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Dialettica e materialismo

Nel documento Adorno e l'idea di un'ultima filosofia (pagine 55-182)

Ratio non est regula caritatis. (Tommaso, Summa theologiae)

2.1. La novità della dialettica

In una lettera a Gabriele Henkel del maggio 1968, Adorno scriveva, a proposito della contestazione, di essere molto assorbito dalle “questioni studentesche”, “soprattutto perché i ragazzi, proprio mentre si ribellano contro l’autorità, sono corsi a cercare me in un modo quasi commovente”60. Pochi giorni prima, aveva parlato a Peter Szondi di un “parricidio soltanto rinviato” (Vatermord mit Galgenfrist)61

. L’immagine del rinvio affiora di tanto in tanto nei testi di Adorno, solitamente riferita alla tesi della momentanea impossibilità dell’azione rivoluzionaria: lo registra uno dei primi contributi critici italiani su di lui, il volume di Marzio Vacatello intitolato appunto Il

rinvio della prassi62. Questo offre ai detrattori il pretesto per l’ennesimo equivoco (che poi è sempre lo stesso, ma obbligato dalle continue proteste dell’oggetto a escogitare ogni volta forme nuove). L’atteggiamento teorico di Adorno nel suo complesso viene identificato prontamente con il gesto dello spostare in avanti, e questo è inteso a sua volta come se fosse la semplice proiezione temporale di un movimento presente, dettato dalla fobia di contatto: spostare a lato; schivare il negativo. Così quel sentimento di impossibilità che vuole a ogni costo vedersi riflesso nel pensiero di Adorno si sforza di

60 Lettera a Henkel del 17 maggio 1968, cit. in: Müller-Doohm, op. cit., p. 614. In una precedente lettera a

Henkel, sempre citata da Müller-Doohm (p. 612), Adorno aveva affermato che nelle campagne contro di lui si esprimeva un’“ambivalenza nei confronti della figura paterna”.

61 Lettera a Szondi del 9 maggio 1968, cit. in Müller-Doohm, op. cit., p. 609.

62 M. Vacatello, Th. W. Adorno. Il rinvio della prassi, Firenze, La Nuova Italia, 1972. Il concetto è svolto

in particolare in un paragrafo centrale della Dialettica negativa, dedicato al problema della contemplazione: “Che neanche internamente piovano benedizioni sulla conoscenza, la cui possibile relazione alla prassi trasformatrice è paralizzata almeno temporaneamente, lo dicono molte cose. La prassi viene rinviata [aufgeschoben] e non può aspettare; anche la teoria ne soffre” (DN, p. 218).

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rendersi commensurabile il concetto della possibilità, che in esso sempre riemerge. Quest’ultima sarebbe solo un’invocazione consolatoria, l’altro lato della rassegnazione; vuota di ogni potere oggettivo, perché appunto il potere oggettivo come tale, la capacità di far presa sull’esistente, sarebbe identificato con il dominio e quindi con il male; sarebbe trascendente nel senso di quell’abisso ontologico che, nel gergo della filosofia della riflessione, separa il “normativo” dal “fattuale”. La rivendicazione adorniana della possibilità è guardata con il sospetto che un tempo – e con ben altro fondamento – animava i critici illuministi della religione, come se Adorno ignorasse Marx e Nietzsche. Alla sua idea di utopia non si concede nemmeno il beneficio del dubbio che l’immane sforzo di autoriflessione storico-teorica – da cui soltanto essa, come suo termine ultimo, trae significato – dovrebbe perlomeno suggerire; la si tratta invece come se non sapesse far meglio che ripetere la frode, la facile cattiveria che nelle promesse di felicità futura insinua la beffa ai danni del presente: domani forse, ma non oggi.

L’immagine ormai ci è familiare; l’elemento temporale la arricchisce ora di un tratto importante, precisandola nei termini in cui più volentieri, forse, buona parte del pensiero contemporaneo esprimerebbe la propria repulsione: Adorno nemico dell’immanenza. Come sempre, l’equivoco è reso possibile da un elemento indiscutibilmente presente, del quale però ci si appropria per trasformarlo nel contrario di ciò che intende. La critica al “nesso dell’immanenza” (Immanenzzusammenhang), nella duplice sfera del pensiero e della realtà sociale, è infatti centrale in Adorno; ogni volta che il termine “immanente” compare in questo contesto, si riferisce all’idea di una chiusura repressiva, alla prigionia della ripetizione da cui qualche cosa vorrebbe evadere, ma non può: “non identico” è per Adorno il nome di questo qualcosa, “trascendenza” il movimento dell’impulso. Espressioni frequenti come “blocco”, “cerchio magico”, “bando” (Bann), “sempre uguale” (das Immergleichende), rimandano

