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CRONACA DELL’ANNO

Nel documento Cronaca 1311-1325 (pagine 41-200)

Pasqua 26 marzo. Bisestile. Indizione X. Ottavo anno di papato per Clemente V.

Arrigo VII, re dei Romani, al V anno di regno, I anno di impero.

Lo ditto Imperadore (Arrigo) n’andòe per la via di Maremma al Ponte Molla col cardinale messer Niccolajo da Prato, che si chiamava Messer d’Ostia, e con l’altro Cardinale messer Luca da Fiesco, e con uno Guascone. E perché messer Janni, fratello del re Ruberto, avea quine assediate le sue genti, fece molte battaglie, e in Roma fue incoronato lo dì di Santo Pietro in Santo Janni. Stette in quello paese tutta la state.1

Il decto inperadore (…) fu huomo di buona vita et di pocho senno.2

§ 1. Pisa e Aragona

Bernardo Marangone riporta nella sua cronaca di Pisa il racconto di una visita che ha il sapore di una fiaba. Un giorno giunge a Pisa un uomo, con le vesti ancora impolverate per la cavalcata appena portata a termine, smonta a Palazzo dei Consoli, si fa annunciare al consiglio riunito e chiede di poter parlare, presentando sé come un Pisano, «amatore della sua Patria», un Pisano che è stato a lungo nel Castello di Castro, in Sardegna e che è venuto per consigliare i suoi concittadini.

Lo sconosciuto ha appreso che i Pisani stanno trattando col re d’Aragona, che cerca di staccarli dall’alleanza con Arrigo imperatore e si stanno impegnando a versargli del denaro per ottenerne la protezione; egli è dunque accorso per esporre le sue veementi convinzioni: «Io vi fo dire, e fovvi certi, che il re di Ragona vorrà e’ denari, e dipoi vi gioverà, se voi vi difenderete per voi stessi, e quello ch’io dico, l’ho visto in più luoghi de’ suoi confederati: senza dirvi in particulare altro, voi mi potete credere sicuramente; e di più vi dico, che coloro che vi consigliano a questo, non amano il ben comune della nostra città. Penso che le signorie vostre n’abbian fatto consiglio, quando li furno mandati gl’imbasciatori, di grazia mostratemi la lista dell’altro consiglio». Ottiene di visionarla, e dimostra che la maggior parte di coloro che hanno

partecipato alla decisione «non erano veri Pisani, anzi eron venuti chi da Firenze, e chi da Pistoja, e chi da un luogo e chi da un altro». Aggiunge quindi l’argomento conclusivo della sua perorazione: «Sappiate che se Pisa patirà, questi tali si ritorneranno alle lor città, ma bisognerebbe poter raunare di nuovo il consiglio, e solo raunarvi e’ veri Pisani, de’ quali io ne conosco gran parte».

Il ragionamento colpisce nel segno. Vincendo le ovvie opposizioni di taluno, la proposta dello sconosciuto viene approvata, «allora quel cittadino ringraziò tutto il consiglio con accomodate parole, esortandoli sempre a tirare al benefizio della lor città».

Quando arriva il messo del re d’Aragona, la proposta dello Spagnolo viene rifiutata e Pisa conferma la sua decisione di rimanere fedele all’imperatore.3

Ad affermare il proprio dominio sulla grande isola, Pisa dona alla cattedrale di Cagliari il pergamo vecchio, scolpito da Guglielmo di Innsbruck nel 1160, e ora non più utile, perché sostituito da quello – bellissimo – di Giovanni Pisano.4

Branca Doria ha inutilmente cercato di farsi nominare re di Sardegna da Arrigo, quando questi, dal dicembre scorso, è ospite nel suo palazzo genovese.5

§ 2. Il terribile odio tra i da Sesso e i Fogliano

Il 10 gennaio i ghibellini da Sesso si impadroniscono del castello di Gesso e della rocchetta dei Malapresi, grazie a 150 stipendiari modenesi e con la connivenza degli intrinseci Cataniori e degli stessi Malapresi. Il giorno seguente Giberto da Correggio, ancora vicario imperiale di Reggio, e comunque suo signore, reagisce assediando la fortezza, insieme a Guido Savina da Fogliano ed ai Sassolo.

