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TRA CINEMA E VIDEOARTE:

CREMASTER 3 DI MATTHEW BARNEY

Premessa

Questo capitolo nasce come riflessione seminale a un lungo work-

in-progress, recentemente sfociato in un volume collettivo di animata

discussione attorno all’opera di Matthew Barney (Dusi, Saba 2012).1

Come dimostra tale volume, non è forse importante (né possibile) dar conto di ‘tutti’ i significati di un lavoro eclettico e polimorfo come quello di Matthew Barney, quanto accettare di entrarvi, come degli iniziati,2 e tentare di rifletterci in modo sistematico.3 Certo Cremaster

andrebbe contestualizzato nel panorama contemporaneo delle perfor-

mance artistiche, della fotografia e della scultura, del design e della

videoarte, ma questo esula dai fini di questo studio.

Va detto che quando si parla di ‘videoarte’ si intendono oggetti molto diversi.4 Si va dai video di semplice ‘documentazione’, come

accade per le prime performance filmate di Joseph Beuys, di Marina Abramovic o di Vanessa Beecroft, ai microracconti di eventi para- dossali o inusuali, filmati in modo documentario o ricostruiti fin- zionalmente, come nei lavori di Bill Viola. Si usa il video in modo decisamente sbilanciato a favore del piano dell’espressione, grazie alla manipolazione elettronica e digitale delle immagini e della mu- sica, in continuità con il cinema sperimentale degli anni Sessanta, 1 Il volume raccoglie riflessioni di storici, filosofi e semiologi dell’arte, assie-

me a quelle di studiosi di media e di videoarte.

2 Si veda l’intervista a Paolo Fabbri in Dusi, Saba (a cura di), 2012.

3 La nostra ricerca è apparsa in forma estesa su E/C e in forma ridotta in Giusti (2008). Il presente capitolo è una versione rivista e trasformata per questo volume.

4 Rinviamo a S. Lischi (a cura di), Cine ma video, ETS, Pisa 1996; Id., Il linguaggio del video, Carocci, Roma 2005; C.G. Saba (a cura di), Cinema Video Internet. Tecnologie e avanguardie in Italia dal Futurismo alla Net. art, Clueb, Bologna 2006.

come accade in molte opere di Zbig Rybczynski. Oppure la videoarte si presenta ‘come un film’, ipercurata, e addirittura come un ciclo

di film visivamente raffinatissimi: è il caso di Cremaster Cycle (di

Barney, USA 1994-2002). Una saga di cinque film lunghi e artico- lati, con lo stesso titolo, prodotti e messi in circolazione in modo volutamente disordinato.

Ci soffermeremo su alcuni problemi che il ciclo di Cremaster pone allo spettatore, e per farlo è necessaria una drastica selezione: scegliere solo uno dei capitoli della saga per iniziare un’analisi te- stuale rigorosa. Lavoreremo allora solo su Cremaster 3, uscito per ultimo rispetto agli altri della serie. In particolare, indagheremo la versione uscita in DVD, l’unica in circolazione in modo ‘ufficiale’ almeno fino ai primi anni Duemila (ora si trova quasi tutto su You- Tube). Una versione ridotta rispetto al film originale di circa tre ore, per giungere a un singolo episodio autonomo di circa mezz’ora, The

Order, che precede il finale del film intero. Come a dire: l’ultimo

anello di una serie, considerabile però come un importante riassunto dei temi dominanti in tutti e cinque i film; nonché, all’interno di

Cremaster 3, come uno dei punti di svolta del racconto: una lunga

‘performance’ a cui, nei termini della semiotica narrativa, segue una sanzione positiva.

