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Sviluppo, struttura e funzione rituale

3. La danza-teatro topeng

a. Tracce e contesti storici

Per ritrovare tracce della danza topeng dobbiamo ripercorrere i territori della penisola indiana e indocinese, oltre che la vicina isola di Giava. Le tradizioni di questi luoghi lontani nel tempo e nello spazio pervenne sull’isola a partire dalla seconda metà del dodicesimo secolo, con l’avvento della dinastia Majapahit dalla

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vicina Giava e con l’instaurazione del primo vassallaggio per mano di Sri Aji Krisna Kepakisan nel 1343 d.C. Progenitore della dinastia giavano-balinese degli Ksatrya (bal. Satria) Dalem darà vita alla cultura che determinerà il destino di Bali fino alla prima decade del ventesimo secolo. Periodo storico e culturale che si configura come paradigma fondante l’immagine collettiva del passato balinese, rivissuto all’interno di rituali in cui il mondo delle immagini prende vita attraverso la danza del mascherato, ponte tra passato e presente, in grado di donare senso alla continua ricerca di un’identità, durante una storia di contatti e conquiste indiane, cinesi e musulmane prima, fino all’occupazione olandese, seguita dall’intervento giapponese durante la seconda guerra mondiale e dal turismo di massa degli ultimi decenni. Acculturazione che ha dato vita ad un processo sincretistico in cui la tradizione indo-giavanese si inserì all’interno di credenze e costumi indigeni, senza che questi fossero abbandonati dai nuovi regnanti. Nel nuovo ordine sociale venne inoltre introdotta la distinzione castale composta da tre differenti livelli (triwangsa) separati dai wong jaba o sudra, gli “esterni” identificati tutt’oggi, per uno strano paradosso identitario, con la popolazione indigena.

Tracce della presenza di maschere sono rinvenibili, in realtà, fin dal secolo precedente, durante il regno di Krtanegara e, in tempi più antichi, nella lastra di rame Prasasti Bebetin, datata 896 d.C., durante il regno di Ugrasena, re di Bedulu. Tra le cronache di corte (babad), nella babad Blahbatuh, è indicato come una serie di maschere, bottino di guerra, vennero trasportate sull’isola da Blambangan, ad est di Giava, attorno al sedicesimo secolo. Circa un secolo più tardi, un membro della famiglia Jelantik, nipote di re Waturenggong, compose una danza in cui vennero utilizzate le maschere sottratte a Giava, in quella che risulta essere la prima performance topeng, che prevedeva l’esibizione di un solo attore (pajegan). Quanto questi documenti siano interpretabili storicamente è stato discusso da molti studiosi che ne hanno evidenziato il carattere propagandistico (Bandem e de Boer, 1995: 49). Si ritiene infatti che le prime babad, da cui la danza topeng trae il materiale delle storie messe in scena, siano state redatte in realtà nel XIX secolo, fino ad allora tramandate a voce, spesso con l’intento di enfatizzare il punto di vista della dinastia familiare che ne commissionava la trascrizione, tracciandone lignaggio ed esaltandone le gesta. Come in altre società, a Bali origine e

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discendenza sono concetti dinamici utilizzati per strutturare l’ordine politico e articolare la differenziazione sociale. I balinesi sono soliti identificarsi in termini di tempo e spazio con antenati di un lontano passato, punto di origine comune (kawitan), spesso divino nel caso delle caste più elevate. Scopo delle babad è di tracciare queste genealogie garantendo una continuità tra passato e presente per sancire l’autorità delle classi privilegiate (Schulte Nordholt, 1992:27-58). Che nei racconti vi sia commistione tra interessi personali, mito, e storia oggettiva ciò non compromette la funzione svolta da tali testi, ovvero la definizione di un mondo, sia esso reale o immaginario, in grado di produrre un senso, attraverso la loro riattivazione all’interno di complessi rituali. Questi testi, tradotti in performance artistiche, hanno potuto conservare intatte le funzioni normative e formative originarie, creando un universo simbolico condiviso in grado di coinvolgere le masse e produrre una macroidentità etnopolitica funzionale al mantenimento del potere e di una tradizione condivisa.