Il colpo di mano è stato progettato dal 4 dicembre dell’anno appena passato, quando l’arciprete di San Faustino, fratello di messer Ugolino da Sesso, ha avuto il primo colloquio ed accordo con grandi esponenti ghibellini della regione: Albertino della Scala, Passerino Bonacolsi e Francesco della Mirandola, signore di Modena. Questi hanno garantito il loro aiuto a Nasello e Penazolo da Sesso ed ai Lupi di Canuli, cioè Nicolò, Antonio, Manfredino ed altri.

L’assedio dura per 27 giorni, con mangani e trabucchi. Gli assediati non hanno da mangiare né da bere, il cibo è costituito da fave cotte nell’urina. Il signore di Reggio, Giberto da Correggio promette l’impunità ai forestieri che vogliano lasciare il castello. Non potendosi fidare dei mercenari modenesi, l’arciprete si riduce nella torre, con i suoi. I Reggiani lo vogliono morto e alcuni di loro riescono ad entrare in contatto con i Lupi di Canuli, che si impegnano ad ucciderlo, insieme con qualcuno dei da Sesso, salve le loro vite, ma in prigione a vita. I Lupi il 31 gennaio tentano di convincere l’arciprete ad arrendersi, ma questi è irremovibile, pronto al sacrificio, ma non disposto a cadere nelle mani dei suoi nemici. Allora i Lupi lo conducono a guardare i nemici dall’alto della torre e, a tradimento, lo gettano giù, ad infilzarsi sulle lance dei nemici. Stessa sorte tocca a Penazolo e Nasello de Sesso.

I Lupi vengono, secondo l’impegno, portati in galera.6Poco dopo i Sassolo, aiutati da

100 militi di Bologna, prendono il castello di Solaria per tradimento di Giovanni de’ Passaponti.7

Nel corso dell’anno i Lupi riescono ad evadere, ma molti di loro, ripresi, vengono impiccati. Uno degli evasi, Guidorcello, uccide messer Ugolino da Sesso e ne porta la testa a Verona.8

§ 3. Il bando contro Firenze

L’ 11 gennaio arrivano a Pisa gli illustri inviati di Arrigo, suo fratello Baldovino arcivescovo di Treviri e il maresciallo Enrico di Namour, fratello del conte Roberto di Fiandra.

Essi sono incaricati di approntare quanto necessario per l’arrivo dell’imperatore e per la continuazione del suo viaggio verso Roma. Da Pisa il conte Enrico di Namour lancia incursioni contro i mercanti fiorentini i quali, colpiti dal bando dall’Impero, stanno cercando di mettere in salvo le loro merci, facendole rientrare a Firenze. Gli armati del conte interrompono la strada che collega Firenze a Pisa.9

Il bando durerà fino al 1355, quando Firenze comprerà la revoca della pena per 100.000 fiorini da Carlo IV di Boemia.10

§ 4. Guglielmo Cavalcabò conquista Cremona

Il 13 gennaio i borghi di Cremona sono assaltati da fuorusciti guelfi della città comandati da Guglielmo Cavalcabò e da Corradino Confalonieri. Gli assalitori, in tutto 60 uomini, forzano una porta e, forti della sorpresa, irrompono fino alla piazza centrale gridando: «Pace, pace!», ma agitando armi e brandendo spade. Sulla piazza si scontrano con Galeazzo Visconti, che ivi è capitano per l'imperatore. Guglielmo è ferocemente determinato a vincere o morire e riesce ad espellere dalla città Galeazzo e Manfredo Pelavicino, con i loro sostenitori. Cavalcabò viene insignorito della città e nomina suo capitano il parmense Giovanni Quilico di San Vitale, detto anche Sanquilico.