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tutte a questa rappresentazione di angoscia claustrofobica. Ma la speranza di derivare da tali determinazioni un significato univoco e fissarlo così una volta per tutte si scontra con il fatto altrettanto incontestabile che il termine, in Adorno, compare anche nel significato opposto: come l’obbligo per il pensiero – e non soltanto per il pensiero – di non saltare oltre se stesso. Senza questo momento di immanenza, diventerebbe incomprensibile l’elemento politicamente centrale di Adorno: la possibilità del pensiero come fondamento del pensiero della possibilità; la teoria come potenza pratica reale e attuale al di qua di ogni “rinvio”. Proprio questo elemento, d’altra parte, è ciò che, in nome della prassi, la sfiducia idealistica nella materialità del pensiero vorrebbe liquidare come mero idealismo.

La difficoltà è generale, si ripresenta cioè a ciascun livello della riflessione adorniana: ogni categoria ne è affetta, senza alcuna eccezione. Essa motiva sia le proteste contro l’oscurità di Adorno, il quale intorbiderebbe le acque per slealtà verso il lettore, sfuggendo di proposito a ogni confronto possibile, sia il fascino che egli esercita su quanti vedono in lui, anzitutto o soltanto, la critica della razionalità identificante: il tentativo di evadere – per l’appunto – dalla gabbia del pensiero concettuale; e lo approvano come la cifra della sua modernità. Susan Buck-Morss, ad esempio, nel sottolineare l’atteggiamento sempre duplice di Adorno nei confronti dei concetti, insiste correttamente sulla sua corrispondenza con la tesi della non identità di concetto e cosa, e riconduce il procedimento – altrettanto correttamente – da un lato a Benjamin, dall’altro all’esperienza delle avanguardie artistiche63

. Tutto giusto; eppure qualche cosa non torna. In simili letture, di per sé veritiere, si avverte tuttavia come un che di unilaterale, l’ombra di un’assenza. Se si considera la percezione corrente di Adorno, non più

63 S. Buck-Morss, The Origin of Negative Dialectics, Hassocks, The Harvester Press, 1977, cap. 3, in

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genericamente, dal punto di vista della sua immagine per così dire immediata, ma da quello più specifico della sua collocazione storico-filosofica, ci si accorge facilmente di un aspetto che è assunto anch’esso come ovvio, a tal punto da non essere quasi neppure dichiarato. Adorno, potremmo dire per ora in via del tutto generale, è considerato universalmente come un tipico esponente del pensiero europeo novecentesco, nel senso del sospetto nei confronti della ragione, di quell’insistenza sulla pluralità irriducibile al concetto, sul nesso tra totalità razionale e dominio, sull’eccedenza del momento singolo e transeunte, che definirebbe appunto la contemporaneità filosofica, in seguito alla cesura rappresentata da Kierkegaard e soprattutto da Nietzsche. Adorno – come Heidegger, Wittgenstein, Sartre, Lévinas, Merleau-Ponty, Derrida, Rorty, etc. – si collocherebbe per prima cosa, e senza molti attriti, nella tendenza inaugurata da questi due autori; i restanti aspetti del suo pensiero si potrebbero tranquillamente derubricare come “influenze” (nel frattempo superate), che egli tenterebbe appunto, con maggiore o minor successo, di costringere nell’alveo del contemporaneo. Adorno sarebbe

essenzialmente un filosofo del non concettuale.

Che questo elemento sia determinante nel suo pensiero, non c’è ovviamente bisogno di dimostrarlo. Non si tratta di sminuirne l’importanza: occorre anzi sottolinearlo con la massima energia. Ma proprio per prenderlo sul serio, riconoscendolo effettivamente come il nodo teorico tuttora aperto e decisivo, ci si dovrà domandare quale elaborazione specifica esso riceve in Adorno; se egli non abbia visto qualcosa che nessuno fra i pensatori del non concettuale ha voluto vedere, e alla cui condizione soltanto il non concettuale può essere pensato. La domanda di Adorno è certamente la stessa che tormenta tutti: in che cosa essa consista, solo una risposta finalmente adeguata potrebbe chiarirlo; inizialmente la sua unità è indeterminata, appunto soltanto l’unità di questo

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tormento, che è il nostro64. Tuttavia, la rappresentazione che non si limita a riconoscere in Adorno la domanda, ma suggerisce implicitamente che anche la sua risposta differirebbe al più per sfumature da quelle ancor oggi accettate, obbedisce a un bisogno di rassicurazione: lo sussume in ciò che è noto e non spaventa. Per rendersene conto, occorre aver almeno intravisto il peculiare carattere inoffensivo delle risposte che dominano oggi così come dominavano al tempo di Adorno, ed esserne rimasti a propria volta spaventati: aver percepito in esso la minaccia reale. Ma una volta superato questo ostacolo, ci si accorge una volta di più della verità della tesi di Adorno sulla mediazione reciproca di comprensione e giudizio: parrebbe infatti che, in questo caso, l’inquietudine per ciò che nel pensiero contemporaneo si giudica manchevole costituisca una condizione necessaria per la più ovvia delle constatazioni filologiche.

