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CRISTIANESIMO E MODERNITÀ

F ILOSOFIA DELLA R ELIGIONE E S TORIA

III. CRISTIANESIMO E MODERNITÀ

Jemehr ist eins Unsichtbar, schicket es sich in Fremdes. (F. Hölderlin, Was ist Gott?)

1. La mediazione di sé con sé dello spirito assoluto

Il percorso intellettuale jenese, il cui principale risultato può essere ravvisato nel modo radicalmente nuovo di pensare il rapporto tra finito e infinito, conduce Hegel anche a una reinterpretazione della religione cristiana e dello stesso concetto di Dio. La contraddittorietà che il filosofo aveva diagnosticato già a Frankfurt come la più caratteristica e irremovibile tra le problematiche del cristianesimo, cui occorreva porre rimedio ancora con il rischiaramento delle dinamiche retrive connaturate al fenomeno religioso in quanto tale, è ora compresa entro il contesto qualitativamente trasformato di una interna quanto ineludibile dialetticità del Geist. Ciò che in passato aveva costituito il bersaglio della critica al cristianesimo, dopo Jena diviene quindi non solo il punto di forza di quest’ultimo ma anche l’attestazione della sua superiorità, intesa nel senso di una maggiore completezza concettuale, rispetto alle altre religioni.

È proprio la definizione fenomenologica del cristianesimo nei termini di offenbare

Religion, dunque con esplicito riferimento alla costellazione concettuale del comunicarsi di

Dio all’uomo e al mondo, a costituire il punto di saldatura verso quella, più matura, di

vollendete Religion, che farà di esso la religione secondo Hegel giunta al proprio compimento.

Ancora nel manoscritto della Vorlesung sulla religione del 1821, egli specifica infatti che la religione cristiana è la religione della rivelazione, nel senso che «in essa è manifesto ciò che Dio è», ossia che «la rivelazione, la manifestazione è la sua determinazione e il suo stesso contenuto. Infatti rivelazione è essere per la coscienza, e per la coscienza è che egli stesso è spirito per lo spirito – vale a dire dunque che è coscienza e per la coscienza»1.

Questo medesimo carattere autorelazionale e autocosciente è appunto quello su cui Hegel intende porre l’accento anche con il concetto di vollendete Religion. Il carattere di completezza e di compiutezza del cristianesimo gli viene, com’è noto, dal fatto che l’oggetto di questa religione è il concetto stesso di religione in generale, che consiste nella dialettica dei tre momenti fondamentali del rapportarsi dello spirito a se stesso: (a) «lo spirito come unità sostanziale»; (b) la «partizione originaria» di questa unità, «da un lato, nello spirito in quanto oggetto e, dall’altro, nello spirito che è il sapere di questo spirito circa sé»; ed infine (c) «il momento dell’identità mediata dello spirito»2. È questa articolazione – che poi non è nient’altro che la forma dell’autocoscienza dello spirito, l’essere coscienza per la coscienza – a costituire per l’appunto l’oggetto della religione cristiana, nel senso che ciò che la religione è an sich diviene für sich, «diventa cioè oggetto della sua rappresentazione»3.

Secondo Hegel, questa mediazione di sé con sé dello spirito è il nucleo speculativo che si trova al fondo dell’idea trinitaria. «La religione cristiana è, infatti, la sola ad avere, nell’idea trinitaria di Dio, lo spirito (nei suoi tre momenti costitutivi) quale contenuto della sua rappresentazione e, quindi, è l’unica in cui l’essenza dello spirito è anche oggetto dello spirito (in cui lo spirito è “per-sé”), ovvero è l’unica in cui ciò che la religione è “in sé” è anche “per essa” (nella misura in cui tale “In-sé” costituisce il suo contenuto)»4. In altri termini, il concetto di religione così come quello di Geist trovano la propria Begründung nella dottrina cristiana della trinità, interpretata da Hegel nell’accezione stringente – che già abbiamo visto essere all’opera nella Phänomenologie – di un necessario farsi altro da sé del Dio cristiano per poter giungere alla propria verità. Un farsi altro che va inteso, dunque, non già nel senso di «qualcosa che è stato fatto, cioè come un unico actus, una volta per tutte e poi non più», bensì come espressione della «stessa natura dello spirito», quella cioè «di manifestarsi, di oggettivarsi»5. Del resto, come il filosofo afferma nel manoscritto del 1821, carattere perspicuo del cristianesimo è quello di cominciare «dalla scissione assoluta [von der absoluten Entzweiung]», dal «dolore [Schmerz]» conseguente alla distruzione dell’«unità naturale dello spirito», dolore che «spinge lo spirito a ritornare in sé [treibt den Geist in sich zurück]»6 per corrispondere al suo interno bisogno (Begierde) di unificazione.