La politica di approccio ai villaggi impresse un senso del passato che si fuse con la tradizione indigena. I temi presenti nell’arte vennero rivestiti di un’ideologia di classe. Artisti specializzati si riunirono e cooperarono per diffondere materiale tematico, il cui presupposto era quello di testimoniare la divina discendenza dei regnanti, legittimandone la sovranità. Antichi testi Indiani vennero tradotti e nuove storie create, oltre a poemi e romanzi in prosa e poesie. La produzione di nuovi testi, trascritti nei libri sacri (lontar), e le rappresentazioni in lingua giavano-balinese cressero esponenzialmente e si diffusero su un territorio fecondo (Ramseyer, 1987:120).

Mentre a corte si sviluppava una tradizione artistica in sanscrito o giavanese all’esterno si creò uno stile popolare di cantori e cantastorie che declamavano in metri indigeni, usando insieme l’antico kawi. Ogni occasione di festa veniva accompagnata da performance teatrali, processioni e danze. Il XV secolo fu un periodo di pace sotto la dominazione del re Waturenggong, il cui centro di potere risiedeva a Gelgel. Fiorirono rappresentazioni pubbliche che coinvolgevano gli indigeni e al cui sviluppo contribuì una nuova figura che fungeva da intermediario tra le culture, il penasar, il cui ruolo cruciale fece sì che si conservasse fino ad oggi nelle rappresentazioni topeng. Egli è inoltre mediatore tra il mondo eroico

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del passato ed il tempo presente. Può introdurre argomenti disparati dalla mitologia, alla religione, dal turismo alle elezioni politiche indonesiane. Nel

topeng troviamo due maschere a svolgere questo ruolo: penasar Kelihan, pieno di

sé e legato al mondo del passato attraverso linguaggio e gesti. E suo fratello minore, che contrasta la serietà del primo attraverso una libertà di espressione e l’uso di un’innocente comicità che lo rendono più orientato verso la semplicità quotidiana.

Dopo il regno di Waturenggong Bali si disintegrò in numerosi piccoli principati. Sorsero ovunque attività artistiche legate a piccole corti e a palazzi con i loro propri artigiani e artisti. Un susseguirsi di scontri e battaglie tra principati, intrighi di palazzo, guerre intestine, contraddistinse il periodo successivo, fino all’avvento degli olandesi nel XIX secolo. Nel corso dei secoli le arti non smisero però di innovarsi, nella continua conferma di un’identità e di una tradizione comune.

b. Volti senza tempo

Nella società contemporanea la magia insita nelle maschere primitive ha lasciato campo alla mera funzione utilitaristica – si pensi, fra le altre, alla maschera antigas, a quella del medico, del saldatore, o dello sportivo – quando non emarginata in ambiti artistici, teatrali e cinematografici. Eppure la maschera, manifestazione del Sacro, ha da sempre rivestito un ruolo cruciale per la conservazione e la sopravvivenza delle comunità primitive. L’estensione del significato di maschera può protrarsi fino a comprenderne i gesti, le azioni o il semplice volto umano i cui tratti vengono accentuati da una linea di trucco o da una marcata espressione facciale, come il riso o il pianto. Se consideriamo inoltre i tatuaggi e il trucco come ulteriori espressioni del mascheramento il campo di interesse si amplia fino all’estinzione della maschera in qualità di oggetto materiale, per lasciare spazio ad un sistema “metafisico” (Buraud, 1948:145) esteso a tutti gli oggetti e a tutti gli usi della vita. Così venivano dipinte canoe, piroghe, case: mascherate.

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La maschera è sempre, in ogni contesto in cui si presenta ad uno sguardo, senza cui perderebbe il proprio valore, espressione di presenza, immanenza che tende alla rappresentazione, immagine o mimesi e – contemporaneamente – assenza. Presenza ed assenza che agiscono su due livelli, orizzontale, tra i due volti della maschera, esteriore e celato, e verticale, in grado di collegare il mondo materiale e mondo spirituale, in quella che è possibile definire la funzione simbolica per antonomasia, il punto di incontro tra un mondo altro ed una realtà immanente in cui resta imprigionato lo sguardo dell’osservatore, sempre aldiquà del campo d’esperienza.

Il mascheramento sembra così porsi come condizione imprescindibile del rapporto uomo-mondo in cui il fluire della vita e degli oggetti, dei ragionamenti come delle ideologie si riflettono sulla superficie dell’esistente creando un’infinita varietà di maschere che animano il sipario nel teatro dell’uomo, il mondo della vita.

