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della Toscana centromeridionale tra XI e XIII secoloFrancesca Pomaric

1Sulla pertinenza dell’ampia cripta all’edificio consacrato nel 1036 si era già espresso decisamente Salmi, La scul-

tura romanica, p. 19 ss., che vedeva nelle figure dei capitelli i «primi tentativi», in territorio toscano, di una scultura

a forte rilievo sull’esempio dell’antico, spiegando una prova tanto precoce in quell’ambito come il risultato delle in- dicazioni fornite agli artefici da monaci che avevano rapporti con l’Italia Superiore. L’appartenenza della cripta alla ricostruzione dei primi decenni del secolo XI è stata confermata negli studi successivi: si veda da ultimo la detta- gliata disamina di Much, L’abbazia e Giubbolini, San Salvatore. Di diversa opinione è però Eliane Vergnolle che nella sua recensione a L’Abbazia di San Salvatore [in «Bulletin monumental», 147 (1989), pp. 187-188] espone di- verse ragioni che a suo avviso rendono poco credibile la datazione della cripta attuale in riferimento alla consacra- zione del 1035. In particolare nei capitelli l’autrice non ravvisa i timidi inizi di uno stile romanico bensì il manife- starsi di una corrente popolare, affermatasi non prima dell’inizio del XII secolo, con caratteri pertinenti già alla se- conda metà del XII se non ancora più tardi. Per quanto riguarda le date della ricostruzione si veda Kurze, «Mona-

sterium Erfonis», p. 369.

2Il fenomeno è stato studiato soprattutto in ambito francese, cfr. tra gli altri, Cabanot, Les débuts; Sapin, Saint-

Benigne; Baylé, Les origines; Vergnolle, Le débuts, p. 189 ss.; più in generale, ma con scarsa attenzione alle regioni

italiane: Durliat, La sculpture du XIe siècle, in partic. p. 205 ss. Per quanto riguarda l’Italia ancor valide sono molte delle osservazioni di Edoardo Arslan (La scultura); la ricerca in ambito italiano è stata complicata, e per molti versi sviata, sin dall’origine, dalla pseudo-individuazione dell’attività di maestri lombardi presenti ovunque, e non solo in Italia, si fossero manifestati determinati caratteri stilistici, si vedano in proposito le osservazioni di Wilhelm Schlink (Saint-Benigne in Dijon, p. 143 ss.) sulla italienische Frage relativa alla decorazione architettonica della chiesa di Saint-Benigne a Digione legata alla figura del committente Guglielmo da Volpiano. Alla grande questione dell’‘Arte lombarda’ è stato dedicato uno dei Convegni di Parma nel 2001 per cui si veda l’introduzione di Arturo Carlo Quin- tavalle, Arte lombarda, medioevo e idea di nazione; si veda inoltre Gandolfo, Mito e realtà; infine, per un riesame complessivo della situazione degli studi sulla scultura romanica italiana, si veda Glass, Quo vadis.

3Va ricordato qui che il capitello del sostegno equivalente a sinistra è di restauro.

l’organismo architettonico costituisce un punto di riferimento importante per la chiesa amia- tina5. Qui si trovano sei capitelli, due dorici di

reimpiego, uno semplicemente graffito, uno a imitazione dello ionico (fig. 2), uno con festoni (fig. 1) e un ultimo con una testa c.d. di Ache- raffigurazioni è opportuno soffermarsi su quel-

lo che appare come un significativo antefatto, vale a dire il corredo di capitelli realizzato poco prima nella cripta della chiesa abbaziale di Far- neta nella Val di Chiana: un impianto, tale cripta, che anche per quanto riguarda

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5La datazione della chiesa di Farneta, oscillante tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, va risolta secondo

Rita Scartoni (La chiesa abbaziale, p. 57) in favore del termine più recente; sui rapporti tra Farneta e San Salva- tore si veda Much, L’abbazia, p. 358; Giubbolini, San Salvatore, p. 72; un possibile tramite tra i due edifici è stato indicato nella chiesa abbaziale di San Giusto presso Tuscania (Raspi Serra, Tuscania, p. 17; Scartoni, La

chiesa abbaziale, p. 61) dove però non si conservano capitelli figurati. I logori capitelli figurati che sormontano

alcuni dei sostegni addossati alle pareti nella cripta di Badia Prataglia, in Casentino, non appartengono alla fase originaria della costruzione che risale alla fine del X secolo: cfr. Bracco, Architettura, p. 45 s.; Armandi, Archi-

loo e altri motivi tra foglie angolari (figg. 3-4)6.