1. Un meta-trailer per una saga complessa

Il trailer che Barney propone nel DVD di Cremaster 3 promuove l’intera serie di film della saga Cremaster Cycle. Il multiplo testo di partenza è però composto non da semplici film, ma, come dicevamo, da degli ibridi testuali all’incrocio tra il film di finzione, il film speri- mentale, la videoarte. Insomma, non siamo di fronte a un trailer, ma perlomeno ad un metatrailer, che riprende e deforma, condensando e spostando, isotopie di genere, figurative, tematiche, ma anche domi- nanti valoriali e passionali di un insieme disomogeneo. Non ci soffer- meremo qui sull’analisi puntuale di queste isotopie,5 mentre diremo

che in termini pragmatici, il trailer apre un contratto con lo spettatore basato sull’attesa di capire, proprio come deve fare una forma breve promozionale. Tranne che qui la comprensione non è possibile, data 5 Rinviamo all’analisi del trailer del nostro “CREMASTER Cycle tra cinema

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la complessità dei racconti solo accennati e la potenza dei rimandi figurativi, alcuni dei quali molto violenti, oppure stupefacenti come la donna-ghepardo che ritroveremo in Cremaster 3. In termini pas- sionali siamo invece attivati come spettatori nella curiosità e nel dub- bio, anche grazie al disagio creato da queste immagini perturbanti. Le istruzioni che giungono allo spettatore non sono infatti semplicemen- te polisemiche, e neppure narrative o tematiche. Si tratta piuttosto di un insieme semisimbolico6 di tensioni figurali,7 tra livello plastico e

figurativo e livello tematico, enunciativo, valoriale.8

Rispetto al polimorfo universo discorsivo di Cremaster, lo spetta- tore entra in contatto con qualcosa che è al contempo più imprendi- bile e più potente: una filigrana astratta, una nervatura instabile del testo, costruita attraverso luci, cromatismi, spazi, ma anche scelte di inquadratura, montaggio, ritmo, musica maestosa, silenzi siderali e rumori assordanti. Una dimensione figurale e plastica che fa tuffa- re lo spettatore in una dimensione di complicità affettiva, curiosa e instabile, aperta all’incertezza e alla novità, e si stabilisce attraverso un assaggio delle salienze percettive e sensoriali dei cinque film. Il patto di complicità con lo spettatore passa allora tra figure teriomorfe e universi acquatici o viscosi, rallenti e sguardi dall’alto, contrappo- 6 Sul semisimbolico, inteso come relazione tra almeno una categoria plastica

(una coppia di termini) del piano dell’espressione ed una del piano del contenuto di un testo, si veda A.J. Greimas, “Sémiotique figurative et sémiotique plastique”, Actes sémiotiques, Documents, n. 60, 1984 (trad. it. in L. Corrain e M. Valenti (a cura di), Leggere l’opera d’arte. Dal figurativo all’astratto, Bologna, Esculapio, 1991).

7 Per la nozione di “figurale” che utilizziamo in queste pagine, diversa da quella di origine psicoanalitica e lyotardiana (vedi nota successiva), rinviamo al concetto di “figuratività profonda” di J.M. Floch, Petites Mythologies de l’œil et de l’esprit, Hadès-Benjamins, Paris-Amsterdam 1985; e di D. Bertrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma 2002 (ed. or. 2000). Di schemi tensivi e figuralità in senso semiotico parla invece J. Fontanille, Sémiotique du visible. Des mondes de lumière, PUF, Paris 1995.

8 A partire da Lyotard (1971; 1973) e da Deleuze (1981) il “figurale”, in termini energetici e psicoanalitici, viene indagato nel cinema e nella videoarte da J. Aumont, Á quoi pensent les films, Séguier, Paris 1996 (trad. it. 2007); N. Brenez, De la figure en général et du corps en particulie. L’invention figurative au cinéma, De Boeck, Paris-Bruxelles 1998; P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano 2007; V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007.

sti bruscamente ad esperienze rapidissime di meraviglia o di orrore. Come a dire, un primo bagno nei mondi possibili di Cremaster che lascia il gusto dell’orrido, del bizzarro e del grandioso.