L’appiattimento di Adorno sulla tendenza universale e scontata dell’antirazionalismo novecentesco, una lettura a sua volta così scontata in apparenza, e confortata dalla lettera di innumerevoli passi, presentava una nota stonata: “manca qualcosa”. Ora questa si rivela di colpo come un’omissione clamorosa; appare all’improvviso l’elemento ingombrante e rimosso, e la sua assoluta centralità, difficilmente sopravvalutabile, dà la misura di tutta la violenza della rimozione. Proprio la questione dell’immanenza doveva offrire una via d’accesso privilegiata. L’opera che per prima ha reso celebre Adorno si intitola Dialettica dell’illuminismo, e la summa del suo pensiero

Dialettica negativa; la prefazione a quell’importante stadio di transizione che sono i Tre

64 “In filosofia la domanda autentica include quasi sempre in certo modo la sua risposta. Essa non

conosce, come la ricerca, un prima-poi di domanda e risposta. Deve modellare la sua domanda su ciò che ha percepito, affinché venga recuperato. Le sue risposte non sono date, fatte, prodotte: in esse si capovolge la domanda trasparente, dispiegata. […] Il momento espressivo nel pensiero esige che non si finga di porgere more matematico problemi e poi soluzioni. Parole come problema e soluzione suonano mendaci in filosofia, perché postulano l’indipendenza del pensato dal pensiero proprio là dove pensiero e pensato sono mediati reciprocamente. Solo il vero si lascia sul serio comprendere filosoficamente” (DN, p. 59). Il passo citato nel capitolo precedente sull’unità tra comprensione “riempiente” e giudizio (supra, p. 32) segue immediatamente queste considerazioni.

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studi su Hegel si chiude con l’affermazione programmatica: “Intento del tutto è

preparare un concetto modificato di dialettica”65. Eppure del problema della dialettica, autenticamente inteso, non c’è pressoché traccia nella letteratura critica. Non che, ovviamente, il termine non compaia, nella sua forma sostantivata o aggettivata: esso anzi è ripetuto come un mantra. Né mancano gli studi – comunque, relativamente pochi – dedicati al rapporto tra Adorno e Hegel, o al significato della dialettica in Adorno66

. Essi però si mantengono sul terreno dell’interpretazione appena ricordata, senza scalfirne i presupposti. Da un lato, i contributi che affrontano il tema da una prospettiva hegeliana – i migliori – intendono perlopiù criticare la riforma adorniana della dialettica ovvero difendere Hegel contro Adorno, in parte rilevando già in Hegel la presenza di quegli elementi con cui Adorno pretenderebbe di trasformarlo, in parte sostenendo l’inconsistenza teorica di questa trasformazione là dove le differenze appaiono insuperabili. Dall’altro lato, coloro che fanno proprio in un modo o nell’altro il punto di vista della dialettica negativa insistono ugualmente, ma con segno di valore opposto, sulle critiche di Adorno all’idealismo hegeliano: sul perché la dialettica debba essere negativa. In entrambi i casi è evitata la domanda che sola darebbe un senso all’operazione teorica di Adorno, la quale – anche storicamente – è una riscoperta prima che una critica: perché il negativo debba essere dialettico. L’interpretazione più autorevole di Adorno, quella habermasiana, è forse anche la più sorprendente da questo

65 TS, p. 30. 66

Segnalo tra gli altri: R. Bodei, Adorno e la dialettica, “Rivista critica di storia della filosofia”, XXX, 1975, n. 4, pp. 475-500; Id., Strappare il vero dal falso, in TS, pp. 7-26; F. Jameson, Tardo marxismo.