«Il conte Filippone contra lo Imperadore stava con animo iroso e cercava parentado con messer Ghiberto e congiura e lega». Infatti il 19 gennaio Giberto da Correggio rinsalda le sue relazioni in Lombardia, prendendo in moglie Elena, una figlia di Filippone di Langosco, signore di Pavia. Per Giberto sono le terze nozze. La luna di miele del Parmigiano dura poco; infatti 2 giorni dopo, Giberto «con maxima comitiva» di cavalieri e fanti accorre a Cremona, a rinforzare la posizione di Guglielmo Cavalcabò. Dopo aver ricevuto i dovuti onori dal nuovo signore di Cremona, ed aver atteso qui, il 3 febbraio, l’arrivo di suo genero, Sanquilico di San Vitale, nuovo podestà designato, sabato 12 febbraio Giberto rientra a Parma, nelle braccia della sua sposina, lasciando i suoi soldati a Guglielmo.11

Il 18 febbraio Giberto da Correggio e Giacomo Cavalcabò, fratello di Guglielmo, riescono a prendere Piacenza, strappandola ai Visconti.12

Giovanni da Cermenate ci racconta che il motore di tutte le trame anti-imperiali in Lombardia è Filippone di Langosco. Egli contesta l’autorità di Filippo di Savoia e contro di lui arrivano continue lamentele ad Arrigo, finché è a Genova, accusandolo di fomentare la ribellione di tutti i guelfi in Liguria e Lombardia.13Arrigo, pur proteggendo il conte di Savoia e

suo nipote, presta scarsa attenzione alle voci contro Filippone, il quale, dal canto suo insinua nella mente del re dei Romani che le ribellioni di Lombardia siano causate dall’odio contro Matteo Visconti.14

§ 5. Giberto da Correggio, lo sleale traditore

«I Fiorentini (…) corruppono per moneta e per promesse con lettere messer Ghiberto (da Correggio), signore di Parma, e dieronli fiorini 15.000 perché tradisse lo Imperadore e rubellasseli la terra. Dè quanto male si mise a fare questo cavaliere, il quale da lui avea ricevute di gran grazie in così poco tempo! Ché donato gli avea il bel castello di san Donnino15e uno

altro nobile castello, il quale tolse a’ Cremonesi e dié a lui, il quale era sulla riva di Po; e la bella città di Reggio gli avea data in guardia, credendo che fusse fedele e leale cavaliere. Il quale, armato sulla piazza di Parma, gridò: «Muoia lo Imperadore!», e il suo vicario cacciò fuori della terra, e i nimici accolse. Coprivasi con false parole, dicendo che non per denari il facea, ma perché il marchese Palavisino avea rimesso in Cremona, il quale tenea per suo nimico».16

§ 6. L’assassinio di Pazzino de’ Pazzi

A Firenze, in un rigido giorno di gennaio, Pazzino de’ Pazzi, seguìto da servi e falconieri, si reca a cacciare con il falco sull’isola dell’Arno, all’altezza di Porta Croce. Improvvisamente qui lo assale Paffiera de’ Cavalcanti,17«giovane di grande animo», seguito da

alcuni dei Brunelleschi, che ritengono Pazzino complice ed autore della morte del loro congiunto Betto, assassinato lo scorso anno. Pazzino, quando vede Paffiera, legge nel suo atteggiamento la minaccia e comincia fuggire verso l’Arno. Paffiera lo raggiunge da dietro e gli trapassa le reni e il ventre con una lancia, poi lo getta, semivivo, nell’Arno, gli taglia le vene e fugge con gli altri verso Val di Sieve. Il cadavere dell’assassinato viene ripescato e trasportato sotto scorta armata al Palazzo dei priori.

