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Dialogo con Álvaro Mutis

Martha L. Canfield

Università degli Studi di Firenze (<martha.canfield@unifi.it>)

Più volte, nei suoi numerosi soggiorni fiorentini, in conversazioni spesso registrate, Álvaro Mutis ha affrontato tematiche riguardanti la sua opera e la letteratura in generale. Il ricchissimo materiale – circa 22 ore di nastri – è rimasto per lo più inedito. Come studiosa e amica dell’Autore ho continuato ad attingere a quella preziosa fonte, senza modificarne il caratteristico linguaggio colloquiale. 1. L’iniziazione poetica

M.C. Dalla tua poesia emerge un personaggio che in seguito sarà il protago- nista di una saga narrativa: Maqroll il Gabbiere. Molti critici l’hanno considerato il tuo alter ego, ma tu non lo ritieni così.

A.M. Come ricordi, nella nostra prima conversazione a Vienna, nell’ot- tobre del ’94, abbiamo stabilito che non è esattamente così: abbiamo chiarito che io e Maqroll siamo due persone e due soggetti poetici diversi, io ne sono diventato consapevole − anche grazie a te − e questo è stato molto importante per me. Una volta ero solito spiegare che Maqroll il Gabbiere nasce prima nella mia poesia, precisamente nel terzo componimento che ho pubblicato (dovendo ancora vincere il mio pudore ma ormai con una certa serenità) e che ho intitolato Preghiera di Maqroll il Gabbiere. Ero solito dire che egli nasce come un alter ego nella mia poesia e che dopo nei romanzi acquista una sua dimensione, una presenza fisica, in realtà diversa da quella che aveva nella poesia. Ma questo non è vero. Era una mia semplificazione.

Per una ragione comprensibile ma che allora mi sfuggiva, nelle letture pub- bliche delle mie poesie generalmente evitavo certi testi, tra cui la “Preghiera”. Ebbene, non molto tempo fa, in una presentazione ho letto la “Preghiera” per la prima volta in pubblico, e mentre leggevo mi dicevo interiormente: “Ma che cosa credevo? Questi non è affatto un alter ego, è già Maqroll, completo, vivo, tale quale compare nei romanzi”. E modificando l’ordine della lettura, scelsi di andare avanti con una vecchia poesia in prosa, “Fastidio dei pesci”, e mentre la leggevo pensavo che lì è presente la descrizione precisa del Tramp Steamer: ossia che in un testo del ’46 o del ’47 è presente la nave protagonista di un romanzo dell’88!

Quindi sei arrivato alla conclusione che il processo era stato diverso?

Certo. Ho capito che i personaggi, e concretamente Maqroll il Gabbiere, non possono subire un processo come quello che proponevo ogni volta che

ISSN 1824-484X (online) http://www.fupress.com/bsfm-lea

mi facevano la famosa domanda. Non è possibile che un personaggio si trovi prima nella poesia come un alter ego e dopo passi alla narrativa come un per- sonaggio indipendente. Non può essere così, non sarebbe logico. E più tardi, spinto da questa scoperta, mi sono messo a rileggere Rassegna degli ospedali di

oltremare, breve raccolta dove parla unicamente Maqroll, e ho capito che lui è

sempre stato il solito, nella poesia e dopo nei romanzi. L’unica differenza è che nello sviluppo narrativo il personaggio ha maggiori possibilità di esprimersi e di raccontarsi, di spiegare con lusso di particolari le proprie ossessioni, la sua visione del mondo, il suo modo di rapportarsi con le persone, insomma – e chiedo scusa per la parola alquanto pedante – la sua filosofia.

Tu credi che nella poesia avesse meno spazio per dilungarsi nella comunica- zione della sua filosofia?

Voglio dire che nella poesia, soltanto apparentemente, gli era mancata la stessa opportunità. Se tu rileggi la “Preghiera di Maqroll il Gabbiere” vedrai che lì è presente in pieno lo stesso personaggio dei romanzi.

Quindi tu confermi che la voce di Maqroll, che compare fin dall’inizio nella tua poesia, rimanda a un personaggio completo, nato fin dall’inizio come sarà in seguito, e che la sua voce non è uguale a quella tua, non riflette la tua identità. Lui si esprime con un’altra voce, presente anch’essa fin dall’inizio, ma che con il tempo si concentra nella poesia lasciando lo spazio della narrativa ad uso esclusivo di Maqroll.