2.1. Modo simbolico e aperture interpretative

Siamo partiti dal trailer per dare subito conto della nostra ipotesi: uno dei problemi pragmatici per uno spettatore del ciclo di Cremaster è infatti quello di trovarsi di fronte a situazioni e racconti quasi eso- terici, misteriosi, ermetici: le istruzioni per interpretarli sono assenti, o meglio sono altrove. Per capire i cinque film bisogna approcciare teorie biologiche e mediche, personalizzate dalla fantasia dell’autore, interessarsi alla letteratura e ai fatti di cronaca degli anni Settanta americani, apprezzare la simbologia massonica, conoscere quella le- gata alla mitologia celtica, ecc. Tutta una proliferazione di senso che usa a piene mani il “modo simbolico” (Eco 1984) per stupire e fra-

stornare lo spettatore, stordirlo e renderlo quasi impotente in termini

interpretativi.9

Come spiega Nancy Spector (2002-2004: 4), curatrice del corposo catalogo della mostra Matthew Barney: The CREMASTER Cycle,10

il ciclo in cinque parti è “a self-enclosed æsthetic system” che nasce da una pratica performativa sul corpo umano. Barney inizia infatti il suo lavoro negli anni Novanta con performance artistiche atletiche ed estreme, nelle quali il corpo, con le sue pulsioni psichiche e le sue soglie fisiche, diventa “simbolo contemporaneo della creazione” (Spector, cit.: 7-10). Per la Spector, Cremaster offre una rappresen- tazione dei processi secondo cui la forma biologica si lega a quella psicologica, ma anche geologica e mitica. L’opera adotta un protei- forme linguaggio visivo: “disegno e film si combinano per indagare fotografia e scultura, che producono a loro volta altri disegni e film, il tutto in un mélange incestuoso di materiali che impediscono ogni gerarchizzazione dei medium artistici” (Spector, cit.: 30-33). Il ciclo 9 Si veda il saggio di Mengoni 2012, in cui si parla, invece che di modo

simbolico, di modo “rizomatico”, rifacendosi a Deleuze, Guattari 1980. 10 Nancy Spector, “Only the perverse fantasy can still save us”, in Matthew

Barney. The Cremaster Cycle, a cura di N. Spector, Guggenheim Museum Publications, New York 2002-2004, pp. 1-91. La mostra si è tenuta prima a Colonia e a Parigi, poi al Guggenheim di New York negli anni 2002-2003.

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di Cremaster “ha almeno due inizi, due finali, e numerosi punti di entrata, è un organismo polimorfo, un’opera d’arte in mutazione per- manente” (Ibid.), nel quale oggetti e immagini, personaggi e luoghi, sono spesso “sbalorditivi, sempre bizzarri e seducenti, e funziona- no a più livelli del senso allo stesso tempo” (Ibid.) mentre le narra- zioni aprono, come dicevamo, a referenze iconografiche multiple e polivalenti. Non c’è, infatti, racconto lineare, “ma numerose andate e ritorno cronologiche secondo un dispositivo che rifiuta l’illusione realista” (Bossé, Garimorth 2002: 12-13).11

Nei termini di Eco, parlare di modo simbolico significa affrontare “una nebulosa di contenuto, vale a dire a una serie di proprietà che si ri- feriscono a campi diversi e difficilmente strutturabili di una data enciclo- pedia culturale” (Eco 1984: 225). Per Eco il simbolico, tra i vari modi del fare “segno”, è il terreno del senso indiretto, dell’analogia, della nebulo- sità, della vaghezza di significato, non è un modo particolare di produrre segni, bensì un’entità semiotica a carattere testuale dove nella “relazione con gli interpreti” si creano effetti di senso, prevedibili o imprevedibili, che fanno diventare quello stesso testo qualcosa di diverso (Eco 1984: 252). Un testo possiede, secondo Eco, numerose procedure d’uso, e i te-