Adorno, il postmoderno e la dialettica, op. cit; A. Arndt, Dialektik und Reflexion. Zur Rekonstruktion des Vernunftbegriffs, Hamburg, Meiner, 1994, pp. 269-277; M. Bozzetti, Adorno und Hegel. Die kritische Funktion des philosophischen Systems, Freiburg-München, Alber, 1996; A. Bellan, Trasformazioni della dialettica. Studi su Theodor W. Adorno e la teoria critica, Padova, Il Poligrafo, 2006; A. Nuzzo, Dialettica negativa e dialettica speculativa. Adorno ed Hegel, in: AA.VV., Theodor W. Adorno. Il maestro ritrovato, a cura di L. Pastore e T. Gebur, Roma, manifestolibri, 2008, pp. 154-180; B. O’

Connor, Adorno’s Negative Dialectic. Philosophy and the Possibility of Critical Rationality, Cambridge, Mass., The MIT Press, 2004; Id., Adorno’s Reconception of the Dialectic, in: AA.VV., A Companion to

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punto di vista: nella disamina di Habermas, che si risolve alla fine, come abbiamo accennato, in un’accusa di irrazionalismo (qui vanno a parare in sostanza la “paradossalità”, la “critica che mina i propri fondamenti”, etc.), la dialettica in quanto tale non è mai tematizzata, come se fosse pacifico che l’idealista per antonomasia venga assunto a nume tutelare di una critica materialistica dell’identità. Ma questo è inevitabile, una volta che il significato di Hegel, il suo rapporto con il pensiero a lui successivo, sia presupposto negli stessi termini di quel cliché che valeva al tempo di Adorno, e contro cui egli reagiva. Viene ignorata cioè, come se fosse una bagatella, la tesi in assoluto più sconcertante di Adorno, che almeno sul piano storico-filosofico meriterebbe una discussione: Hegel come primo filosofo della non identità. “Il suo nome [della dialettica] dapprima non dice altro se non che gli oggetti non vengono assorbiti dal loro concetto”: così si legge in uno dei primissimi paragrafi della Dialettica

negativa67. E nei Tre studi, a proposito del metodo hegeliano: “La contraddizione stessa – la contraddizione fra concetto fisso e concetto mosso – diventa la forza motrice del filosofare. Il concetto viene tenuto fermo, si confronta cioè il suo significato con ciò che esso sussume: e in questo modo, nella sua identità con la cosa, richiesta dalla forma logica della definizione, si mostra al tempo stesso la sua non identità, il fatto cioè che concetto e cosa non coincidono”68. Nel momento esatto in cui Adorno obietta a Hegel di aver ricostituito “nell’insieme” (im Groβen) l’identità di soggetto e oggetto, come “risultato e totalità [Ganze]” del movimento della sua filosofia, indica come “ispirazione” di questa filosofia (come intuizione fondante quindi: non come effetto collaterale) la non identità “nel singolo” [im Einzelnen]69. Non solo; l’identità, certo avversata, è riconosciuta però al tempo stesso come costitutiva del suo opposto, come la

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DN, p. 7.

68 TS, p. 99. 69 TS, pp. 112 s.

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condizione che lo rende possibile: in Hegel “proprio la costruzione del soggetto assoluto rende giustizia a un’oggettività non risolvibile nella soggettività […]. Hegel è capace di pensare muovendo dalla cosa, di rimettersi quasi passivamente al suo contenuto, solo perché essa viene riferita, in forza del sistema, alla sua identità con il soggetto assoluto”70. “L’identità nella sua acme diventa l’agente del non identico”71.

Non renderebbe giustizia ad Adorno anche soltanto ipotizzare che la sua posizione filosofica si possa identificare senza residui con quella di Hegel; questo è talmente ovvio che già ribadirlo suona ridicolo. Ma – ecco il punto – dietro la banalità si nasconde uno stato di cose, forse, un po’ meno scontato: e cioè che questa supposizione non renderebbe giustizia neppure a Hegel; che lo sforzo di penetrare nel concetto adorniano di dialettica presuppone la consapevolezza che la dialettica hegeliana, a sua volta, è ancora una questione aperta, e in un senso che trascende le sottigliezze filologiche – o meglio, le prende sul serio, conformemente allo spirito di Hegel, come questioni cardinali dell’esperienza storica nella sua totalità. Capire Adorno significherebbe, per prima cosa, capire ciò che Adorno ha visto in Hegel: in lui, e non in singoli tratti del suo pensiero che si potrebbero, assai poco dialetticamente, isolare e rimontare a piacere, in nome di una interpretazione “adeguata alle esigenze del presente”. Così, quantomeno, Adorno intendeva il compito. Il bricolage filosofico, un’arte sempre molto cara all’intelletto riflettente, era ciò che egli più odiava: il primo dei Tre studi si apre con la polemica contro un simile atteggiamento predatorio nei confronti di Hegel, contro la compiacenza sospetta di chi, per sbarazzarsene, finge di rinnovarlo. Il presunto disfattista della ragione tiene a salvare, in Hegel, anzitutto il momento speculativo; contro “la misera trovata che l’idealista assoluto sarebbe stato al