Confermo. Arrivare a questa conclusione è stato per me stesso molto illuminante e chiarificante.

Parlami della tua iniziazione poetica, di come hai scoperto il tuo bisogno di ricorrere alla parola come strumento di indagine di te stesso e del mondo. Per esempio, da altre interviste sappiamo che già da ragazzino, nell’hacienda di Coello, tu usavi allontanarti dalla casa, qualche volta per fare il bagno nel fiume con tuo fratello e altre volte per leggere. Che libri leggevi da bambino?

Era un misto piuttosto caotico di libri che aveva mia madre, che aveva ricevuto un’educazione francese, aveva studiato nel Sacre Cœur, e leggeva Henri Bordeaux, Paul Bourget, Colette, e libri di storia. Ma non ricordo bene se erano libri che appartenevano alla biblioteca di mio padre o libri di amici della mamma, che li lasciavano da lei. In ogni caso io cominciai ad affezionarmi molto alle biografie. Questa era una linea di lettura; e un’altra, parallela, era l’opera di uno scrittore che per me è stato fondamentale, Jules Verne. In particolare libri che ancora considero pietre miliari dell’Ottocento, romanzi fatti molto bene, come L’isola misteriosa, I figli del Capitano Grant,

Cinque settimane in pallone, che ho riletto recentemente e sono rimasto ancora

meravigliato dalla solidità delle sue strutture narrative, che non hanno niente a che fare con libri per bambini, nel senso convenzionale con cui si usa questa espressione. Leggevo anche Emilio Salgari, moltissimo, tanti libri di viaggio,

I viaggi del Capitano James Cook, e altri libri francesi, ad esempio un autore

che si chiamava Maryart, forse americano. Ma man mano che sono andato avanti con le mie letture che, voglio chiarire, facevo su una grande terrazza, dove si lasciava seccare il caffè, confinante con un orto molto bello di aranci, caffè e zapote (un albero che si trova in Colombia, splendido, che produce un frutto con la forma di un piccolo ombrello), e in fondo c’era il fiume… Il fiume non si vedeva, non si vede nemmeno ora da quello che è rimasto della vecchia terrazza, un rudere ormai, ma il rumore dei due fiumi… il Cocora e il Coello... Sai? Quel rumore dell’acqua è presente in tutta la mia poesia e la mia prosa...

In effetti. È costante. Ricorrente. Sotto diverse forme.

Sì, perché è stato presente anche nella mia vita. Io venivo da un paese di canali, che è il Belgio, e da lì sono arrivato in Colombia, nell’hacienda dei nonni, dove ho ritrovato l’acqua, anche se un altro tipo di acqua, non serena, dove si riflettono gli alberi e tutto il paesaggio, come avviene in Belgio, bensì l’acqua turbolenta che scende dalla cordigliera, coronata di schiuma e con un fragore imponente. Questo mi ha segnato così profondamente che ti posso dire che quando io sogno l’acqua, so che tutto va bene, molto bene dentro di me. Perché spesso sogno cose angosciose e molto conflittuali e una volta uno psicologo mi disse che quel tipo di sogno è dovuto al carico d’immagi- nazione e all’impegno della creazione che tu ti porti dentro, che è una sorta di ebollizione. A me questa spiegazione sembra valida. Ma quando io sogno l’acqua, o che sto facendo il bagno, o che metto la mano dentro l’acqua, o cose così, questo per me significa la serenità. Allora le letture per me erano legate a tutto questo. Ed erano davvero molto caotiche.

Leggevi libri di poesia?

No.

Quando hai incominciato a leggere libri di poesia? Quando hai sentito che si definiva in te il gusto per la lettura poetica e quali poeti hai conosciuto per primi?