Correlato, e di particolare interesse è anche un altro capitello frammentario, conservato oggi nel Museo statale di arte medievale e moderna

di Arezzo, e ritenuto provenire da Farneta, che presenta una serie di teste intorno al calato, più grandi al centro e più piccole e appaiate agli an- goli (figg. 5-7)7. Tale esemplare sembra costi- 1-4. Farneta, abbaziale di Santa Maria Assunta, cripta, capitelli. 5-7. Arezzo, Museo statale di arte medievale e moderna, ca- pitello proveniente da Farneta.

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6Una trattazione dettagliata di questi capitelli si trova in: Fatucchi, La diocesi, p. 132 ss.; si veda anche Calzecchi

Onesti, Relazione sui restauri, p. 364.

7Il capitello, che conserva solo due facce (cfr. Fatucchi, La diocesi, n. 122), era già stato menzionato da Salmi

(L’architettura romanica nel territorio aretino, p. 33) che lo riteneva proveniente dal vano sinistro della cripta della chiesa che, all’epoca della sua ricognizione, non era accessibile; quest’ultima supposizione si è rivelata inesatta una volta ri- aperto il vano dove il capitello originario era ed è ancora in situ. Per Calzecchi Onesti (Relazione sui restauri, p. 364) che ha condotto la massiccia campagna di restauro di cui è stata fatta oggetto la chiesa abbaziale di Farneta agli inizi degli anni Quaranta il capitello potrebbe provenire dal chiostro, iniziato nel 1191 (come attestato da un’ iscrizione) (ivi, p. 362); quest’ultimo autore d’altronde sembra vagamente suggerire anche per i capitelli della cripta «che rivelano una certa ricerca di novità e di libera imitazione dell’antico» una datazione all’XI secolo inoltrato se non al XII.

tuire un elemento di congiunzione tra i capitelli della cripta di Farneta e quelli di Abbadia di San Salvatore, non solo dal punto di vista ico- nografico bensì anche nello specifico della fat- tura, come mostra il confronto tra la barba sot- tilmente striata di due teste sulle facce laterali di questo capitello e quella di una testa su uno di quelli amiatini (tav. 34, figg. 6-7). Ma più in generale va osservato, a mio avviso, che le mae- stranze al lavoro nei due casi procedono se- condo uno stesso modus operandi che comporta fasi di sperimentazione rapidamente susseguen-

tisi; tale modus operandi appare motivato da una evidente volontà di creare qualcosa di nuovo attingendo a più ambiti di modelli, anti- chi ma anche altomedievali. Sul versante dei modelli antichi si nota che i festoni di Farneta (fig. 1) così come i bucrani di Abbadia San Sal- vatore (tav. 50) discendono dalle stesse fonti. Queste possono andare da esempi eminenti, come il fregio del mausoleo di Adriano (fig. 8), a casi più modesti come quello testimoniato da una lastra di rivestimento frammentaria conser- vata al Museo di Cortona (fig. 9), la quale pre-

8. Roma, Castel Sant’Angelo, particolare del fregio del ba- samento.

9. Cortona, Museo della Città Etrusca e Romana, lastra di rivestimento frammentaria.

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senta in più una corrispondenza interessante anche con un altro capitello amiatino di più ac- centuata stilizzazione (tav. 49)8.

A proposito di Farneta, Salmi aveva osser- vato che nei rozzi capitelli gli artefici monaci «si sforzano [...] e di imitare esemplari classici e di fare creazioni originali, in cui già comin- cia ad apparire la figura umana, tenendo però

sempre presenti gli antichi esempi locali»9.

Anche per quanto riguarda Abbadia San Sal- vatore lo studioso afferma che «non si po- trebbe spiegare in Toscana un’arte così pre- coce senza pensare la maestranza amiatina gui- data da monaci che facili rapporti potevano avere con l’Italia superiore», infatti egli ritiene che ogni tentativo di scultura a forte rilievo sia da collocare nel seguito dei primi esperimenti avvenuti in Lombardia «intendendo con essa, in senso lato, tutta l’Italia settentrionale»10. Per

ragioni diverse, dunque, tanto Salmi, quanto altri studiosi, tendono a negare che nei primi decenni del secolo XI si potesse localmente produrre ad Abbadia San Salvatore la decora- zione figurata dei capitelli della cripta11. Non

è il caso qui di contestare nei dettagli queste opinioni, perché si tratta di effetti prodotti da

impostazioni storiografiche che per lo più si possono considerare superate e che, quando riemergono, si rivelano chiaramente come una deriva di preconcetti la cui persistenza si deve ad una elaborazione dei materiali e dei fatti

ancora fortemente deficitaria12. È meglio

quindi ripartire dal riesame del contesto nel quale sorse la nuova costruzione della chiesa abbaziale del Monte Amiata per verificare la coerenza di ciò che ci è pervenuto nell’ambito documentario e in quello monumentale.

