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DI FEDERICA PAU

Nel documento CITTÀ METROPOLI TERRITORIO (pagine 115-143)

116 na, e di una pars costruens, in cui si prospetta una ricetta per il futuro delle nostre città e una contemporanea lettura del loro passato.

Nel saggio, inoltre, la dichiarazione d’intenti riportata sopra non sembra esplicitare esclusivamente gli scopi perseguiti dai due autori. Tra le righe possiamo infatti intravvedere anche una possibile inter-pretazione del modo di procedere del pensiero roweiano e koette-riano. Riprendendo un’analisi condotta da Luca Ortelli, potremmo allora asserire che sebbene i due autori dichiarino di non essere af-fatto affezionati ai confronti per coppie concettuali,5 chi legge il sag-gio del ’78 ha l’impressione che l’esercizio critico del pensiero pro-ceda per opposizioni successive.6 Un’osservazione che, se riportata all’interno della prima parte di Collage City, mostra che i lineamenti teorici della rifl essione roweiana si reggono interamente sul contra-sto tra un’utopia contemplativa, che segue il modello platonico, e un’utopia attiva, portata alla sua massima espressione dal CIAM del ’33. Il medesimo modo di procedere emerge anche dall’analisi della

pars costruens dell’opera, ove il rapporto dialettico tra la fi gura del

riccio e quella della volpe, prese in prestito da una nota metafora usata dal fi losofo Isaiah Berlin, apre la strada ad una rifl essione che, andando molto oltre la semplice proposta per il futuro delle nostre città, costituirà l’oggetto specifi co del presente lavoro.

Quest’ultimo non può prescindere da una preliminare colloca-zione dell’opera entro una cornice teorica di più ampio respiro. Al riguardo è necessario notare, allora, che le rifl essioni di Collage City palesano una certa sintonia con quelle roweiane più tarde presen-tate in As I Was Saying, e che, contemporaneamente, esse vengono illuminate dalle analisi dell’autore sull’architettura moderna. Non a caso, nelle pagine del saggio scritto insieme a Koetter, è rintracciabi-le una tematizzazione del rapporto architettura-città che diverrà un nodo teorico portato avanti fi no alle estreme conseguenze. Al di là

5 C. Rowe, F. Koetter, Collage City cit., p. 159.

6 Cfr. L. Ortelli, A proposito di Collage City, in M. Marzo (a cura di), L’architettura come testo e la fi gura di Colin Rowe, cit., p. 182. Una strada che non preclude l'apertura al metodo cinematico cui i due teorici accennano brevemente nella prima parte dell'opera. Il metodo cinematico, infatti, non fa altro che delineare un modo di procedere che, basando-si sulla storia delle idee, attraverso il loro confronto porta a riconoscere le oggettivazioni in cui queste convergono. Così, se guardiamo alla prima parte di Collage City, noteremo che il confronto per opposizioni permette d'isolare il contrasto tra l'utopia contemplativa e l'utopia attiva, e che, una volta identifi cati i due termini dell'antitesi, proprio il metodo cine-matico porta alle estreme conseguenze l'analisi critica roweiana. Facendo riferimento alla storia delle idee, infatti, attraverso un raffronto che attinge ad ambiti disparati e lontani dal punto di vista spazio-temporale, l'analisi mostra il punto in cui le stesse idee convergono. Cfr. C. Rowe, F. Koetter, Collage City, cit., p. 46.

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delle differenze metodologiche tra le diverse opere roweiane siamo quindi propensi a sostenere l’esistenza di una sottile linea di conti-nuità, che partendo da La Matematica della Villa ideale, il famoso sag-gio del 1947, sottende a tutta la rifl essione del teorico britannico.

1. Un nuovo mondo si è rifi utato di nascere

L’analisi contenuta all’interno di Collage City mostra che la stessa possibilità di ripensare lo spazio urbano deriva dalla consapevolez-za del fallimento della città moderna. «Un nuovo mondo […] si è rifi utato di nascere»,7 scrivono Rowe e Koetter. Ma che cosa intendo-no veramente con quest’espressione? E quali sointendo-no le caratteristiche del nuovo mondo al quale essi fanno riferimento? Come già accen-nato, la risposta a questi interrogativi è rintracciabile nella pars

de-struens del saggio,8 ove l’avvento della città moderna si profi la come l’espressione più alta di un’utopia che, divenuta attiva, mette in cam-po i suoi caratteri di novità sostituendosi all’utopia classica, per sua natura contemplativa.9 In altri termini, la città della Carta di Atene non si propone come un modello utopico, da intendersi come immagi-ne sacra di una società migliore che ha immagi-nella città ideale il suo corol-lario architettonico, ma come un progetto utopico, che parlando alla gente, alla «contro-cultura»,10 si oggettiva in una concreta possibilità di liberazione e trasformazione sociale11 e ha nell’architettura la sua chiave di volta.

