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Critica sociale di un consigliere del Pentagono STEFANO LAFFI

E D W A R D L U T T W A K

La dittatura del capitalismo

pp. 336, Lit 33.000

Mondadori, Milano 1999

Un libro sul capitalismo, dopo quello sul comunismo, per lo stes-so editore? E per di più scritto dal noto "consulente della Casa Bian-ca" Edward Luttwak? Il titolo

- La dittatura del capitalismo -

in-duce in tentazione, ma forse, già che di capitalismo parliamo, que-sto ne è solo un'applicazione, nel senso che il titolo originale

Turbo-capitalism, pur essendo più

corret-to, ha meno forza provocatoria, e quindi spinta commerciale. Per-ché Luttwak non ha scritto un at-to di accusa al capitalismo, ma so-lo un documentato e articolato monito all'Europa sulle conse-guenze della deregulation dei siste-mi econosiste-mici, a partire da quanto è già successo negli Stati Uniti.

Il punto di partenza dell'analisi è una constatazione pienamente attuale anche nel contesto italiano: la liberalizzazione di moltissimi settori dell'economia, la privatiz-zazione di aziende e funzioni fino a pochi mesi/anni fa sotto mono-polio pubblico. Insomma, se oggi è più semplice acquisire una licen-za commerciale o si può scegliere con chi fare l'abbonamento telefo-nico, è in virtù di un processo di liberalizzazione che è divenuto il nuovo paradigma di riferimento nelle politiche economiche dei go-verni, non solo occidentali. Il mo-dello per tutti è l'economia statu-nitense, che oggi appare più che mai vincente: lo dicono i valori dei classici indicatori - la borsa corre, la produzione cresce, la disoccu-pazione è ai minimi storici, il consenso attorno al suo leader è alto -e lo conf-erma la nostra p-erc-ezion-e quotidiana: in quale valuta cam-bierò i soldi dovendo partire in va-canza per destinazione ignota? Di chi è il software con cui sto scri-vendo al computer? Qual è l'indu-stria che ha potuto esaurire così rapidamente le sue scorte per la guerra in Kosovo?

(Anche) in economia è diventa-to difficile dire cosa è di destra e cosa di sinistra, e Luttwak gioca a spiazzare su questo piano. In fon-do in Italia le privatizzazioni più rilevanti sono state realizzate dagli ultimi governi di centrosinistra, mentre erano le destre, spesso in compagnia dei sindacati, a oppor-si alla deregulation, in nome della conservazione dello status quo, oscillante fra il privilegio di cate-goria e i diritti dei lavoratori. Luttwak intanto ci ricorda conse-guenze fondamentali a noi meno visibili della liberalizzazione statu-nitense: il crollo dei redditi, o me-glio la polarizzazione fra retribu-zioni di impiegati e operai dimi-nuite in valore reale negli ultimi vent'anni e stipendi di manager sa-liti alle stelle, e l'erosione progres-siva del tempo libero, per tutti. In-somma, la quasi piena occupazio-ne occupazio-nella florida economia statuni-tense si regge su una forza-lavoro disposta a lavorare 52 settimane

all'anno a retribuzioni orarie com-prese fra gli 8 e i 14 dollari.

Ma questo sacrificio generalizza-to poggia su fatgeneralizza-tori socioculturali propri di quel paese, fattori che Luttwak prova a evidenziare, in sti-le weberiano. In primis, il sistema giuridico per il quale risulta estre-mamente facile, frequente e meno

smontare mitologie in voga. Per esempio, se è fondato il sospetto che il nostro paese si concentri troppo su produzioni mature a bas-so contenuto tecnologico, questo li-bro ci ricorda quanto l'industria che ha reso Bill Gates della Micro-soft uno degli uomini più ricchi del pianeta sia tipicamente "labour sa-ving", cioè non necessiti di molta manodopera e porti in definitiva a risparmiare forza lavoro (anche ne-gli altri settori, per le sue applica-zioni). Come dire, Yinformation

te-chnology arricchisce enormemente

un uomo, alcuni suoi manager, ma assai meno un popolo e un paese.

gusto di individuare e smontare stereotipi e letture del mondo au-toreferenziali. Il tutto avviene per accumulo e confronto di dati e informazioni provenienti tanto da fonti statistiche ufficiali quanto dall'esperienza professionale di Luttwak, che di questo sembra fa-re quasi una questione di princi-pio, contro l'ortodossia economi-ca e la modellistieconomi-ca dei manuali di macroeconomia. E probabilmente a ragione: per esempio, prima di affermare che il commercio fra due paesi è liberalizzato perché così è sancito in documenti uffi-ciali, vale la pena quanto meno di

GEORGE SOROS, La crisi del capitalismo glo-bale. La società aperta in pericolo, ed. orig.

