• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 4: PENSIERO, LINGUAGGIO, PERSONA: L'UNCONSCIOUS

4.1 Daniel Dennett e l'enattivismo radicale

Prima di iniziare quest'ultima tappa, fermiamoci un attimo a riprendere il fiato. Lo faremo sottolineando quello che è forse il principale punto di contatto tra la teoria di Dennett e la teoria semiotica, e che mostra come la sua posizione sia irriducibile alle molte etichette che oggi si contendono il campo delle ricerche cognitive: si tratta della natura decisamente narrativa della sua opera, in entrambe le sue facce.

Da un lato infatti l'atteggiamento intenzionale, che abbiamo visto essere la chiave per la sua teoria del contenuto, si definisce a partire dalla ricostruzione di mondi nozionali, e da un'assunzione di razionalità che non è altro che l'analogo, per il teorico della mente, della necessità per il detective di individuare un movente plausibile, quale che sia, per il caso che sta indagando. Dall'altro il modello delle molteplici versioni, che abbiamo visto essere il quadro di lavoro della sua teoria della coscienza, si definisce come un processo di produzione continua, di fissazione continua di significati il cui compito è quello di allestire un mondo coerente in cui il sistema cognitivo possa muoversi in modo efficace. La teoria di Dennett, perciò, non appare neppure scalfita dall'attacco principale mosso dall'enattivismo radicale alle scienze cognitive tradizionali, e cioè la radicale critica del concetto vero- condizionale di rappresentazione: perché in gioco, per Dennett, non c'è mai “The Way How Things Are”.

Per questo quello che Hutto e Myin (2013) definiscono, per analogia con gli studi sulla coscienza, l'Hard Problem of Content (come si può passare da una semplice covarianza indiziaria tra stati interni ed esterni – ad esempio quella tra gli anelli di un albero e la sua età – ai valori di verità?), e che in fondo dipende dal problema dell'indeterminatezza del contenuto che abbiamo esplorato nello scorso capitolo (cosa significa, davvero, il rilevatore di movimento della rana? Punto nero che si muove? Cibo? Insetto? Mosca?), non si pone neppure per lui: o meglio, non si pone in quanto problema, ma piuttosto come risorsa. L'indeterminatezza del contenuto è proprio ciò che fa della cognizione un processo interpretativo che non può risolversi in maniera istantanea, e di quel potere di fare l'eco che è la coscienza un modo d'essere così mirabile1. Perché se non ci fosse bisogno di interpretare

qualcosa che sta, in modo fondamentalmente ambiguo, al posto di qualcos'altro (vedi Ginsburg e Jablonka 2019), se il processo interpretativo fosse totalmente pre- determinato da un abito imperturbabile perché assolutamente regolare (vedi Peirce), verrebbero meno le condizioni stesse per l'evoluzione di una coscienza.

I sostenitori dell'enattivismo radicale, invece, sembrano pensare che o il contenuto è qualcosa di esatto, oppure di contenuto non si può proprio parlare. È un po' come nel caso dell'identità soggettiva discusso in 1.5.2, dove Evan Thompson mostrava come una stessa concezione sostanzialistica del sé stesse dietro alle due posizioni opposte del reificazionismo e del neuro-nichilismo: in questo caso gli enattivisti radicali, che condividono con i rappresentazionalisti classici una stessa idea di contenuto (anche se questa è, va detto, una mossa tattica probabilmente obbligata, dal momento che è innanzitutto ad essi che scelgono di rivolgersi), non trovandolo negano qualsiasi contenuto agli stati ed eventi interni. In una lezione tenuta a Bologna pochi mesi fa, Daniel Hutto chiedeva: il sistema solare rappresenta

1 Shaun Gallagher (2017: cap. 4), nel ridurre l'atteggiamento intenzionale di Dennett a una forma di neo- comportamentismo, perché incapace a suo avviso di rendere conto di un'intenzionalità originale – nel senso di non attribuita dall'esterno –, sembra fare l'errore opposto di quanti, nello scorso capitolo, vedevamo considerare la teoria della coscienza di Dennett in indipendenza da quella del contenuto: Gallagher, qui, sta considerando la teoria del contenuto di Dennett in indipendenza da quella della coscienza. Il che non significa, comunque, che Dennett rivendichi una qualche forma di intenzionalità originaria nel senso di non derivata (cfr. il chiamare in causa una Ur-Intenzionalità da parte di Hutto e Myin 2017), al contrario: vedi supra 3.2.5.

forse, esplicitamente o implicitamente, le leggi di Keplero e di Newton? Dennett, lo vedevamo, non avrebbe problemi a condividere con lui una risposta negativa a tale domanda, senza escludere però con questo che si possa parlare di contenuto: il sistema solare, infatti, può benissimo essere detto rappresentare tacitamente quelle leggi. Non diversamente in semiotica: il sistema solare e le equazioni dei fisici infatti, senza che il primo sia una rappresentazione esplicita o implicita delle seconde, stanno in una relazione di interpretanza tale per cui, sotto un certo rispetto, incarnano esattamente una stessa forma di relazione (cfr. Paolucci 2010: 4.11).

Non solo, data una simile problematica nozione di contenuto sono condotti a distinguere una varietà di contenuti che differiscono in natura – contenuto rappresentazionale vs fenomenico. Una distinzione che Dennett, così come la semiotica, non è costretto a fare. Non c'è niente di più, niente di sopravveniente rispetto alle molteplici discriminazioni, che sono poi altrettanti giudizi2,

continuamente compiute dal sistema cognitivo, e più o meno coscienti a seconda del peso politico che riusciranno a ottenere – in base a pregnanza biologica, salienza contestuale, storia individuale delle pertinenze, obiettivi della pratica in corso... Allo stesso modo, in Peirce, non c'è genere di cognizione, sensazioni ed emozioni comprese, che non sia riconducibile ad una medesima forma comune, quella dell'inferenza valida; e come vedevamo nel secondo capitolo il qualitativo era inteso differire soltanto in grado dal quantitativo, essendo nient'altro che una discriminazione meno fine, più binaria e discreta – da cui il riconoscimento di una maggiore sensibilità alla parte non cosciente della mente3.

2 Cfr. CP 7.629: p. 374, “Telepathy and Perception”, 1903, traduzione mia: “Il giudizio percettivo, allora, non soddisfa abbastanza accuratamente la condizione di costringimento né quella di irrazionalità, come dovrebbe per aver giusto titolo ad essere considerato un prodotto della percezione. Ma le differenze sono così minuscole e così logicamente non importanti che converrà trascurarle. Forse mi si potrebbe dare il permesso di inventare il termine percipuum per includere sia il percetto che il giudizio percettivo”: il solo percetto, infatti, mancherebbe di quella categoria della Terzità che, come le altre due del resto, è necessaria al dispiegarsi di qualsivoglia esperienza.

3 Come già evidenziato nei due scorsi capitoli, le affinità tra teoria dennettiana e peirciana sono numerose: rispetto alla coscienza, in particolare, l'impossibilità di stabilire un punto o una linea d'arrivo che possa decidere in maniera assolutamente indipendente dalle disposizioni a reagire, dagli abiti che comporta, cosa è cosciente e cosa non lo è, corrisponde perfettamente al suo necessario svolgersi in un tempo tecnicamente continuo su cui vedevamo, in 2.3, insistere Peirce. E dato che, secondo Peirce, “Dire […] che il pensiero non può avvenire in un istante, ma richiede tempo, è un altro modo per dire che ogni pensiero dev'essere interpretato in un altro pensiero, ovvero che ogni pensiero è in segni” (CP 5.253: trad.

Documenti correlati