Ho cominciato presto. Ricorda che la poesia in Europa te la fanno stu- diare già nella scuola media. E ricordo bene come iniziò per me. Un giorno, stavo leggendo “Toi et moi” di Paul Geraldy, un libro assolutamente kitsch e sentimentale, ma che a mia madre, nella sua civetteria, piaceva, e a un tratto pensai: “Ma questo non è poesia, questo è soltanto una serie di confessioni personali, una manipolazione di argomenti sentimentali”. Così andai in bi- blioteca e presi un libro di poesie di Lamartine. Rimasi stupefatto. Oggi so benissimo tutto quello che d’insopportabile c’è in Lamartine, ma sfido un bravo lettore di poesia a fare questa prova: che dimentichi ciò di cui parla e provi a sentire la musica di quelle poesie, per esempio di quella sul Libano, o “Il lago”, o “La caduta di un angelo”… insomma tante, direi tutte… Allora,

a partire da lì, cominciai a leggere tutta la poesia che mi capitava fra le mani. Ma chi mi ha veramente iniziato al culto dei versi – e questo l’ho detto in tutte le maniere – è stato Eduardo Carranza1.

Tu sei stato un suo allievo, se ricordo bene, vero?

Sì, certo. Faceva delle lezioni caotiche e meravigliose, che comunicavano un vero fervore per la poesia. Era una sorta di febbre quello che lui produceva in noi. Cominciò con il leggere Antonio Machado a lezione, o meglio a recitarlo, perché lo sapeva tutto o quasi a memoria, e tu sai che Machado è – lo diventò subito e lo è tuttora – il mio poeta del cuore. In seguito un amico mi prestò

Veinte poemas de amor y una canción desesperada, dove io ancora trovo due o

tre cose meravigliose. Ce n’è una, ad esempio, non mi ricordo il numero, che dice “como pañuelos blancos de adiós viajan las nubes / y el viento las sacude con sus viajeras manos”2 ed è un componimento bellissimo… Così anche

la “Canción desesperada”. Tutto questo mi segnò profondamente e tornai a leggere poesia francese: Rimbaud, Baudelaire, Nerval…

Nella tua opera sono presenti anche certi poeti surrealisti, direi “minori”, che citi spesso.

Il mio incontro con i surrealisti è tale e quale lo racconto in un’intervista già pubblicata: un giorno apparve sulla Rivista dell’Università di Antioquia un’antologia della poesia surrealista tradotta da Carrera Andrade, il poeta ecuadoriano. Includeva una poesia di Michaux e un’altra di Robert Desnos, che mi sembrarono formidabili, e da allora mi sono votato alla poesia surre- alista, certamente rifiutando immediatamente Eluard e Aragon, non perché non consideri il loro valore, che senz’altro hanno, ma non li sentivo affini, come invece sentivo Michaux, innanzi tutto, e Robert Desnos, e più tardi, quando l’ho scoperto, anche René Crevel, morto suicida molto giovane. Lì si era creato subito una sorta di vaso comunicante e di una comunicazione molto intensa.

E la prima poesia, quando l’hai scritta?

La prima poesia la conserva Santiago, mio figlio, e l’ha pubblicata nel volume di Colcultura. Come l’ho scritta l’ho raccontato un sacco di volte, ma lo ripeto volentieri. Io lavoravo alla Radio Nazionale come annunciatore e allora l’ultimo giornale radio era alle undici e mezzo di sera, di modo che dalle sette fino alle undici e mezzo avevo tempo per elaborare le nuove notizie che erano proprio poche a quell’ora, sentivo la radio francese per controllare che quanto inviato dalla Associated Press fosse corretto e ascoltavo musica che, come sai, è sempre stato il mio mondo… Ma di quello parleremo dopo. Insomma, una sera, in quelle ore di attesa, misi la Quinta Sinfonia di Sibelius. Nel terzo movimento sentii che mi piombavano addosso una serie di imma- gini, e mi uscivano così, come sprigionate dal torace. Venivano fuori in parte

confuse, annebbiate, in parte molto precise, soprattutto quelle di Coello, di Bruxelles, delle mie prime esperienze erotiche a Coello con le raccoglitrici di caffè; e tutto quanto mescolato, e il senso del destino… insomma, dovetti sedermi a scrivere. E quello che veniva fuori era in prosa… Questo è molto curioso, sai, perché la verità è che non ho mai pensato di scrivere poesia, ma era una sorta di flusso, qualcosa che oggi direi che non ha una vera forma, ma c’erano due o tre immagini che dopo usai per certe poesie.