sti sono classificabili in base a come vengono usati, cioè in base a diverse pratiche interpretative, condizionate da procedure di negoziazione. Eco

sembra suggerire che il simbolico, oltre che essere un ottimo laboratorio sulla relazione tra espressione e contenuto, sia il luogo dell’ “uso devian- te” e del “fuori posto”, di ciò che non è autorizzato dal codice (Eco 1984: 243): il luogo per studiare le procedure dell’interpretazione non legitti-

ma, senza auctoritas, al di fuori del codice, fuori dal controllo esegetico

riconosciuto.12 È quello che accade nel nostro trailer, e in particolare in

Cremaster 3. Ogni interprete, per poter cominciare a comprendere il rac-

conto e per portare avanti le sue ipotesi interpretative, o almeno, data la complessità e inafferabilità delle serie narrative, per cercare di capire i

topics e tirare qualche filo deve andare a leggersi i paratesti della critica,

i cataloghi, le spiegazioni a margine, le interviste a Barney. Soprattutto, a nostro avviso, deve ritornare al testo, rivederlo e studiarlo, riaprire i giochi interpretativi: Cremaster si presenta allora come un macro-testo, a dominante simbolica, che sfida l’analisi o in qualche modo la provoca. 11 L. Bossé, J. Garimorth, “The Cremaster Cycle”, in Matthew Barney. The

Cremaster Cycle, catalogo della mostra tenuta al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Ars Magazine, Paris 2002.

Ma forse è banale: non funziona così ogni opera estetica? Cosa fac- ciamo se ci troviamo di fronte ai sacchi bruciati e alle materie accartoc- ciate dei quadri di Burri, o alle maestose monocromie di Rothko? Certo possiamo leggere le interpretazioni critiche e accontentarci, oppure, come suggerisce la semiotica plastica di ascendenza greimasiana,13

possiamo cambiare sguardo e affrontare i contrasti cromatici, topolo- gici e eidetici alla ricerca di un senso ulteriore, analizzare il dipinto per cercare un ‘sistema interno’ dell’opera, un idioletto singolare che ancòri le nostre interpretazioni. Diremo allora che il ciclo di Cremaster propone dei testi estetici, in apparenza semplificati dalla scelta di un apparato figurativo neobarocco, nitidissimo e raffinato, ma nei quali si avverte subito una alta indeterminatezza semantica: “opere aperte”14

postmoderne che sfidano lo spettatore, delle quali non interessa affer- rare il senso compiuto (che non c’è, se non banalizzando). Sono opere che, forse per goderne meglio o per imparare qualcosa, vanno smontate e rimontate nei loro piani dell’espressione e del contenuto: parzialmen- te linearizzate in isotopie e inseguite nelle loro derive simboliche, da una parte, ma anche analizzate nelle loro scelte di sincretizzazione tra i linguaggi visivi e sonori dall’altra.15

Se Cremaster 3 funziona come un’opera di videoarte, allora, è per la sua alta indecidibilità e la sua densità semantica. Nel momento dell’analisi, però, inizieremo da come il testo si presenta allo spet- tatore, considerandolo come un film. Un prodotto audiovisivo, film di finzione, creato con precise strategie testuali. Per esempio ci inte- resseranno le sue posizioni enunciative, le costruzioni discorsive e i programmi narrativi, ma anche le scelte di montaggio e di concate- nazione di sostanze e forme dell’espressione. Ecco allora la nostra ipotesi iniziale, paradossale proprio perché ‘denotativa’: poiché Cre-

master è un’opera d’arte che si presenta sotto forma cinematografica

si dovrebbe iniziare da questo aspetto, ed analizzarlo come un ciclo di film di finzione. Qui ne daremo conto seguendo alcune linee guida legate alla replicabilità audiovisiva, in particolare nella forma della serialità, della ripetizione e permanenza di invarianti, e di conseguen- za dei (macro)fenomeni di variazione e differenza.16