A bali maschere apotropaiche (si pensi al volto di Bhoma, la Kirtimukha balinese) si ritrovano nei cancelli (kori agung), che separano lo spazio più interno e sacro del tempio dal resto della struttura, sul muro (aling-aling), posto poco dopo l’ingresso nella casa tradizionale, o sul retro delle torri crematorie (wadah), affinché il potere distruttivo incorporato nelle raffigurazioni demoniache si riversi contro le forze avverse attraverso un gioco estetico in cui il simile è in grado di contrastare il simile. Nella danza-teatro topeng, come vedremo, tale fuzione viene svolta dall’ultima maschera ad apparire sulla scena: Sidhakarya.

A Bali si può per la verità sostenere che ci si mascheri ad ogni evento religioso in cui, dalle danze agli indumenti indossati durante le cerimonie, il mascheramento sembra svolgere una funzione di protezione dell’individuo dal contatto con il sacro ed al contempo manifestarne la presenza.

Apparentemente inerme, pezzo di legno inciso e finemente decorato, la maschera, in questo caso, non nasconde, rivela.

La religione balinese29, in cui confluiscono induismo, siwaismo, buddismo e pratiche tantriche, ha conservato la sua originaria matrice animista, risalente al

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La religione Balinese, Agama Hindu Bali, è un amalgama di credenze indù e pratiche e tradizioni animiste indigene. Spesso è molto difficile, e talvolta impossibile, dire dove uno di questi due elementi finisce e inizia l'altro. L'influenza indù è stata assorbita gradualmente nell'arco di diversi secoli. Dal VIII secolo, sull’isola si trovava già una cultura con elementi indù definiti e

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primo millennio a.C.. La concezione di una natura pervasa da tali forze considera ogni elemento in essa presente come manifestazione del potere divino. Alberi, pugnali (keris), tessuti, pietre sono custodi di forze che possono rivolgersi a favore o contro l’attività umana. Le maschere, partecipi di questo mondo, vengono ritenute dalla popolazione potenti viatici di manifestazione del divino, ricettacoli in cui viene ospitata la divinità a cui la maschera consegna un volto “umano”.

ben consolidata. Durante il XIV al XVI secolo, giunsero due grandi ondate di immigrati induisti arrivati a Bali dalle corti di Giava orientale, con l’avvento su quest’ultima del pressante Islam da ovest. Bali è divenuta così una enclave induista all'interno di un mondo a maggioranza musulmana; il suo particolare posizionamento le ha però permesso di rimanere più o meno isolata dai successivi sviluppi della religione indù dell'India, come l’attenzione maggiormente preposta sulla bhakti, salvezza personale, limitata, se non del tutto esclusa, dal contesto balinese e dell’elevazione di Krishna allo stato di salvatore personale e figura di riferimento, alla stregua del Cristo. A contraddistinguere la religione induista balinese sono il costante ricorso all’ortoprassi rituale e la via anagogica scandita dai riti di passaggio il cui compito è di liberare l’anima dalle impurità e di accompagnarla, dopo la morte, accanto alle divinità ancestrali, fino al ritorno presso il tempio privato familiare, in cui le anime dei defunti vengono venerate accando alle più famose divinità indù.

I Gusti Lanang Gita interpreta Topeng Keras, la prima maschera ad apparire in scena, nelle danze introduttive (penglembar). Villaggio di Sangkar Gunung, Karangasem, Bali. Ottobre 2013.

I Gusti Lanang Gita nei panni di Topeng Monyer, seconda maschera (comica) ad apparire in scena, nelle danze introduttive (penglembar). Villaggio di Sangkar Gunung, Karangasem, Bali. Ottobre 2013.

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Maschere profuse di energia vengono ritenute stregate (tenget), e custodite in luoghi lontani dal pubblico, da cui riemergono, temporaneamente, durante specifiche attività rituali, spesso durante gli anniversari dei templi (odalan). La maschera deriva il suo potere magico dalla materia da cui è ricavata: il legno di alcuni alberi ritenuti sacri tra cui il kepuh rangdu, (scient. Sterculia Foetida) utilizzato per le maschere più sacre, come Rangda e Barong o il pulé (scient.