Ma tu quel testo lì inaugurale, non l’hai mai raccolto in un libro, vero?

Io no. L’ha voluto pubblicare Santiago nel volume Poesía y prosa di Col- cultura3, come un frammento, lo trovi lì, se hai quel libro, sai con la copertina

colore viola e bianco, uscito più di vent’anni fa nella collana del Ministero di Cultura che dirigeva Juan Gustavo Cobo Borda. Il libro faceva una sorta di bilancio della mia opera fino a quel momento, raccoglieva tutta la mia poesia, tutta la prosa, perfino certe note che avevo scritto su pittori, e molte altre cose che dopo non sono state pubblicate. Quella poesia, o quella prima pagina, non so come chiamarla, ma non voglio usare la parola “testo” che aborro, dopo che l’ho scritta, alla radio, l’ho letta e mi dissi “questo non vale nulla”, e la buttai nella spazzatura.

Ma il giorno dopo sei tornato a riprenderla?

Quella notte sono andato a letto ma il flusso interno continuava, sicché il giorno dopo mi sono alzato molto presto, perché il primo giornale radio lo trasmettevo alle nove, ma io volevo arrivare prima degli incaricati della pulizia. Per fortuna il pezzo di carta, appallottolato ma intero, era lì. Rileggendolo, ho pensato “Questo bisogna lavorarlo, ma qui c’è poesia. Così come è non va bene, ma c’è materia prima”. E così ho incominciato.

Quanti anni avevi in quel momento?

Avevo di già vent’anni. Certamente da ragazzo avevo cercato di scrivere altre canzoni di Bilitis4 e cose del genere, ma erano molto artificiali e mi rendevo

conto che non funzionavano. A parte il fatto che di mio lì non c’era nulla. Qui invece, per la prima volta, riconoscevo qualcosa di mio. La seconda cosa che ho scritto è stata “La creciente”, circa un anno dopo5.

Tornando al tuo primo scritto (non lo chiamiamo “testo”), conteneva un’im- magine che dopo tu hai citato altre volte: “Un dios olvidado mira crecer la hierba” (Un dio dimenticato guarda crescere l’erba).

Quell’immagine la recuperai dopo per un’altra poesia. Non mi doman- dare quale perché non me lo ricordo. Ora voglio sottolineare questo: mai e poi mai in quei primi lavori io ho pensato – e credo che chiarire questo sia importante per il futuro – che stavo scrivendo poesia o che sarei stato un poeta, no. Non ero affatto cosciente... come dire, era qualcosa di inconteni-

bile... E in fondo era forte il desiderio di non lasciar sfumare la mia infanzia, i ricordi del Belgio, anche della Francia, di Parigi, di Coello, non volevo che scomparissero. Quello mi faceva paura, perché quel bambino, quel ragazzo ero io, sono io. E mi angoscia moltissimo osservare qualcosa che è molto comune negli adulti, ed è il fatto che ammazzano il bambino che sono stati, e vivono da “adulti”. Noi adulti siamo degli imbecilli. Il bambino è un illuminato, un personaggio vero. Basta ascoltare due minuti un bimbo per capire che quello è una sorta di parabola gigantesca, che riceve una quantità enorme di stimoli e informazioni che noi adulti non siamo più in grado di percepire, e quello che è peggio ne facciamo stupidamente a meno, ed è per quello che siamo così sventurati. Io volevo salvare tutto quello. Certo questo è un ragionamento che ho fatto dopo. Allora non credo di essere stato così consapevole. Comunque la prima cosa che scrivo coscientemente è “La corrente”.

Tu vuoi dire “La creciente”, no?

Sì, certo, “La creciente” – che lapsus! –, che ormai è uno scritto consape- vole e sorvegliato. Subito dopo lo portai da Jorge Zalamea perché lo pubbli- casse... beh, aspetta, la memoria mi fa degli scherzi… No, a Zalamea portai la

“Oración de Maqroll”6. “La creciente” venne pubblicata sulla rivista Vida, che

io stesso dirigevo per conto della Compagnia Colombiana di Assicurazioni. La portai a Rafael Guizado, il mio capo ufficio, uno scrittore e drammaturgo molto bravo, oltre che una persona molto affidabile – è stato anche direttore della Radio Nazionale di Bogotà, ormai purtroppo deceduto – e lui mi disse subito che andava pubblicata. Mi disse che era molto bella. E così, mi pare, ti ho detto tutto su Coello.