Alla luce di quanto detto, non ci meraviglia che per descrive-re i fondamenti ideali della nuova utopia Rowe e Koetter facciano appello al Delacroix de La libertà che guida il popolo, ove ha luogo la presa di potere da parte delle classi subalterne.12 La nuova utopia,

7 Ivi, p. 16.

8 Per una possibile lettura della pars destruens di Collage City rimando al mio articolo: F. Pau, «Guardare-attraverso» la Carta di Atene. Note sulla pars destruens di Collage City, in AA.VV., Ricerche di Architettura. Atti della Giornata di Studio 8-9 aprile 2011, Gange-mi, Roma 2011, pp. 141-148. Il saggio è un'analisi che si colloca all'interno di uno studio molto più ampio e articolato avente per oggetto la teoria dell'architettura e della città nella produzione di Colin Rowe (il progetto è interamente fi nanziato dalla RAS e dal FSE). 9 Al tema dell’utopia, assai caro a Colin Rowe, l'autore dedica la stesura di un saggio. Al suo interno sono già presenti i lineamenti teorici contenuti nella teoria urbana. Al riguardo si veda: C. Rowe, L'architettura dell'Utopia, in La matematica della villa ideale e altri scritti, a cura di P. Berdini, Zanichelli, Bologna 1990, pp. 187-204.

10 C. Rowe, F. Koetter, Collage City cit., p. 14. 11 Ivi, pp. 29-31..

12 Ivi, p. 46. Al riguardo il Gropius dell'Architettura integrata scrive: «Ho ferma fi ducia e speranza che il CIAM continuerà a battersi per la sua concezione unitaria originale,

118 scriveranno i due autori, non si presenta infatti come «una città me-taforica» che fa appello alla metafi sica, e non è «più nemmeno una città fortifi cata».13 Rotto il suo legame con la musica delle sfere, essa mostra, piuttosto, un forte «slancio verso il futuro e verso l’alto».14

Seguendo un percorso iniziato con l’Illuminismo, sarà la stessa architettura moderna a portare alle estreme conseguenze il proces-so15 durante il quale l’utopia attiva ha assunto defi nitivamente su di sé i caratteri che la contraddistinguono.

Annunciata come l’avvento di un un nuovo mondo, e fondan-dosi sul sovvertimento del rapporto gerarchico servo-padrone,16 la città della Carta di Atene emergerà dalla sfera politica per entrare in quella estetica. Ecco quindi profi larsi l’immagine di una Nuova Ge-rusalemme17 i cui emblemi saranno «la nuova architettura e la nuova

ponendo l'uomo a misura di tutti i problemi di urbanistica e architettura». W. Gropius, Architettura integrata, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 125.

13 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura. Un’antologia di testi teorici e critici: 1945-2000, Einaudi, Torino 2009, p. 213. Il testo pubblicato in raccolta accoglie in linea di massima le medesime rifl essioni contenute nell'omonima monografi a. Laddove sono riscontrabili scostamenti non si tratta di differenze di sostanza, ma sempre di dettagli. All'interno di questo lavoro distingueremo sempre il testo monografi co e il saggio pubblicato in raccolta a cura di M. Biraghi e G. Damiani.

14 Ivi, p. 214.

15 Vale qui la pena ricordare che Rowe e Koetter si mostrano concordi con Judith Shklar nel ritenere che l'utopia classica sarebbe già morta prima della Rivoluzione francese. Cfr. J. Shklar, The Political Theory of Utopia: from Melancholy to Nostalgia, in «Daedalus», primavera 1965, p. 369; C. Rowe, F. Koetter, Collage City, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura cit., p. 211.