Si mormora che i Cavalcanti, alleati dei Bianchi, vogliano rovesciare il governo dei guelfi Neri e abolire gli Ordinamenti di Giustizia. Il popolo, sobillato, va verso le case dei Cavalcanti nel Mercato Nuovo e le aggredisce. I Cavalcanti si difendono e scoppia una lotta sanguinosa. In aiuto dei Cavalcanti accorrono Messer Gottifredo e messer Simone della Tosa, i Tornaquinci, alcuni della Scala, gli Agli, i Lucardesi. Il popolo prevale e le case dei Cavalcanti sono nuovamente date alle fiamme. Tutti i 48 maschi di casa Cavalcanti sono banditi e condannati ad avere il capo mozzo. L’impresa commerciale di Andrea di Guido Cavalcanti (tardivamente riconosciuto innocente), fallisce. I figli di Pazzino, Francesco e Uberto e due suoi nipoti, Chierico e Simone, vengono eletti cavalieri del popolo, come già i figli di Rosso (o Pino?) della Tosa.18

§ 7. Siena e i conti d’Elci

I Senesi hanno molte truppe al loro soldo per contrastare Arrigo. Per non tenerle inoperose decidono di "dissuadere" il conte da Elci, della famiglia Pannocchieschi, da eventuali simpatie ghibelline, conquistandone il castello avito. In febbraio, segretamente, vanno a Mensano e, di lì, di notte, con una guida, proseguono verso il castello. Prima che l'alba illumini la scena, appoggiano le scale alle mura, certi della sorpresa. Ma i castellani sono stati avvertiti da un loro amico, uno dei signori Nove, ed hanno messo buone guardie sugli spalti ed un distaccamento d'armati, in agguato, fuori delle mura. Quando molti dei Senesi hanno scalato le mura e sono penetrati nella cinta, i difensori gridano: «Carne, carne!», grido che negli scontri dell'epoca significa combattere per uccidere. I 38 soldati entrati vengono tutti trucidati e quelli sotto le mura assaliti e rotti dal gruppo d'armati in agguato. I Senesi si volgono in fuga disorganizzata, abbandonando il gonfalone. I fuggiaschi non conoscono la strada, avendola percorsa di notte e con una guida e la strada è erta e difficile. A questo si aggiunga che i villaggi vicini si lanciano alla caccia dei Senesi per fedeltà al buon governo dei conti d'Elci e per l'odio che il contado porta alla città che ne succhia i tributi. Molti Senesi sono catturati e molti uccisi.

Quando a Siena ci si lecca le ferite e ci si chiede perché mai si sia intrapresa questa spedizione, si conclude che non ve n'era alcun bisogno visto che i conti d'Elci sono stati sempre ubbidienti al comune e sempre hanno pagato quanto dovuto. Nessuna meraviglia che, nel futuro, i conti d'Elci sceglieranno il campo avverso.19

§ 8. Marche

Il 16 gennaio 1312 muore Giacomo il poverissimo vescovo di Fano ed il Capitolo della Cattedrale elegge un suo membro dello stesso nome del defunto.20

Recanati, come tutti i comuni italiani, è travagliata da lotte di parte che oppongono una fazione che si dice guelfa a una ghibellina. Il vescovo Federico, di una delle importanti famiglie cittadine, è di parte guelfa. Tanto basta perché nel 1312 i ghibellini di Recanati,21 rinfrancati

dalla discesa in Italia di Arrigo VII, assalgano le case del vescovo e le saccheggino. Lo stesso episodio avviene ancora e ripetutamente tra aprile e settembre del 1313 e successivamente. Uno dei capi delle incursioni, Ajoletto di Cruciano, ha anche l’impudenza sacrilega di invadere la chiesa di Santa Maria di Loreto e di depredarla dei gioielli, non una ma più volte. Il processo della curia contro Ajoletto ed i suoi compari, tutti contumaci, si conclude il 23 ottobre del 1315, con una condanna solo pecuniaria, tutto sommato mite rispetto agli scempi perpetrati. Il vescovo e 500 cittadini guelfi di Recanati si salvano con la fuga e rimarranno esuli per 7 anni.22