Alstonia Scholaris), destinato ad un uso meno specifico, grazie alla resistenza e

alla malleabilità che lo contraddistinguono. Prima di estrarre dal tronco la forma necessaria alla produzione della maschera un prete ordinario (pemangku), chiede il permesso allo spirito dell’albero e per ogni processo a cui il mascheraio (undagi

tapel), sottopone la maschera, è prevista una specifica cerimonia. L’ultima

(pasupati), ma non meno importante si tiene durante la notte, nell’oscurità della luna nuova: un pedanda porta in vita la maschera attraverso una specifica liturgia. Da questo momento in poi la maschera, che con il tempo può perdere il proprio potere e necessitare di essere “ricaricata”, viene considerata sacra e potente (sakti). Perciò la conservazione del manufatto sacro richiede pratiche profilattiche tra cui il rivestimento con un panno bianco oppure con un tessuto dalle proprietà magiche (poleng), la cui funzione, espressa dal motivo a scacchi bianchi e nero, è di contenere il potere della maschera e impedire che la forza in essa contenuta si riversi pericolosamente all’esterno. Ogni maschera dedicata al culto e destinata ad apparire nelle performance sacre, dunque, non rappresenta bensì è il dio o l’antenato.

Spesso alla presenza della maschera è associato uno stato di trance, in cui la divinità prende completo possesso – entrandovi (karangsukang) - del corpo del mascherato per portare i propri messaggi alla popolazione durante le ricorrenze dedicate al tempio ed alla divinità custode. I rituali coreutici che impiegano l’utilizzo della maschera si rivelano autentiche manifestazioni del divino, perciò molto più di semplici spettacoli per un pubblico. Nella rara danza sanghyang, le giovani fanciulle si lanciano ad occhi chiusi in un esercizio mai provato prima, che le vede muoversi all’unisono in uno stato di trance mantenendosi in equilibrio sulle spalle dei loro portatori. Nel caso del topeng il danzatore - sottoposto ad un duro allenamento e ad un intenso studio di gesti, linguaggi, vocalità e

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coordinazione in cui il maestro sposta, spinge e manipola le membra dell’allievo - non oltrepassa mai lo stato cosciente, mantenendosi sulla soglia tra questo e l’inconscio. La maschera ne governa moto e spirito, ne delinea carattere e voce, senza comprometterne l’integrità psicofisica, comunque subordinata all’identità del personaggio riportato in vita dalla rappresentazione drammatica.

Le maschere del topeng incarnano tipi psicologici, volti senza tempo, manifestazioni di caratteri universali a cui corrisponde una specifica qualità estetica, in analogia con la Commedia dell’Arte: il re elegante e raffinato, l’autoritario ministro dallo sguardo ieratico, il vecchio saggio, l’eroe forte e coraggioso e gli imprevedibili buffoni, brutti e spesso deformi. Durante la performance il danzatore-attore incorpora il carattere di ogni maschera, ricevendone ispirazione, senza cedere alla possessione, conservando il controllo del proprio corpo, le cui grazia e maestria sono elementi imprescindibili per il successo della cerimonia, per soddisfare le divinità ed ottenere l’approvazione del pubblico. Nel contesto performativo la maschera diviene il centro di una complessa rete di forze interconnesse, mediatrice di due mondi opposti. Presente e passato, re e servitù, spirito e carne, tutti legati in un evento di intrattenimento popolare che si svolge attorno alla maschera. Quest’ultima compone in unità il sé e l’altro permettendoci di osservare il mondo attraverso il volto di qualcun altro. Fonde passato e presente ponendoci di fronte a volti senza tempo, quelli di un antico re, come del vicino. La maschera diviene così una potente metafora per la coalescenza di universale e particolare, immobilità e cambiamento, trasformazione, nascondimento e rivelazione. Ma la maschera è anche più di una metafora: un catalizzatore tangibile per la trasformazione di azioni semplici in un significato complesso.

Di seguito riportiamo una breve descrizione delle principali maschere presenti nella danza, in ordine di apparazione30:

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Per una approfondita descrizione delle maschere ed un estensivo apparato fotografico rimandiamo a Galbiati, Maiullari (2005).

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La prima maschera ad aprire le danze introduttive (penglembar) che precedono la trama del racconto è quella del primo ministro (patih). Questo personaggio si contraddistingue per forza e tracotanza. Carattere deciso e tenace, come si addice al suo ruolo di comando. Incarna l’energia tipica della gioventù e, per questo, in opposizione al topeng tua, le danze introduttive vengono interpretate come espressione simbolica del ciclo di vita, al cui interno comicità e disavventure che la contraddistinguono sono espresse dal secondo personaggio, il topeng bondres o topeng monyer.