2 R. GARAVENTA, 2013, p. 9.

3 Ibid. 4 Ivi, p. 10.

5 V5 p. 3, Rel III p. 29. 6 V3 p. 23, Rel I p. 83.

Questa continuità lessicale tra la Religionsphilosophie esposta nelle lezioni e la tematizzazione pre-jenese della religione – i toni del discorso hegeliano sono infatti sempre quelli di una Entzweiung che deve conciliarsi in una Vereinigung – trova la propria definitiva formulazione nella specificità del rapportarsi reciproco e necessario di quelli che Hegel considera come i differenti momenti del concetto (logico) di religione, i quali di fatto corrispondono alle Persone divine della teologia cristiana. Fondamento del concetto di Dio come spirito è infatti innanzitutto la vicenda cristologica, quella Erscheinung des

Gottesmenschen che costituisce sì l’occasione di massima espressione della Entzweiung, ma

appunto per questo è anche il momento veritativo di Dio stesso, il passaggio che permette a Dio di divenire spirito tramite quella mediazione di sé con sé che è poi la determinazione più pertinente del concetto di religione in generale. Nell’interpretazione di Hegel, allora, la cristologia non è soltanto il punto apicale della filosofia della religione, intesa come conoscenza scientifica di ciò che Dio è nella sua natura, cioè spirito, ma è pure l’evento cruciale del cristianesimo come episodio storico (dal momento che alla Menschwerdung, alla morte e alla resurrezione di Cristo è affidato il compito di rappresentare il divenire reale e determinato di Dio), nonché l’elemento distintivo che ne sancisce la superiorità concettuale sulle altre religioni storiche.

D’altra parte, il primato che Hegel ascrive alla cristologia e, in particolare, all’evento della morte di Cristo come passaggio imprescindibile per la determinazione della natura di Dio, non appare affatto inatteso se contestualizzato entro la tesi hegeliana più generale per cui l’universale e l’infinito non esistono in quanto tali, separatamente, ma soltanto come ἐνέργεια dell’individuale e del finito7. In tal senso, l’idea di un Dio ante rem, antecedente la creazione, non è altro che un’assoluta astrazione, «una similitudine a uso della rappresentazione»8 che può essere al limite appannaggio di quella fede che già nel 1793 Hegel definiva «feticistica», nel noto Frammento di Tubinga, e che in quanto tale travalica certamente il limite del sapere scientifico-speculativo della filosofia della religione post-jenese9. Se l’evento cristologico, il

7 R. BODEI, 2014, p. 149.

8 Ivi, p. 148.

9 In questo senso va quindi letta anche la nota dichiarazione hegeliana della Wissenschaft der Logik, «secondo cui essa, per il suo contenuto, è “l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito”». Tali considerazioni valgono anche per l’Enciclopedia, poiché «solo in questo senso, e non realiter, le categorie logiche precedono […] le manifestazioni della natura e dello spirito. Non c’è in Hegel alcuna posizione gnostica, alcuna Ur-sophia che esista indipendentemente dal mondo» (ibid.). Il riferimento testuale per la citazione dalla Logica è invece W11 p. 21, Log I p. 31.

momento particolare e determinato, che trova il proprio luogo di espressione nella storia e nella finitezza, è anzi quello più adatto a esprimere la natura inquieta e costitutivamente rivolta all’alterità di Dio, allora tale evento acquisisce grande enfasi anche perché rappresenta l’autentica mediazione tra Dio e uomo che soltanto la religione cristiana è stata in grado di ideare.

Hegel esplicita un tale imprescindibile legame tra la natura necessariamente plurale del concetto dello spirito – infatti «Dio è conosciuto come spirito solo in quanto è saputo come trino»10 – e l’altrettanto essenziale coinvolgimento dell’uomo storico nelle vicende del divenire dello spirito nella Vorlesung sulla filosofia della storia del biennio 1822/1823.