16 Il richiamo hegeliano al servo della Fenomenologia dello Spirito è qui palese. Al riguar-do ricordiamo che la sua fi gura rappresenta quella di colui che per il tramite dell'attività formatrice del suo lavoro realizza un progetto, ma anche quella di chi attraverso il lavoro si realizza come uomo, ovvero come coscienza autonoma, riconoscendosi nella forma che ha creato, dunque nell'idea che è stata esteriorizzata col prodotto della sua attività lavorativa. Il servo, quindi, trasformando il Mondo attraverso il suo Lavoro, vi si riconosce come Uomo propriamente detto. Al riguardo, oltre a G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, pp. 283-291, si veda almeno: A. Kojève, La dialettica e l'idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1948, pp. 3-33; pp. 192-199. Interessante notare che nell'Introduzione a L'architettura delle buone intenzioni, Rowe fa presente che l'ethos più vero dell'architettura moderna è un prodotto della speculazione hegeliana. Cfr. C. Rowe, L'architettura delle buone intenzioni. Verso una visione retrospettiva possibile, Pendagron, Bologna, 2005, p. 34.

17 Sul tema della città dell'architettura moderna connessa all'avvento della Nuova Geru-salemme e su quell'insieme di sentimenti e credenze che nel loro complesso avrebbero contribuito a defi nire i lineamenti di una psicologia dell'architettura moderna, molto simile per le sue caratteristiche a un'esperienza religiosa, rimandiamo, oltre all'opera scritta con F. Koetter, alla lettura de L'architettura delle buone intenzioni, in cui Rowe dedica un inte-ro capitolo all'analisi dell'argomento. Cfr. C. Rowe, L'architettura delle buone intenzioni, cit., pp. 63-84.

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urbanizzazione».18 Non più costruita con oro e pietre preziose, la

vil-le radieuse, città simbolo del mondo a venire, si mostrerà ugualmente

luccicante, splendente di vetro e cemento. Essa si offrirà come uno spazio aperto e nella sua forma progettuale sarà concepita come una progressiva scomparsa, dal momento che gli stessi edifi ci, inserendo-si nell’ambiente naturale, appariranno come delicate intruinserendo-sioni.19

Una visione, questa, che esplicita la massima corbusiana secondo la quale «la natura è entrata nel contratto d’affi tto».20 Massima che secondo Rowe e Koetter evidenzia l’affermazione di un continuum spaziale, che esalta «le istanze di libertà della natura e dello spirito» presentando la materia come «inevitabilmente grossolana».21

Un progetto urbano, quello della ville radieuse, che mettendo in discussione la città tradizionale, prende posizione anche sull’archi-tettura di facciata, dal momento che quest’ultima, poggiando su una concezione meramente visiva,22 compromette le esigenze igieniche basilari entro le quali la «gente “reale”»23 vive. La città moderna, di contro, proporrà di affrontare tutti i lati degli edifi ci senza differenze, considerando ogni manufatto architettonico come una bolla di

sapo-18 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura, cit., p. 208.

19 Ivi, p. 210. Per il riferimento roweiano e koetteriano alla scomparsa progressiva delle facciate e la rifl essione relativa al rapporto tra spazio urbano e natura nonché ai risultati che ne conseguono si veda: C. Rowe, F. Koetter, Collage City, cit., pp. 16-17 e pp. 87-90. Sempre sul tema della facciata, nonché sull'utilizzo di vetro e cemento rimandiamo all'analisi di Le Corbusier: Le Corbusier, Maniera di pensare l'urbanistica, Laterza, Roma 1997, pp. 23-24.

20 Le Corbusier, La casa degli uomini, Jaca Book, Milano 1994, p. 95.

21 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, cit., p. 99. Interessante notare che Rowe e Koetter sottolineano che nella città che tende a scomparire dietro «un ricamo di alberi» viene a mancare quel rapporto tra visibile e invisibile che gratifi ca l'immaginazione, ragion per cui risulta più stimolante imbatterci nelle esclusioni di un terreno edifi cato in cui è possi-bile intravvedere luci accese, ombre, soffi tti e oggetti, «piuttosto che sentirsi autorizzati a camminare ovunque − dato che ovunque è sempre uguale». Le Corbusier, La casa degli uomini cit., p. 103; C. Rowe, F. Koetter, Collage City cit., p. 113. La rifl essione ci permette un rimando all'impiego del vetro nell'architettura moderna. Seguendo le analisi del Benjamin di Esperienza e povertà, infatti, è possibile vedere nel vetro il simbolo di un'esperienza che diviene progressivamente più povera, tant'è vero che, secondo il fi loso-fo, l'impiego di questo materiale in architettura porta alla realizzazione di ambienti da cui è esclusa ogni dimensione segreta. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in «Metaphorein», 3, 1978, pp. 12-16.