Topeng Monyer:

La seconda maschera ad apparire nelle danze introduttive, il topeng monyer o

bondres, è un personaggio che introduce il comico nella rappresentazione. Pur non

parlando, trattandosi di una maschera a pieno volto, inscena situazioni comiche attraverso il mimo. E’ il primo personaggio ad instaurare un contatto con il pubblico. Il suo repertorio rappresenta le dinamiche e le difficoltà della vita.

Topeng Tua:

E’ l’ultima maschera ad apparire nelle danze introduttive. Saggezza, tristezza e riflessività caratterizzano questo personaggio tragicomico, i cui reumatismi del tempo gli impediscono di muoversi agilmente, mentre cerca con le forze rimaste di rivivere i fasti di una gioventù lontana, costringendolo spesso a fermarsi per riprendere fiato. Durante il riposo è solito cogliere con le dita una pulce tra i capelli o giocare con i più piccoli tra gli spettatori. Spesso è il primo personaggio ad instaurare un contatto fisico con il pubblico.

Penasar Keliahn o Punta:

E’ il più anziano dei due fratelli al servizio del protagonista della storia. Il suo ingresso sulla scena è spesso contraddistinto da una introduzione melodica modulata vocalmente. E’ la controparte altezzosa e severa del fratello minore, delle cui battute è spesso vittima. Insieme a quest’ultimo ha il compito di narrare

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la storia e funge da intermediario tra questa ed il pubblico, descrivendo lo sfondo su cui le azioni si svolgono.

Topeng Penasar Cenikan o topeng Wijil

Questo carattere del topeng è il fratello minore di Penasar Keliahn. Nonostante la sua giovane età risulta più scaltro e intelligente del maggiore. Sempre a conoscenza di ciò che sta accadendo e di quanto deve essere fatto, Penasar Cenikan è conosciuto anche con il nome di Kartala, che gli deriva dai racconti epici giavanesi Malat.

Topeng Dalem:

Maschera raffigurante il re. Elegante e raffinato come si addice al suo ruolo, può comparire nelle danze introduttive, sebbene lo si ritrovi perlopiù nella trama del racconto, in cui incarna l’archetipo dell’eroe regale. Il candore della sua maschera, i denti in madreperla e le finiture dorate dei dettagli ne evidenziano la purezza e i lineamenti divini. Il terzo occhio (cudamanik) è simbolo di intelligenza e saggezza. Privo di parola, il suo carattere trova espressione nel movimento attraverso una gestualità astratta e stilizzata. La maschera, sempre muta e a pieno volto, è utilizzata anche per raffigurare Shiva nei riti di passaggio

Topeng Bedaulu o topeng Raksasa:

Re Bedaulu fu l’ultimo re indigeno di Bali a opporsi all’invasione dell’impero Majapahit (1275-1527) per opera del ministro giavanese Gaja Mada. Conosciuto per il suoi poteri magici (sakti), Bedaulu deriva il suo nome da beda, “differente”, ed hulu, “testa”. Infatti è anche conosciuto con il soprannome di “re dalla testa di maiale”, in riferimento a una leggenda in cui si narra che, spinto da tracotanza, si staccò la testa e la inviò in paradiso (sorga) per decretare il suo potere. Siwa Shiva, offeso dal gesto e dall’arroganza del re, decise di sostituire la sua testa con quella di un maiale. Come ogni reggente prima dell’avvento della dinastia Majapahit è rappresentato come uno spirito demoniaco (raksasa), in opposizione alla raffinatezza ed eleganza della corte Giavanese.

81 Bondres Bongol:

Personaggio claunesco immancabile in ogni rappresentazione di danza topeng, le cui funzioni consistono nel contenere le forze avverse che presenziano al rituale e nel porsi come intermediario comico tra il racconto e lo spettatore, garantendo un maggiore coinvolgimento del pubblico. Nella cultura balinese la comicità è molto importante per la particolare funzione, che svolge in seno alla comunità, di controllo e contenimento delle forze avverse attraverso la conversione del demonico in comico.

Bondres Bues:

Maschera dell’ubriaco del villaggio che, nel il ruolo che riveste, è spesso in stato confusionale. Per tale motivo rappresenta l’antitesi dell’ethos balinese, in cui uno stato di coscienza alterato è sintomo di bassezza morale, arroganza e animalità

Sidhakarya:

Il nome del carattere significa colui che garantisce il “successo” (sidha) del “lavoro sacro” (karya). Messaggero divino e mediatore tra il mondo visibile e invisibile, Sidhakarya è l’ultima maschera del topeng a entrare in scena. Il suo