La natura di Dio, di essere puro spirito, si rivela all’uomo nella religione cristiana. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’Uno, l’infinito uguale a se stesso, l’identità pura, la quale in secondo luogo si separa da sé come altro da sé, come essere per sé e dentro di sé contro la sostanza universale. […] Ciò vuol dire che lo spirito è concepito come trino: il Padre, il Figlio e la loro differenza, concepita nella sua unità come spirito. Inoltre dobbiamo notare che tale verità contiene la relazione dell’uomo alla verità stessa. Lo spirito si oppone a sé come altro da sé ed è ritorno a sé a partire da questa differenza. L’altro, concepito nell’idea pura, è il figlio di Dio; ma quest’altro, nella sua separatezza, è il mondo, la natura e lo spirito finito: perciò lo spirito finito è posto a sua volta come momento di Dio.11

Il dogma trinitario, dunque, resta non solo il caposaldo della Religionsphilosophie, ma proprio a causa della peculiarità ermeneutica hegeliana, che vede coincidere trinità immanente (concettuale) e trinità economica (storica), costituisce anche il punto di sostegno della tesi della necessaria mediazione tra Dio e uomo. La Menschwerdung è infatti considerata da Hegel come il necessario «umanizzarsi di Dio. La superiorità della religione cristiana rispetto ad altre religioni consiste nel fatto che in essa è posta l’unità tra uomo e Dio e tale unità si esplicita nel Cristo, nel mediatore supremo dei due opposti. La sua incarnazione, la sua morte e la sua conseguente resurrezione sono, infatti, diversi modi di mostrare l’unità tra natura divina e umana in lui presente»12. Peraltro, proprio Hegel è inequivocabile quando afferma apertamente che «l’uomo stesso è contenuto nel concetto di Dio e il suo esservi contenuto può

10 VPG p. 386, Fsto p. 265. 11 VPG pp. 391-392, Fsto p. 269. 12 C. MELICA, 2007, p. 195.

esprimersi col dire che nella religione cristiana è posta l’unità di Dio e dell’uomo»13. Una tale unità, tuttavia, non può concepirsi come immediata, «quasi che Dio sia solo uomo e l’uomo sia altrettanto Dio»14, ma piuttosto andrà intesa come imprescindibilmente introdotta da Cristo, dalla figura del mediatore, «poiché egli è quel singolare incontro tra la natura umana e divina»15. Qual è però la struttura di questa mediazione? E in che senso, nel Cristo interpretato da Hegel, le due nature possono coesistere in modo non contraddittorio, determinando comunque quella che potrebbe apparire a tutti gli effetti come una debolezza del Dio cristiano: la costrizione di piegarsi alla determinatezza, di assumere le sembianze del finito e, infine, di sfuggire anche a quest’ultimo pur potendo esistere solo in relazione con esso? Inoltre, nel percorso concettuale qui accennato, l’esposizione del Gottesbegriff sembra – almeno in prima battuta – invertire lo svolgimento di quel processo di Erhebung da vita finita a infinita, che rappresentava il senso precipuo (e vitale) della religione francofortese. Infatti, ora Hegel specifica che, per guadagnare effettivamente la vita infinita, è necessario un lungo processo di mediazione che prevede piuttosto un’insistenza sul finito, un approfondimento dei limiti che lo contraddistinguono: il che significa, com’è ovvio, tornare ancora una volta sulla questione della morte di Dio.

Ma proprio qui emerge una questione di certo non secondaria per il discorso hegeliano. Una tale centralità accordata in generale alla cristologia, e in particolare al momento della morte di Cristo – che non a caso la dogmatica cristiana considera soltanto come «momento transitorio per accedere ad un’altra realtà trascendente»16 – costituisce infatti un punto controverso per gli interpreti della Religionsphilosophie, poiché quest’ultima, proprio nel tentativo di risolvere la problematica ontologica del rapporto tra finito e infinito (strettamente legata a quella, gnoseologica e post-kantiana, delle pretese di verità del conoscere razionale), sembra sbilanciarsi a favore di un concetto di Dio interamente dipendente dalle esigenze della finitezza o, meglio, un concetto di Dio dissolto nella finitezza: non tanto quella Endlichkeit che caratterizza finanche il primo degli enti (giacché proprio contro l’ontoteologia metafisica Hegel ha ripensato il Gottesbegriff come ossatura logico- relazionale del Geist) ma quella finitezza dell’immanenza, della transitorietà, dell’infinita molteplicità del particolare che caratterizza il mondo e l’umano in quanto tali. Se infatti senza

13 VPG p. 392, Fsto p. 269. 14 Ibid.

15 C. MELICA, 2007, p. 194.

l’incarnazione e la morte il concetto di Dio non sarebbe neppure articolabile né determinabile, allora è facile immaginare come il rischio possa essere quello di tradurre la venuta del “regno di Dio” – che, come si ricorderà, restava l’obiettivo della dedizione alla conoscenza dichiarata dai giovani Stiftler – nei termini di una realizzazione esclusivamente infrastorica del divino, la quale finirebbe così per costituire, nelle intenzioni hegeliane, nientemeno che la «vera teodicea, la giustificazione di Dio nella storia» – come concludeva la ben nota tesi di Karl Löwith17. In una tale prospettiva, quella che da Hegel è chiamata la «realizzazione dello spirito» costituirebbe quindi non tanto una mediazione di finito e infinito, quanto una traduzione interamente e definitivamente mondana di Dio, una «secolarizzazione della fede cristiana»18 intesa come realizzazione del regno di Dio sulla terra, espressa sotto forma di una razionalità coessenziale a macrosoggetti “storici” come il Weltgeist e il Volksgeist.