22 Sulla cosiddetta concezione visiva si sofferma Lewis Mumford nell'opera La cultura delle città facendo riferimento all'architettura da facciata, che distinguendo «tra facciata e tergo, tra visibile e non visibile» dà vita a un grande divario tra ciò che si vede e ciò che non si vede: davanti sete eleganti e profumi costosi, dietro corpi sudici. Una situazione ri-assumibile effi cacemente con la celebre frase «Eleganza e vaiolo». L. Mumford, La cultura delle città, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 124.

120 ne, che risulta perfetta solo se il fi ato viene distribuito uniformemente al suo interno.24 Conseguentemente alla scomparsa della facciata ver-ranno meno le differenze tra il pubblico e il privato e soprattutto quel-le tra il ricco e il povero. Un aspetto, questo, che ribadisce il quel-legame tra estetica e politica sul quale ci siamo soffermati in precedenza.

Nata dietro una forte spinta messianica, la città dell’architettura moderna verrà annunciata come una buona novella, e il suo impatto non risiederà certo nella novità del suo vocabolario formale,25 ma nel signifi cato ad esso conferito.

La «forza propulsiva» di questa nuova utopia si affi evolirà però molto presto, cadendo sotto il peso di quella funzionalità che nei fat-ti ha garanfat-tito la crescita dilagante e degenerata delle nostre città.26

Detto altrimenti, e parafrasando l’asserzione da cui siamo partiti, il disegno urbano della Carta di Atene è rimasto solo un progetto o è diventato un aborto.27 La nuova utopia si è invariabilmente trasfor-mata nel suo opposto, cosicché «ogni possibile poesia si è tramutata in prosa sgrammaticata».28

In seno a questa cornice teorica, il caso del complesso Pruitt-Igoe di Sant Louis sembra incarnare più di ogni altro la portata del fallimento della città moderna. I trentatré edifi ci costruiti su ventitré ettari di territorio, nati dall’adesione a modelli di progettazione ur-bana in parte derivati da Le Corbusier con lo scopo di dare una ri-sposta concreta alle necessità abitative degli strati più indigenti della popolazione29 sono, secondo i due autori di Collage City, una versio-ne burocratica dell’utopia attiva. Del resto il quartiere della città del Missouri, costruito tra il 1954 e il 1955, risolvendosi in un totale

fal-24 Ivi, p. 96.

25 Basandosi sull'applicazione di un metodo centrato sull'analisi comparativa delle for-me, Rowe è arrivato a concludere che l'architettura moderna è una struttura formale con signifi cati classici, intenzioni artistiche e un vocabolario che non ha niente a che fare con la prassi funzionalista. Per l'impostazione metodologica rimandiamo alla lettura del saggio più noto di C. Rowe: C. Rowe, La matematica della villa ideale in La matematica della villa ideale, cit., pp. 2-24.

26 Cfr., Rowe, F. Koetter, Collage City, cit., p. 54. 27 Ivi, p. 13.

28 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura, cit., p. 216.

29 Per una sintesi sull'argomento si vedano almeno: L. H., Larsen, An History of Missou-ri: 1953 to 2003, University of Missouri Press, Missouri 2004, vol. VI, pp. 61-63; K. G. Bristol, The Pruitt-Igoe Myth, in K. Eggener (a cura di), American Architectural History: A Contemporary Reader, Routledge, New York 2004, pp. 352-364. In particolare, in quest'ultimo saggio è contenuto un riferimento alle teorie roweiane e koetteriane sul tema (p. 360-361).

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limento verrà demolito dopo soli sedici anni dalla sua costruzione:30

«Ecco il commento ovvio […] al modello lasciatoci in eredità dagli anni Venti. C’è il modello […] e c’è il derivato che ispira il desiderio di

distruggerlo e merita di essere distrutto».31

2. Una metafora berliniana

Che cosa fare dopo la distruzione? Quali possibilità ha la città di ripensare se stessa quando intorno vediamo solo macerie? Per rispondere a questi interrogativi Rowe e Koetter tracciano un’analisi che, pur nella sua frammentarietà, permette l’individuazione di un baricentro ben defi nito, rappresentato da una citazione tratta dal saggio Il riccio e la volpe di Isaiah Berlin.32