1998, trad. dall'inglese di Marina Astro-logo e Cristiana Maria Carbone, pp. 311,

Lit 25.000, Ponte alle Grazie, Firenze 1999.

Così come avevo apprezzato il precedente pamphlet anti-neoliherista di Soros La

minac-cia capitalistica (Reset, 1997) - alle volte la

stringatezza è qualità — altrettanto mi ha infa-stidito questo prolisso volume introdotto da "al-cune idee filosofiche correnti" che si prolungano per oltre cento pagine. E per dir che? Che se gli uomini traggono le loro opinioni dal mondo, è poi sulla base di queste opinioni che lo trasfor-mano e, siccome le opinioni sono sempre imper-fette, le azioni umane "hanno conseguenze im-previste". Applicata al mercato finanziario que-sta idea porta a una sequenza boom-crollo in cui il corso dei titoli, determinato dai cosiddetti "fondamentali", viene esaltato dalle supposizio-ni che se ne fanno gli investitori fino a un "mo-mento della verità" oltre il quale "la realtà non può più sostenere le aspettative esagerate". Al-lora la tendenza positiva volge al tramonto e il mercato punisce quegli eccessi. Mestiere dello speculatore è cogliere quel momento della ve-rità e, dopo aver fino ad allora comperato, met-tersi a vendere. Come Soros ha fatto nel 1997, "un esempio calzante che analizzerò".

Ma cosa è accaduto nel 1997? Che il "centro dell'impero", dopo aver erogato per anni capita-li alla "periferia", ha preso a ritirarcapita-li facendo precipitare l'Estremo Oriente, e poi anche la Russia, nella crisi finanziaria. Il quesito allora è: se "il periodo fra la crisi tailandese del luglio 1997 ed il tracollo della Russia nell'agosto dell'anno seguente ha rappresentato il periodo del tramonto, quando è stato il momento della verità? Forse è meglio non insistere sull'argo-mento. I modelli non vanno mai presi troppo alla lettera". E invece no. Merita ricercare, se

non il momento della verità, almeno la sua cau-sa scatenante per verificare se sia stata punizio-ne del mercato (come Soros vorrebbe farci in-tendere) o piuttosto qualcosa di più consistente. Che peraltro Soros sa benissimo, tanto da am-metterlo lui stesso. Infatti "per noi del Soros Fund Management" all'inizio del 1997 quel momento era già giunto, tanto che "abbiamo venduto allo scoperto il haht tailandese e il ring-git malese (...) Successivamente il Primo mini-stro malese Mahathir mi ha accusato di aver provocato la crisi. Quell'accusa era totalmente infondata (...) se a noi era chiaro già nel gennaio del 1997 che la situazione era insostenibile, avrebbe dovuto essere chiaro anche ad altri". Ma cosa aveva reso la situazione insostenibile? Ecco la verità: "la crisi asiatica del 1997 è stata innescata dall'aumento del dollaro

statuniten-se" un aumento proseguito per tutto il 1996 e

particolarmente pericoloso per paesi con debito estero in dollari e moneta ancorata a quella va-luta, che hanno visto le proprie esportazioni far-si sempre meno competitive e l'indebitamento salire alle stelle. La svalutazione era quindi ob-bligata, "anzi la crisi è scoppiata anche più tardi di quanto avessimo previsto, perché le autorità monetarie locali hanno continuato a sostenere le proprie monete troppo a lungo".

Ora Soros avrà certamente ragioni da vende-re per sostenevende-re che, alla luce di quanto succes-so, "la convinzione che i mercati finanziari, la-sciati a se stessi, tendano all'equilibrio (...) è fal-sa", e che "il fondamentalismo del mercato rap-presenta per la società aperta una minaccia più grave di qualsiasi ideologia totalitaria", così da richiedere urgentemente interventi correttivi. Tralascia però di precisare quanta responsabilità nella crisi abbia avuto il "superdollaro". A me-no di credere che l'apprezzamento di una mone-ta sia opera sponmone-tanea del mercato. Io, almeno per il dollaro, penso proprio di no.

GIORGIO GATTEI

oneroso intentare cause contro aziende (sistema che fa quindi da contrappeso alla forza delle impre-se sulla vita sociale); poi la preimpre-senza di una particolare accezione dello spirito calvinista, che l'autore ride-clina in tre regole: la ricchezza co-me predestinazione divina, che non incute sensi di

col-pa e impegna co-munque a un inces-sante lavoro anche in condizione di raggiunta opulen-za, l'insuccesso

economico come segnale di disgra-zia - tale pertanto da indurre in chi lo vive autocommiserazione e non protesta popolare - e infine l'eleva-ta probabilità che i pochi poveri non allineati su questo principio della responsabilità tutta individua-le finiscano in prigione, in un paese in cui le galere sono diventare un vero business. Luttwak, che cono-sce bene l'Italia, ha buon gioco a

"Non distrugge

il capitalismo, lo prende

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