Di qui, poi, è verosimilmente breve il passo verso quelle interpretazioni degli «specialisti nordamericani di Hegel» tra i quali è riscontrabile «la tendenza a deflazionare questo concetto metafisico dello “spirito assoluto”»19, proprio sulla base della costitutiva vocazione mondana di quest’ultimo. Anche la Religionsphilosophie, in tal senso, sarebbe funzionale a intraprendere un discorso che tematizza in forma filosofico-scientifica quel processo storico di sostituzione della Religion con un Logos razionale tramite il quale – sottolinea ad esempio Pinkard – la modernità è pervenuta a «un resoconto di se stessa nei termini del pensiero concettuale», tralasciando il livello «della rappresentazione simbolica»20 che invece è tipico delle religioni. Anzi, nelle Vorlesungen berlinesi, considerate giustamente come la più completa espressione della filosofia della religione, «Hegel intensificò la propria precedente discussione svolta nella Fenomenologia dello spirito, concernente come la forma

17 K. LÖWITH, 1949, p. 57.

18 Ibid.

19 J. HABERMAS, 1999, tr. it. p. 210. Com’è noto, la ricezione americana di Hegel negli ultimi tre decenni si è

arricchita di numerosi contributi, volti a congiungere le svariate tradizioni del pensiero post-metafisico con l’idealismo del filosofo tedesco, non solo al fine di “attualizzare” Hegel e di renderlo comprensibile «agli abitanti di un mondo disincantato» (ivi, p. 211), ma soprattutto allo scopo di mettere in luce le radici hegeliane di molti dei temi del dibattito odierno, specialmente per quanto concerne la filosofia analitica e post-analitica, il pragmatismo, il pensiero normativo. Capisaldi imprescindibili del confronto americano o, per meglio dire, anglofono con Hegel sono, tra gli innumerevoli altri: W.S. SELLARS, 1956; C. TAYLOR, 1972;

R. RORTY, 1983; R.B. PIPPIN, 1988, 1997; R.B. BRANDOM, 1994, 1999; M. HARDIMON, 1994; W. MAKER,

1994; T. PINKARD, 1994; A.W. WOOD, 1994; P. REDDING, 2007; J. MCDOWELL, 2009. Per avere un quadro ben

più esaustivo di quello abbozzato con questi pochi riferimenti bibliografici, si rimanda ai recenti L. RUGGIU –

I. TESTA (a cura, 2003), G. CESARALE (2011), L. CORTI (2014), il cui obiettivo è proprio quello di fare il punto

sul complesso e poliedrico panorama della Hegel-renaissance statunitense. 20 T. PINKARD, 1994, tr. it. p. 424.

di vita cristiana si sviluppò in una moderna forma di autocomprensione secolare. In quelle lezioni, egli argomentò che il processo storico di formazione del sé moderno, nella religione cristiana, assunse l’andamento che assunse, al fine di elaborare, entro le premesse che la religione cristiana si era data, ciò che era per essa necessario per arrivare a un’autocoscienza razionale di sé»21. Hegel avrebbe dunque compreso che se «la pretesa della vita moderna» è quella di «essere una cultura che si auto-giustifica»22, allora «lo sviluppo della riflessione religiosa» implica per quest’ultima la necessità «di essere “oltrepassata”»23 giacché «incapace di fornire il “resoconto dei resoconti”»24, cioè quella «riflessione sui resoconti che la comunità moderna ha dato di ciò che è autorevole per noi, e del perché queste “regole fondamentali”

siano considerate effettivamente autorevoli, o debbano effettivamente essere considerate

autorevoli»25.