Le nostre conoscenze in merito all’origine e alla storia medievale dell’abbazia di San Sal- vatore provengono per la massima parte dai documenti dell’archivio abbaziale che sono stati studiati a lungo e esemplarmente pubbli- cati da Wilhelm Kurze, storico a cui si devono anche numerose indagini sul complesso mo- nastico13. Di fondazione longobarda, l’abbazia

di San Salvatore godette di una notevole pro- sperità in epoca carolingia, ma nel corso della seconda metà del secolo X subì un grave de- cadimento in quanto gran parte dei beni le erano stati sottratti per volontà imperiale e per altre illegali aggressioni al suo patrimo- nio14. Quando nel 1004 venne eletto abate Wi-

8Per la lastra in terracotta si veda Il Museo della Città, VII, 77, p. 316, dove si trovano anche le indicazioni bi-

bliografiche sulla diffusione dei motivi in questione.

9Salmi, L’architettura romanica nel territorio aretino, pp. 33-34; lo studioso suggeriva un confronto tra le teste del

capitello nel museo di Arezzo e alcune maschere di bronzo etrusche al Museo di Chiusi.

10Salmi, La scultura romanica, p. 19 ss.

11Vergnolle e Calzecchi Onesti propongono uno spostamento in avanti della cronologia, cfr. le note 1 e 7. 12Per la situazione problematica degli studi sulla scultura ‘romanica’ in Italia cfr. Glass, Quo vadis.

13I documenti sono pubblicati in: Codex Diplomaticus Amiatinus; gli studi principali di Wilhelm Kurze su Abba-

dia San Salvatore sono: «Monasterium Erfonis» e I momenti; un riesame di tutta la storia medievale dell’abbazia at- traverso i documenti era stata previsto dal Kurze per il III volume del Codex, essendo tale volume uscito nel 2004, dopo la scomparsa dello studioso, tale sintesi è stata pubblicata a cura di Mario Marrocchi (Profilo storico, in Codex

Diplomaticus Amiatinus, III, pp. 9-79).

14La fondazione realizzata, durante il regno di Astolfo, dal nobile friulano Erfo, che fu anche abate, rientrava in

un piano di organizzazione della strada che attraversava la valle del Paglia e del Formone (tratto di quella variante della Cassia che poi assunse il nome di Francigena) messo in atto dai Longobardi a partire da Liutprando, cfr. Kurze, Breve storia, p. 293, si veda anche, per quanto riguarda in particolare il rapporto con la strada, Stopani, La

via Francigena, p. 17 ss. Sui documenti di fondazione conservati, due privilegi, uno di Ratchis e uno di Astolfo,

nizo, osserva Kurze, le condizioni del cenobio erano tali da metterne in pericolo la stessa so- pravvivenza. Il nuovo abate riuscì a ribaltare la situazione sfruttando abilmente il mutare del clima politico, ora divenuto favorevole alle fondazioni monastiche, cosicché l’epoca del suo governo, durato più di trent’anni, fu ca- ratterizzata da una ripresa e poi da un picco di donazioni che attestano, come ha ampia- mente argomentato Kurze, il grande prestigio raggiunto dall’istituzione15. Un tale successo

non era scontato perché l’ondata di entusia- smo verso le fondazioni monastiche, sorta al- l’inizio del secolo, era rivolta in primo luogo verso i nuovi ordini riformati – come, per quanto riguarda l’area in questione, quello di