Il testo berliniano, che prende spunto da un frammento in cui Ar-chiloco scrive: «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande»,33

sottolinea che «esiste un grande divario tra coloro [...] che riferiscono tutto a una visione centrale, […], un principio unico, universale e organizzatore che dà senso a tutto […] e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fi ni, spesso disgiunti e spesso contraddittori, […] non unifi cati da un principio morale o estetico».34 Detto altrimenti, vi sono due atteggiamenti psicologici possibili di fronte alle cose: quello del riccio, guidato dal primato di una sola idea, e quello della volpe, at-tenta ad una molteplicità di stimoli. Nella metafora berliniana, infatti, la volpe rappresenta l’atteggiamento di colui che coglie l’essenza di una grande varietà di esperienze e di oggetti per ciò che sono in se stessi, senza cercare più o meno consapevolmente di sistemarli entro una visione unitaria. Animale astuto per antonomasia, la volpe adatta le sue strategie d’azione ad ogni singola occasione. Di contro, il riccio rappresenta l’atteggiamento opposto, quello di chi possiede un’unica difesa nei confronti del reale e riferisce la molteplicità di quest’ultimo ad un sistema unico, più o meno coerente e articolato.

30 La scena della demolizione è stata documentata da Godfrey Reggio nel fi lm documen-tario del 1982 intitolato Koyaanisqatsi.

31 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura, cit., p. 216.

32 Il saggio, pubblicato nella versione attuale nel 1953, è apparso per la prima volta nel 1951 in versione più breve all'interno della rivista «Oxford Slavonic Papers» con il titolo Lev Tolstoy’s Historical Scepticism. Cfr. I. Berlin, Il riccio e la volpe, ne Il riccio e la volpe a altri saggi, Adelphi, Milano 1986 pp. 69-157.

33 Archiloco, fr. 201, in M. L. West (a cura di), Iambi et Elegi Graeci, vol. I, Oxford, 1971. 34 Ivi, pp. 71-72.

122 Usando questa distinzione, i due autori di Collage City, sulla scia di un procedimento che Berlin applica esclusivamente alla letteratura e alla fi losofi a,35 si muovono all’interno di diversi ambiti disciplinari. Al riguardo, la pittura merita tutta la nostra attenzione, giacché essa palesa un caso di opposizione riccio-volpe che mostra chiaramente gli intenti alla base delle argomentazioni roweiane36 più vicine agli interessi perseguiti in questo lavoro.

Siamo di fronte al contrasto tra Picasso e Mondrian. Il primo rap-presenta la volpe par excellence: la sua continua e inesauribile ricerca non permette l’applicazione di paradigmi riduzionistici e ci fa rifl et-tere sulla rappresentazione della complessità del reale che contrad-distingue la sua fi gura. All’opposto, Mondrian incarna il persegui-mento di un ideale unico, quello di una bellezza pura che, prodotta dall’arte, come questa si risolve nel gioco.37 Mondrian è un riccio.

Ma che cosa accade se tenendo ferma la metafora-paradigma di Berlin come strumento d’indagine ci spostiamo dalla pittura all’ar-chitettura? Collage City apporta due esempi: da un lato la Villa di Versailles, dall’altra quella di Tivoli.

Versailles rispecchia la concezione del giardino come critica alla città.38 La sua pianta, avanzando una proposta alternativa alla Parigi medievale, esprime l’ideale di un’architettura totale, della

progetta-zione totale.39 Per questa ragione il complesso della villa s’identifi ca con la fi gura del riccio. Se infatti osserviamo le château del Re Sole, notiamo che qui tutto è addomesticato e il controllo razionale in-veste anche il rapporto tra i manufatti architettonici e la natura. In altri termini, le immagini della Villa palesano una visione centrale unica, anticipatrice del futuro fi lone del razionalismo e del mito del-la società scientifi ca.40

Di contro, la Villa Adriana esprime una predilezione per le

di-35 Cfr. I. Berlin, Il riccio e la volpe, cit., pp. 72 e sgg.

36 Interessante notare che l’antitesi riccio-volpe non viene usata da Rowe solo all'interno della rifl essione contenuta in Collage City. Tra gli scritti nei quali si fa ricorso a questa metafora rimandiamo al testo della conferenza Talento e idee: C. Rowe, Talento e idee. Una conferenza, in «Lotus International», 62, 1989, pp. 7-16.

37 Si veda: P. Mondrian, La pittura deve essere subordinata all'architettura? in P. Mondrian,

Nel documento CITTÀ METROPOLI TERRITORIO (pagine 115-143)