13 Greimas, cit., 1984.

14 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminatezza nelle poetiche contempo- ranee, Bompiani, Milano 1967 (nuova versione dell’ed. or., 1962). 15 Come insegna O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1989. 16 Sulla replicabilità audiovisiva e sonora si veda Dusi, Spaziante (a cura di),

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2.2. Serialità e incertezza

Cremaster è in effetti un lungo sequel, diviso in cinque parti, che

si presenta come una forma di dilatazione testuale. Perlomeno lo trattano così, cinematograficamente, i curatori delle mostre dedicate a Cremaster the Cycle di New York e di Parigi (del 2002-2003), e i festival di cinema o di videoarte come GenderBender di Bologna (2005): lo proiettano in sequenza ordinata, dall’1 al 5, e ne scrivono nei cataloghi rispettando la successione numerica in modo da trovare linee di coerenza e di trasformazione. Ma per Cremaster non si tratta di una serialità semplice, come dicevamo, bensì di una saga, perché i personaggi evolvono nelle generazioni, e vengono seguiti in mol- te sottostorie parallele. Il tutto senza altre spiegazioni che il mutato contesto storico-temporale, che può passare dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta, o dagli anni Settanta all’attualità, con alcune situa- zioni atemporali legate a figure mitiche o a passaggi del racconto non meglio specificati. Si tratta di una forma di macrotestualità nella qua- le un personaggio che si rivelerà come ‘l’antenato dell’eroe’ prende vita, partendo proprio dalla sua concezione, e poi lo ritroviamo nel momento della morte spiegata come punizione per il crimine che ha commesso (Cremaster 1). Ma in realtà il percorso procreativo è la base metaforica di tutto il ciclo, come annunciato dal titolo.

Matthew Barney ha spesso dichiarato che nella fase progettuale aveva semplicemente fissato i luoghi (le location) dei cinque episodi:

Cremaster 1 in uno stadio dell’Idaho, Cremaster 2 su un ghiaccia-

io, Cremaster 3 nella torre della Chrysler, Cremaster 4 sull’isola di Man, e Cremaster 5 in uno stabilimento di bagni turchi e nel teatro dell’opera di Budapest. C’era un’idea di uno sviluppo progressivo da un episodio all’altro, con una evoluzione dei personaggi, anche se non lineare (cfr. Bossé, Garimorth 2002). All’origine del ciclo, Barney rielabora due principi che preleva dai manuali di biologia: l’indifferenziazione sessuale che caratterizza l’embrione nelle sei settimane seguenti la concezione, prima che le ghiandole sessuali (le gonadi) attivino la formazione degli organi femminili o maschi- li, ovvero uno stato di pura potenzialità; e i temi dell’ascensione e la discesa, la contrazione e la distensione, movimenti compiuti dai testicoli in risposta ai diversi stimoli (come il freddo) grazie al mu-

2006. Per analisi più approfondite sull’intero ciclo di Cremaster rinviamo a Spector, 2002-2004; Dusi, Saba (a cura di), 2012.

scolo del “Cremastere”, che dà il titolo all’intero progetto. L’artista lo associa all’ultimo stadio dello sviluppo maschile, che mettereb- be fine all’indeterminazione sessuale, in una logica evoluzionistica rovesciata dai film, nei quali prevalgono figure di androginia e te- riomorfismo (cioè ibridi uomo/animale). Nei manuali di medicina il muscolo di Cremastere (dal nome del suo scopritore) contrae le parti genitali al fine di regolarizzare la temperatura dei testicoli e di proteggere così la formazione e la sopravvivenza degli spermatozoi, e il ciclo dei film si rifarebbe a questo schema: se in Cremaster 1 l’allegoria riguarda l’ascensione dei testicoli, nel Cremaster 5 rinvia alla loro discesa, mentre nel Cremaster 3 avremmo un capitolo cen- trale di ricapitolazione di questi due momenti, uno stato di equilibrio (Bossé, Garimorth 2002: 12-13). Nella mostra parigina, “scultura, fotografia e cinema si intrecciano, e l’architettura viene rivisitata e diventa fluida, circolare” (ib.).