Camaldoli – che mettevano al primo posto la ricerca di un nuovo rapporto con la spiritua- lità16, e dunque in un tale clima le pacate tra-

dizioni di una veneranda abbazia benedettina non sembravano destinate ad esercitare un grande richiamo. Fu proprio a sovvertire tale pronostico, tuttavia, che si applicò con suc- cesso Winizo, riuscendo a dimostrare «che era possibile un’intensificazione della vita spiri- tuale anche rimanendo del tutto fedeli alla struttura di un’antica abbazia imperiale»17. Un

altro dato interessante che si ricava dalla ap- passionata lettura delle carte amiatine com- piuta da Kurze è che, a fronte di tante dona- zioni e restituzioni, non si trova in questo pe- riodo di ascesa economica nessun acquisto da

tino sono tutte di carattere amministrativo e giuridico, Wilhelm Kurze ha quindi applicato un metodo da lui defi- nito statistico per trarne indicazioni anche riguardo alla storia del monastero (cfr. Kurze, «Monasterium Erfonis», p. 360 ss.). Da questa indagine risulta per i primi tre secoli di vita dell’abbazia, l’inizio di un periodo florido alla fine del sec. VIII che culmina nella prima metà del IX, un rallentamento dell’attività e poi una decisa caduta alla metà del secolo X e quindi una potente ripresa nel primo quarto dell’XI. Se il primo periodo di prosperità coincide con l’epoca d’oro di tutte le istituzioni ecclesiastiche durante l’impero carolingio, il secondo richiede un esame più circostanziato del contesto specifico.

15Kurze, Breve storia, p. 301; Id. Profilo, p. 67. Appena assunta la carica di abate (nella primavera del 1004) Wi-

nizo si recò a Pavia a chiedere a Enrico II, eletto e incoronato re d’Italia il 14 maggio, un diploma a tutela dei beni dell’abbazia che il re concesse confermando tuttavia possedimenti in misura minore di quanto sperato; l’abate non protestò perché aveva bisogno dell’appoggio del potere imperiale contro avversari molto prossimi: i conti Aldobran- deschi e il vescovo di Chiusi, Arialdo. Poco dopo l’abate scrisse una lettera molto dura al conte aldobrandesco Ilde- brando per esortarlo ad opporsi alle pretese del vescovo di Chiusi sulle decime dell’abbazia; al seguito di ritorsioni da parte di quest’ultimo, la questione tornò al cospetto di Enrico II questa volta in Germania nel 1007. In questa occasione Winizo ottenne un nuovo diploma più generoso ma non la soluzione del contrasto con il vescovo di Chiusi il quale, nonostante la sentenza del re, continuava a rifiutarsi di consacrare senza compenso le chiese del monastero; per questo l’abate dovette rivolgersi al papa, Benedetto VIII, che nel 1015 inviò il vescovo cardinale Pietro di Pale- strina ad eseguire le consacrazioni. Nel frattempo i rapporti con la nobiltà locale erano migliorati; nel 1027 un nuovo diploma di Corrado II concesse di nuovo a San Salvatore quasi tutti i precedenti possedimenti aggiungendone altri. Per un recente riesame della questione dal punto di vista dell’ascesa del potere comitale si veda, Collavini, «Honora-

bilis domus», p. 87 ss. Della famiglia di origine di Winizo non si sa nulla, il fatto che già nel 996 vi fosse stato un

abate con questo nome fa pensare a una provenienza dalla nobiltà locale; Spicciani (L’abbazia di San Salvatore, p. 54) ritiene invece che ci sia stato un unico abate Winizo in carica dal 996 (almeno) al 1036; concorda Gorman, Ma-

nuscript Books, p. 225.

16Un passo della vita di san Romualdo di Pier Damiani (cap. LXV) afferma che l’imperatore Enrico II aveva con-

cesso al santo l’abbazia, ma è tutt’altro che certo che con l’espressione montis Amiati monasterium Pier Damiani in- tendesse riferirsi ad Abbadia San Salvatore, altri hanno ipotizzato infatti che il riferimento indichi piuttosto l’eremo del Vivo nel versante nord dell’Amiata, senza ottenere peraltro un generale consenso; cfr. le annotazioni di Giovanni Tabacco alla sua edizione della Vita Romualdi (p. 107 ss.). Per l’esatta collocazione cronologica di questo affida- mento da parte dell’imperatore si veda Kurze, Campus Malduli, p. 258, il quale ritiene plausibile un tentativo di de- stituzione, fallito, dell’abate Winizo in favore di Romualdo nel 1022.

parte dell’abbazia18: per restaurare il prestigio

dell’istituzione Winizo si dovette quindi im- pegnare intensamente piuttosto nella costru- zione della nuova chiesa; i lavori secondo i calcoli comparativi dello storico appena men- zionato, dovettero iniziare intorno al 101519.

La consacrazione ebbe luogo, alla presenza del patriarca Poppone di Aquileia e di altri 17 vescovi, il 13 novembre del 1035: una data così inopportuna per un clima come quello dell’Amiata fu probabilmente scelta per far sì che Winizo potesse assistere alla cerimonia, egli infatti venne a mancare poco dopo20.