I comuni ed i castelli ghibellini della Marca si collegano contro i guelfi e il papa può continuare a contare solo sul supporto di Camerino, Ancona, Tolentino, San Ginesio e Sarnano. Solo la morte di Arrigo lentamente calmerà gli animi, unicamente Visso si manterrà ribelle fino al 1316 e occorrerà una battaglia per ridurla all’obbedienza. Nell’occasione i prigionieri di Visso, tradotti a Camerino, vengono graziati dal morente Rodolfo Varano che spera che il Creatore faccia altrettanto con lui.23

Come già è avvenuto nel 1292, Fermo si allea con Recanati ed Ancona, che inviano i loro armati, comandati da Gentile da Mogliano e Giacomo di Massa, a Civitanova, per demolire gli edifici del porto. L’esercito mette a ferro e fuoco i mulini, gli abitati, i campi per 8 interminabili giorni.

Ascoli, che è appena rientrata nelle grazie pontificie dopo aver pagato una multa di 10.000 fiorini, si mantiene fedele alla Chiesa e attacca Montefortino, tenuto da Gentile da Mogliano, quindi rioccupa Montepozzillo e riconquista dei castelli, tra i quali Appignano.24

§ 9. I guelfi di Padova cercano di consolidare il loro potere

Il 15 febbraio, a Padova, nel Palazzo Pubblico, Antonio di Carmegnano, fiancheggiato da alcuni altri, sgozza messer Guglielmo Novello dei Paltaneri, «gran capo di parte ghibellina in Padova»;25 tale è il timore che la potenza dei mandanti incute, che gli assassini escono

indisturbati dalle porte della città. Ma il crimine non rimane impunito: infatti Aicardino di Capodivacca26uccide messer Antonio e Clarello de’ Bugli, insieme ad un figlio di questi. Inoltre,

appresa la notizia della morte di Guglielmo Novello, Rinaldo degli Scrovegni cavalca a Vicenza da Cangrande, cui offre il possesso del suo castello di Trambache (o Trabuche). Lo Scaligero rifiuta l’offerta per timore di irritare il governo di Padova. In effetti questo confina in Capodistria il troppo irruento Rinaldo.

I guelfi che «per parte e non per giustizia» reggono il governo di Padova, si riuniscono per deliberare il da farsi per far fronte alle turbolenze della fazione avversa. I principali guelfi sono i Macaruffi, i da Ponte, i Polafrixana, gli Altechini, i de Malizi, i Terradura, i Villaconte e il poeta Mussato. I guelfi deliberano di inviare al confino Marco Forzatè, Gaboa Scrovegni, fratello di Rinaldo, Traverso Delemani e molti altri; giustificano i provvedimenti insinuando che quanto fatto è per rispondere al desiderio di Cangrande della Scala di insignorirsi di Padova.27 Il

governo della città è affidato ad un uomo molto amato dal popolo, Tiso da Camposanpiero, ai Maccaruffi, Maccaruffo e suo fratello Bernabò, a Pietro Altichino.28

§ 10. Arrigo VII in viaggio per Roma

Arrigo decide di svernare a Pisa, in fondo ha gravato sin troppo sui Genovesi e poi è il caso di avvicinarsi alla sua meta, visto il fermento che ribolle a Roma. Arrivare nella città eterna non sarà agevole: la via di terra è bloccata dalla coalizione dei guelfi toscani ed anche la litoranea non può più esser percorsa da quando, agli inizi del dicembre scorso, Diego della Ratta ha occupato la torre di Porta Beltrame in Lunigiana, tra Massa e Pietrasanta. Una delegazione di 24 nobili pisani lo assicura dell’impazienza con cui Pisa lo attende e gli promette

per il giorno della sua partenza una nuova offerta di 20.000 fiorini d’oro, somma che verrà puntualmente versata. A capo della delegazione pisana è Fazio della Gherardesca, «figlio di quel Gherardo, la testa del quale era caduta insieme a quella di Corradino sulla piazza di Napoli».29