Riassumere un intero ciclo è impresa improba, quasi impossibile nel caso dei molti livelli narrativi di Cremaster nel quale ogni ele- mento lega microcosmo e macrocosmo. Possiamo dire che il tema della determinazione sessuale serve da legame nella serie di riprese tematiche e figurative tra un film e l’altro, in una logica seriale della continuità e della sospensione del racconto principale che si impone nonostante la sequenza finale di ogni film sembri concludere (mo- mentaneamente) i multipli intrecci narrativi. Il primo film (Cremaster

1) è un’introduzione al concetto stesso di ovulazione, che apre un

parallelo figurativo tra favo di miele e le donne/api, mentre in Cre-

master 2 si amplifica il binomio figurativo miele/sperma; la morte del

personaggio principale verrà ripresa nel disseppellimento del cadave- re, trasformato in donna, in Cremaster 3. Il tema dell’arnia e le sue figure diventano parte dell’universo massonico del racconto di questo episodio della saga, nel quale la cornice mitologica sulla creazione delle isole irlandesi fa da legame con il film successivo, che si svolge nell’isola di Man. L’ultimo film della serie, uscito a-cronologicamen- te a metà del ciclo, Cremaster 5, si lega tematicamente agli altri nella ripresa di alcuni personaggi secondari, ad esempio la storia di Houdi- ni, antenato del protagonista del Cremaster 2.

Ma a Barney interessa mantenere ogni forma in uno stadio di “perpetua transizione, intermedio, indifferenziato” (Bossé, Gari- morth, cit.), ed è per questo che usa dei materiali informi, inerenti allo stato di origine, come cera, vaselina, ma anche sale, tapioca, resina. Nel racconto di Cremaster 3 si mette in scena proprio il

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passaggio dal secco inorganico al liquido organico, e dal denso al fluido.17 Anche gli attori in Cremaster sono materiale che subisce

delle metamorfosi, e in effetti non troviamo mai lo sviluppo di un carattere preciso, ma i personaggi rappresentano delle “posizioni ef- fimere (cose-oggetti che diventano personaggi agenti e oggetti che operano in zone intermedie)” (Ibid.). Contrazione e fluidificazione,

ascensione e caduta, indeterminatezza e chiusure semantiche, sono

altrettante categorie che contribuiscono a formare le molte relazioni figurali tra piano dell’espressione e piano del contenuto, investendo attori, spazi, tempi. Ma sono anche quel sistema di invarianti pla- stiche e figurative che lega i diversi linguaggi dell’opera di Barney, in risonanza tra loro nel sincretismo cinematografico, e ancora più evidenti nelle (ri)costruzioni degli ambienti e nelle installazioni e mostre che propongono l’universo di Cremaster. Per Bossé, Gari- morth “l’indeterminato, l’incompleto, l’incertezza si iscrivono in un sistema di referenze complesse, che all’interno del ciclo trovano la propria determinazione nei rapporti tra loro delle varie arti, in un’o-

pera d’arte totale” (ivi: 15).

2.3. Temporalità dilatata

“I miei film si muovono alla velocità dell’arte, che è lenta”, spie- ga Barney in un’intervista,18 e in modo rivelatore associa la scelta di

una temporalità rallentata al tempo della scultura: per Barney tutta la sua pratica è di tipo ‘scultoreo’, e i suoi film vanno visti come en-

tità tridimensionali. La dominante cromatica del bianco energetico

che troviamo in The Order, allora, si può associare non solo al bian- core assoluto delle astronavi di 2001 Odissea nello spazio di Ku-