Stando così le cose non c’è molto da mera- vigliarsi per il carattere eccezionale della chiesa voluta da Winizo: proprio l’importanza del nuovo edificio doveva ser- vire a rendere a tutti evidente la rilevanza del ruolo che il monastero svolgeva sin dalla sua fondazione. Più nel dettaglio si può ancora osservare come nel quadro della tendenza ge-

nerale verso il rinnovamento architettonico, che caratterizzò i primi decenni del secolo XI21, molti casi importanti testimoniano di

una attenzione particolare rivolta in primo luogo alla cripta, sia per quanto riguarda l’articolazione architettonica, sia per gli inter- venti ornamentali22. In tali nuove costruzioni

dettate dall’anelito verso la rinascita della vita spirituale, così come verso il ripristino delle antiche tradizioni e la riforma delle istitu- zioni, la cripta costituiva il fulcro storico del complesso in quanto luogo di raccolta delle memorie: le reliquie, in primo luogo, ma an- che le sepolture di personaggi eminenti23. Di-

versamente da molte delle abbazie e delle cat- tedrali che in quegli anni si rilanciavano, Ab- badia San Salvatore non poteva contare su re- liquie dotate di un particolare prestigio, non custodiva la venerabile tomba di un martire o qualche altro oggetto che avesse dato prova di poteri miracolosi24; l’unico elemento che

18Kurze, Profilo storico, p. 62; I momenti, p. 45. 19Kurze, «Monasterium Erfonis», p. 369.

20La Notitia consecrationis et nomina sanctorum, l’unico documento narrativo relativo alla storia medievale della

chiesa abbaziale, è pervenuta in diversi esemplari per cui si veda l’edizione in Codex diplomaticus Amiatinus, II, n. 271, p. 178 ss.; questo documento è l’ultimo in cui compare il nome dell’abate.

21Vedi sopra alla nota 2; è d’obbligo in proposito citare il noto passo dei Historiarum libri quinque di Rodolfo

Glabro in cui si afferma che all’indomani dell’anno mille «si videro rinnovare per quasi tutta la terra, ma special- mente in Italia e in Gallia, le basiliche delle chiese... Era come se il mondo stesso, scuotendosi e spogliandosi della sua vecchiezza, rivestisse d’ogni parte una bianca veste di chiese» (la citazione è presa da Duby, L’anno mille, p. 163). Sul senso da dare a questa affermazione, a cui comunque corrisponde un effettivo incremento delle costru- zioni alla svolta tra primo e secondo millennio, si sono soffermati numerosi studiosi; si vedano i diversi contributi in

The White Mantle; in particolare Hiscock, The Ottonian Revival.

22Magni, Cryptes; Mc Clendon, Church Building, p. 223 ss.; Sapin, Cryptes.

23Le modalità di ricostruzione e decorazione della cripta come amplificazione di rivendicazioni politiche ruo-

tanti intorno al ruolo prestigioso di un edificio, risultante dalla ricchezza e antichità della propria tradizione, sono state ampiamente indagate a proposito del rifacimento della cripta della cattedrale di Aquileia voluto dal patriarca Poppone, portato a termine pochi anni prima (consacrazione 12 luglio 1031) di Abbadia San Salvatore; si veda Dale,

Relics, p. 19 ss.

24La chiesa, dedicata al Salvatore e alla Vergine Maria, possedeva un ricco corredo di reliquie, da quelle della pas-

sione di Cristo a quelle mariane, apostoliche, dei martiri e via discorrendo, ma nessuna aveva mai dato luogo a una venerazione particolare; l’elenco delle reliquie si trova nella Notitia consecrationis et nomina sanctorum (Codex diplo-

maticus Amiatinus, II, n. 271). Recentemente, tuttavia, sulla base di un corposo ufficio dedicato a san Marco papa,

contenuto in un messale del sec. XI realizzato nello scriptorium amiatino (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 1907), si sta indagando sulla possibile esistenza già dal sec. XI, se non addirittura prima, di uno speciale culto del santo papa che in epoca successiva è attestato come patrono dell’abbazia e di cui va ricordato il busto-reliquiario in bronzo

potesse evocare un contatto con il sopranna- turale era legato alla leggenda della fonda- zione dell’abbazia. Questa leggenda – la cui redazione più antica conosciuta risale al secolo XI25– inizia raccontando di come il re longo-

bardo Ratchis, che aveva cinto d’assedio la

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