Il risultato del resoconto che la comunità cristiana rende di se stessa, è che al fine di completare il proprio resoconto nei termini che essa stessa si è data, la comunità cristiana deve diventare una comunità secolare, che nondimeno cerca di autocomprendersi nei termini delle rappresentazioni religiose, metafisiche, che hanno reso possibile, in primo luogo, quella forma di pratica comunitaria.26

Ad ogni modo, vero è che l’interpretazione di Löwith e quella di Pinkard si trovano concordi nel sostenere che il cristianesimo di Hegel sia una variante secolarizzata di religione, ma soltanto a partire da punti di vista del tutto differenti. Se infatti, da un lato, Löwith sottolineava come l’esito mondano/finito della vicenda cristiana avesse il significato di una secolarizzazione a tutti gli effetti, quindi di una traduzione della spiritualità dai contenuti teologici e dal concetto di un Dio trascendente alla storicità e alla concretezza della comunità umana della ragione, il che nelle intenzioni di Hegel costituiva il modo più opportuno di essere fedeli all’autentico messaggio della cristianità (quello di essere la religione rivelata), dall’altro lato, Pinkard ritiene piuttosto che l’autore della Fenomenologia si sia cimentato con una tesi ancora più radicale e generalizzata, quella per cui, se «compresa dialetticamente, la

21 Ivi, p. 422. 22 Ivi, p. 430. 23 Ivi, p. 429. 24 Ivi, p. 427. 25 Ivi, p. 425. 26 Ivi, p. 423.

storia è una successione di forme dell’autocomprensione, dello sviluppo teleologico della ragione»27. In questa seconda prospettiva, dunque, Hegel sarebbe un sostenitore del carattere originariamente ed esclusivamente pratico, comunitario e intersoggettivo della religione cristiana, piuttosto che un partigiano della secolarizzazione del mondo moderno (come nell’ipotesi di Löwith), che con la sua Religionsphilosophie avrebbe contribuito a rinsaldare.

Secondo Pinkard, la religione vista con gli occhi di Hegel costituisce quindi una delle molte forme di autocomprensione della comunità umana nella «storia della razionalità»28, che appartiene alla sfera superiore del Geist in quanto «forma di vita» che è stata capace di sviluppare «quelle pratiche la cui funzione è di riflettere su quale sia l’“essenza” per la forma di vita (ovvero su che cosa per essa sia autorevole)»29. Nell’interpretazione della

Phänomenologie offerta dallo studioso statunitense

la religione è una forma di pratica sociale istituzionalizzata, in cui una comunità riflette su ciò che essa ritiene il “fondamento” di ogni altra cosa che sia basilare per le sue credenze e le sue pratiche; la religione è la riflessione comunitaria su ciò che per una comunità, nelle parole di Hegel, vale come “esistente in sé e per sé”30.

Löwith e Pinkard propongono così due versioni assai differenti dell’idea hegeliana di religione (e di trascendenza). Infatti, se per il primo essa rappresenta la forma secolarizzata di cristianesimo con la quale Hegel ritiene che un autentico compimento di esso possa aver luogo, in una singolare commistione di sacro e profano, di religione e filosofia, di fede e

27 Ivi, p. 411. 28 Ivi, p. 429.

29 Ivi, p. 359. A sostegno della tesi della natura eminentemente pratica della religione hegeliana, Pinkard prosegue poi specificando che, «riflettendo su ciò che per essa è l’“essenza”, una forma di vita riflette su quel che per essa è autorevole nell’essere una persona, cioè nell’essere un agente che vive in quella forma di vita. Tutte le forme di riflessione assoluta sono riflessioni sulle forme del carattere e sugli interessi più elevati delle forme del carattere – ovvero sugli interessi che riguardano quelli che le persone ritengono i fondamenti autorevoli per credere e agire, cioè i fondamenti, in breve, per vivere le vite che le persone vivono. I precedenti resoconti della varie “figure dello spirito” riguardavano sia ciò che le persone ritenevano per esse autorevole (l’“essenza” delle cose), sia come le persone, in quella forma di vita, si consideravano in relazione con l’“essenza” (ovvero come esse ritenevano di conoscere ciò che per loro era autorevole – nelle parole di Hegel, ciò che era l’“oggetto” della loro coscienza). In molte di quelle “figure della coscienza”, una coscienza religiosa, o quasi religiosa, era ritenuta autorevole per le persone. Essendo passato attraverso la serie delle “figure della coscienza”, tuttavia, Hegel è arrivato al punto di potersi focalizzare sull’autorevolezza stessa, ovvero su ciò che gli interessi più elevati della comunità europea devono essere, dato ciò che questa comunità è giunta a essere» (ibid.).

ragione31, per il secondo la religione, proprio nella versione assoluta che il cristianesimo rappresenta, costituisce quella form of life nella quale la comunità umana (europea) ha sviluppato, storicamente e collettivamente, una riflessione su se stessa e sul proprio “fondamento”, su ciò che essa ritiene autorevole (definitive) per se stessa. È chiaro che in tal

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