2. Le prime pubblicazioni

Credi che ci sia qualcosa che lega tematicamente la “tierra caliente” alla tua poesia? A parte il fatto che vuoi far perdurare quel mondo nella tua letteratura, esiste un legame che rimanda a un concetto, a un simbolo, a una visione del mondo che possa averti ispirato il tropico?

Quello che mi ha sempre attirato della “tierra caliente” è la lenta di- struzione di tutto, degli alberi, delle persone. Perfino le persone invecchiano velocemente per via del paludismo, e la bellezza delle donne dura poco, pochissimi anni. Anche se si tratta di quelle donne splendide che sono le tolimensi!7 Questo è presente in una delle mie prime poesie: “El miedo” (La

paura). È la paura di sapere che quello che vedi può a un tratto scomparire, una paura affascinante, una paura-piacere.

Forse è questa la sensazione predominante nella tua poesia, vero?

Sì, esattamente. È un immergersi e dopo uscirne rapidamente. Questo è presente nelle prime poesie, “Una palabra” e “El miedo”…

Che hai raccolto nel tuo primo libro, La Balanza, condiviso con il tuo amico Carlos Patiño, sei poesie di ognuno e tre disegni di Hernando Tejada.

Tu ce l’hai?

No, purtroppo. Quel libro non si trova più.

È andato bruciato durante il “bogotazo”8. Io ho una sola copia con la

dedica per Alejandro Obregón: lui me l’ha voluta restituire quando ha saputo che non ne avevo più.

Allora mi manderai una fotocopia di quell’esemplare?9 Nella poesia “Una

palabra” (Una parola), che hai ricordato, trovo che tu faccia riferimento all’i-

niziazione poetica. Quando dici “nel mezzo della vita giunge una parola mai pronunciata prima” ti riferisci alla scoperta della parola poetica, alla magia dell’iniziazione poetica, mi sembra. È così?

Sì, ora la vedo così, in effetti.

Nello stesso tempo la magia dell’iniziazione poetica è associata alla magia dell’iniziazione erotica. È associata alla donna, vero?

Sì, certamente.

E non solo: mi sembra che alla fine ci sia una sovrapposizione della vita, quando dici “E se una donna attende con le sue bianche e dense cosce aperte [...] allora la poesia raggiunge la sua fine, non ha più senso il suo monotono canto”…

Giusto. La poesia a quel punto è inutile. E dopo tutto questo sarà ancora più chiaro ne “Los trabajos perdidos”, dove c’è un’ars poetica più definita, più concreta.

Nella poesia “Los trabajos perdidos”, che annuncia la raccolta omonima che pub- blicherai diversi anni dopo, la tua poetica si rivela associata allo sconcerto e alla paura che prova l’uomo semplicemente per il fatto di esistere, ma suggerisce anche che la poesia è sempre e comunque presente, anche se il poeta non la pronuncia. E mi domando se la paura non sia un sentimento che definisce tanto te quanto il tuo costante personaggio Maqroll.

Ma, certo. È la paura di esistere, perché vivere vuol dire consumarsi, esaurirsi, con tutto che ti precipita addosso…

Allora ti domando: quella paura non è anche legata alla tentazione di decifrare tutto? Nel mondo in cui viviamo ci sono molte cose che potrebbero sembrare, se guardate superficialmente, legate solo dal caso. Ma guardando più in profondità, “il caso non c’è”, come hai detto tu un’altra volta. Tuttavia quel senso totale non sempre si rivela. Allora mi chiedo se quella mancanza di senso non genera sconforto, e la sconfitta nel cercarlo un pesante sentimento d’impotenza.

Certo. Perfetto. L’hai visto molto bene. E quella ricerca progressiva e il fat- to di non trovare una risposta razionale, ordinata, ti provoca l’ansia, l’angoscia di esistere. Non è necessario avere letto gli esistenzialisti per provare questo.

Nello stesso tempo, forse, è proprio da questi sentimenti che nasce per te la poesia, la creazione letteraria senza riferimento a generi specifici.

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