solipsistica di soggetto è tipica della tradizione filosofica continentale e ha permeato i modelli di soggettività come i precipitati sociali e politici che ne deriva- no, con conseguenze sulla vita dei singoli e delle istituzioni. Ma se ciò di cui viene decretata la crisi è il modello concettualmen- te e storicamente ad esso alternativo, il self di origine pragmati- stica, che è inconcepibile se configurato nei termini di un duali- smo fra singolo e società, sorgono dubbi sulla fondatezza del- l’asserzione, e della diagnosi corrispondente. Vi è consapevo- lezza della differenza, o si tratta più semplicemente della crea- zione capziosa e tendenziosa di un avversario di comodo, più facile da abbattere? Se questo fosse il caso, decretare e pratica- re sbrigativamente un congedo senza ritorno né rimpianti dal

self non sarebbe una soluzione così facilmente accettabile, ben-

sì sicuramente più complicata. Inoltre, ammettendo che si pos- sa decidere pro o contro il self di pragmatistica memoria, pos- siamo dire che a favore della liquidazione di esso si pronunci anche Taylor? Se sì, dovremmo valutare se con buoni o cattivi argomenti, e con quali implicazioni.

La riflessione del filosofo è sicuramente meditata e attenta rispetto al tema dell’ancoraggio delle forme di costruzione del

self alla buona o cattiva salute in cui versa la ‘vita etica’ (e non

solo le strutture formali di socializzazione !), vale a dire gli stili di vita, di giudizio e di pensiero, le prassi contestuali e comuni- tarie di riferimento essenziali ad una società politica ben ordi-

nata, aliena da patologie sociali autodistruttive. Su di un aspet- to fondamentale, al di là di ulteriori consonanze, più discutibili, Taylor è in sintonia con l’autore della Filosofia del Diritto. Tay- lor sembra accettare, tramite la nozione hegeliana di spirito og- gettivo, il punto di vista secondo cui la realtà sociale è permeata da principi razionali, in altri termini da una struttura costitutiva e internamente regolativa, discostarsi dalla quale implica conse- guenze rilevanti sulla tenuta del nostro equilibrio interiore, mo- rale e cognitivo, nonché sul buon svolgimento delle nostre in- combenze sociali. Addirittura, scontrarsi con quei fondamenti razionali, con i quali le nostre pratiche sociali sono, quali preci- pitati etici, da sempre intrecciate, provoca alla realtà sociale nel suo complesso danni e lacerazioni2. Come Honneth suggerisce

a proposito di Hegel, anche per Taylor ciò che distingue la sua impostazione da quella di autori vicini a Kant e al kantismo è una radicata convinzione, di rango sistematico: prima delle ar- gomentazioni morali o apologetiche attinenti la conformità del- le scelte individuali a principi soggettivamente eletti, ciò che viene in ordine di importanza, negli studi sulle prassi collettive, è la comprensione ed esplicitazione della realtà sociale come in- corporazione di ragioni extrasoggettive e strutturali3. Il rilievo

principale conferito agli argomenti di ontologia sociale si situa su questa linea di pensiero. Per tal motivo, è divenuto impre- scindibile un breve esame dell’opera sull’identità di Taylor, il fi- losofo che più di ogni altro contemporaneo ha inteso tale no- zione quale via d’accesso ad una autocomprensione non distor- cente, e funzionale all’adeguato compimento delle nostre con- crete prassi politiche e sociali.

2A. HONNETH, Leiden an Unbestimmtheit. Eine Reaktualisierung der

Hegelschen Rechtsphilosophie, Reclam, Stuttgart 2001 [trad. it. di A. Carneva-

le, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di

Hegel, ManifestoLibri, Roma 2003, p. 43].

3Ivi, pp. 73-76.

4.