Arrigo è costretto a soddisfare le richieste di Ludovico di Savoia e dei Colonna che chiedono 4.000 fiorini per spese di custodia delle piazzaforti di Roma. Il senatore di Roma ed i principi ghibellini romani hanno buon gioco nello spaventare l’imperatore con le notizie dei continui arrivi di soldati a messer Giovanni, fratello di re Roberto di Napoli. Arrigo, comprendendo che è urgente accertarsi dell’amicizia del re angioino, affida a suoi messi30 la

conclusione del matrimonio tra il figlio di Roberto e la figlia di Arrigo. Al vescovo Nicolò di Butrinto e a messer Pandolfo Savelli viene affidato invece l’incarico di recarsi a Roma ad apprestare quanto necessario per l’arrivo e l’incoronazione di Arrigo.31

Il negoziato matrimoniale con re Roberto non è comunque l’unico che l’imperatore stia conducendo. La freddezza tra lui e il sovrano angioino è tale che deve preparare un’altra soluzione, qualora questa si rivelasse per quello che teme che sia: un bluff. Arrigo offre sua figlia anche al figlio di Federico di Sicilia: abbiamo una lettera di Giacomo d’Aragona a re Federico, datata 27 marzo, nella quale lo mette in guardia dal collegarsi con il rey Dalamanya, il re d’Alemagna, che è nemico del re di Napoli.32

Il 16 febbraio il re dei Romani, con soli 1.500 cavalieri, si imbarca sulle galee pisane ma, per il mare grosso, è costretto a fermarsi 18 giorni a Porto Venere. Finalmente, il 6 marzo, sbarca a Porto Pisano. L'accoglienza che i Pisani e tutti i fuorusciti ghibellini di Toscana gli riservano è festosa, in testa a tutti è il capitano della città, il conte Guido da Montefeltro.33

Si radunano a Pisa tutti fuorusciti ghibellini; tra questi vi è Castruccio Castracani.34Con

Arrigo sono il maresciallo Enrico di Fiandra, il fratello Baldovino arcivescovo di Treviri, il cugino Tebaldo conte di Bar, vescovo di Liegi, molti vescovi tedeschi e i due cardinali che il papa ha incaricato dell'incoronazione imperiale: Niccolò da Prato e Luca de' Fieschi; Rodolfo di Baviera, Amedeo di Savoia, Guido, il fratello del delfino di Vienne e il fedelissimo Goffredo di Leinengen, governatore d'Alsazia e suo siniscalco.35 Nel suo seguito vi è anche Nicolò

Buonsignori, nobile di Siena, «el detto messer Nicolò era de’ primi co’ lo ‘nperadore ed era di gran senno e quasi lui guidava lo ‘nperadore». Vi sono pure i conti d’Elci, di Sticciano, il conte Guido da Battifolle e i Santa Fiora.36Anche Dante Alighieri corre a Pisa ad incontrare il suo

imperatore, qui lo vede il bambino di 8 anni Francesco Petrarca, che accompagna il padre.37

A Pisa Arrigo attende i rinforzi che gli debbono giungere dalla Germania. Pisa è ricca: dalla Sardegna ricava annualmente 91.000 fiorini, 50.000 dall'Elba, 50.000 dal territorio e 30.000 dalle pene pecuniarie, più quello che rendono le imposte sulla città e sul contado.38 I Pisani

fanno passare in rassegna da re Arrigo il loro esercito splendidamente armato, consistente in 1.000 cavalieri, 4.000 fanti, 6.000 uomini con scudo e lancia ed una gran massa di fanti leggeri composta dal popolo minuto.39

Dino Compagni ci informa che i Fiorentini sono stati a lungo in forse se inviare ambasciatori ad Arrigo a Pisa: «una volta li elessono per mandarli, e poi non li mandorono,

Nel documento Cronaca 1311-1325 (pagine 41-200)

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