70 TS, p. 38. 71 TS, p. 97.

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tempo stesso un grande realista, in particolare un uomo dal penetrante sguardo storico” (Adorno aveva in mente soprattutto Nicolai Hartmann), egli rivendica niente meno che la tesi dell’identità: “La dottrina che l’a priori è anche l’a posteriori […] non è una bravata retorica, ma il nervo vitale di Hegel: essa ispira la critica dell’ottusa empiria, come pure dell’apriorismo statico”72. Il lamento stantio per l’astrattezza inconcludente della speculazione è smascherato, nemmeno troppo velatamente, come terrore molto concreto per le conseguenze cui la speculazione sa spingersi: tra le “intuizioni materiali” di Hegel, impensabili senza il suo concetto di spirito, Adorno cita (con evidente riferimento al paragrafo 246 della Filosofia del diritto) “l’inconciliabilità delle contraddizioni nella società borghese”73.

Queste pagine iniziali dei Tre studi sembrano scritte apposta per noi, come se Adorno volesse fare di tutto per prevenire quel fraintendimento che comunque la sua intelligenza doveva già prevedere come irresistibile, quasi un’apparenza trascendentale – o, in termini meno mistificati: un’apparenza socialmente necessaria (e d’altronde il tentativo di Adorno, a partire proprio dai Tre studi, era ricondurre la prima alla seconda). Così come la determinazione di Adorno in quanto filosofo del non concettuale è in se stessa ineccepibile, allo stesso modo è del tutto corretto affermare che la critica dell’idealismo costituisce l’intenzione fondamentale del suo pensiero: vedremo anzi che la categoria di idealismo consente meglio di ogni altra di identificare il suo oggetto polemico, che cioè l’opposizione idealismo/materialismo è la chiave più adeguata per accedere al senso reale di ciò che egli cercava. Che questo non rappresenti un’obiezione a quanto stiamo provando a dimostrare – la centralità dell’opposizione tra pensiero dialettico e non dialettico – è appunto il contenuto della filosofia di Adorno: la

72 TS, p. 35. 73 Ibid.

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questione della priorità dell’una o dell’altra dicotomia, un tema ricorrente nel dibattito marxista a partire almeno da Korsch74, è invalidata dalla dialettica negativa. Se si volesse riassumere la sua acquisizione decisiva in una sola proposizione, potrebbe essere questa: la dialettica è il materialismo e viceversa; entrambi convergono fino a sovrapporsi nella questione della non identità. Ma proprio perciò, anche il problema dell’idealismo in quanto tale non si lascia liquidare con tanta immediatezza; e pare che Adorno, precisamente come critico dell’idealismo, voglia mettere in guardia anzitutto da questo pericolo. La dialettica è riflessione della riflessione, “sorella nemica di questa come […], già in Kant, la ragione nei confronti dell’intelletto”75; per lo stesso motivo, il materialismo non può giungere a se stesso se non come idealismo riflesso. E, viceversa, l’idealismo sviluppato all’estremo si rovescia nel suo contrario: “Hegel si avvicina tanto più al materialismo sociale quanto più radicalizza l’idealismo, anche sul piano teoretico; quanto più insiste, contro Kant, a conoscere gli oggetti dall’interno”76.

In questo movimento potrebbe consistere qualcosa davanti a cui il pensiero volge tuttora lo sguardo, il tesoro nascosto che da due secoli viene sempre di nuovo scoperto e

74 Nell’“anticritica” a Marxismo e filosofia (la risposta, pubblicata nel 1930, alle obiezioni ricevute da

parte sovietica), Korsch si difende dall’accusa di idealismo polemizzando con l’opinione, presupposta da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo e fatta propria dalla dottrina ufficiale del Comintern, “per cui il materialismo dialettico non dovrebbe più opporre la dialettica al materialismo volgare, predialettico e oggi in parte coscientemente adialettico e antidialettico delle scienze borghesi, ma dovrebbe invece contrapporre il materialismo alle crescenti tendenze idealistiche della filosofia borghese” (K. Korsch,

Marxismo e filosofia, Milano, Pgreco edizioni, 2012, p. 27). Secondo Korsch il materialismo, a differenza

della dialettica, è un’arma spuntata nella battaglia contro l’ideologia, dal momento che “si deve considerare tendenza fondamentale della filosofia borghese non quella che si ispira a una concezione

Nel documento Adorno e l'idea di un'ultima filosofia (pagine 55-182)

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