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COMMISSIONE PARLAMENTARE

ANTIMA-FIA, Mafia e politica, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 172, Lit 5.000.

Uno dei pochi motivi di conforto in questo periodo difficile per la Repubblica è che accidentalmente si sono create condizioni felicissime per la lotta alla mafia. Da una parte la de-mocrazia pur traballando resiste, dall'altra c'è una tale incertezza che nessun partito o uomo politico è in grado di far promesse credibili ai ma-fiosi perché nessuno sa chi sarà a go-vernare il paese. Non solo la mafia non si è mai trovata così a mal partito (i capimafia in galera, 3.500 miliardi di beni sequestrati e la fila dei pentiti che ingrossa), ma non trova nuovi contraenti politici. Paradossalmente, se l'incertezza dura ancora sei mesi la grande determinazione delle forze dell'ordine potrebbe finalmente ridur-re la mafia ai minimi termini. Per la prima volta, toccando ferro, è una prospettiva plausibile, a dispetto di bombe e colpi di coda. Ma se non ci interroghiamo a fondo sulle origini del rapporto tra mafia e politica, sarà difficile non ricascarci.

La relazione della Commissione parlamentare antimafia, di cui parlia-mo in dettaglio nel riquadro, ha il me-rito, tra gli altri, di tener mafia e poli-tica ben distinte. Mentre coloro che, soprattutto a sinistra, han fatto confu-sione fra queste entità per quarantan-ni ora fan finta di nulla, emerge al di là di ogni dubbio che si tratta di due "professioni" diverse, ciascuna con i suoi fini e i suoi vincoli. Per capire i tratti salienti della mafia non occorre addentrarsi nel ventre del regime de-mocristiano. La mafia è tenacemente sopravvissuta alla destra e alla sinistra storica, a Crispi, a Giolitti, al fasci-smo, agli alleati, ai democristiani e ai socialisti. Si è dimostrata compatibile con ben più di un partito politico, si-stema elettorale o situazione interna-zionale. Benché alcuni uomini politici siano persino diventati "membri fatti" della mafia, dedurre da ciò un'identità equivarrebbe a pensare che, poiché diversi politici inglesi sono membri del College dove hanno studiato, in Gran Bretagna università e politica siano la stessa cosa. La confusione — a cui Giovanni Falcone si oppose spesso — ha gravemente menomato la comprensione del fenomeno. Christopher Duggan, ad esempio, in La mafia durante il fascismo (Rubbettino, 1987), sostenne che "mafia" non è un'organizzazione, ma un concetto nebuloso con cui le fazio-ni politiche si insultano a vicenda. Questa tesi offrì lo spunto per il fami-gerato articolo del "Corriere della Sera" in cui Sciascia accusò Borsellino e Orlando di essere "professionisti dell'antimafia" (si veda "L'Indice", giugno 1987). Eppure, a dispetto dell'infondatezza delle conclusioni, Duggan dimostrò come da almeno cent'anni l'accusa di mafiosità funga da arma impropria nella lotta politica. Il concitato volume di Galasso (La mafia politica, Baldini & Castoldi, 1993) è un esempio del perdurare di questa partigianeria secondo cui "ma-fia" sono coloro che dissentono dalle nostre posizioni. Persino Bossi si è adeguato prendendo gli avversari a colpi di "mafioso" nelle recenti elezio-ni locali.

È però fuor di dubbio, e la relazio-ne è chiara in proposito, che per tutto il dopoguerra i partiti di governo sono stati legati da un "contratto" alla ma-fia ricevendo consenso in cambio di impunità. La preoccupante domanda che la relazione implicitamente solleva — e a cui fornisce frammenti di rispo-sta molto interessanti — riguarda le circostanze e il decorso storico di que-sta alleanza, finita presumibilmente

con l'omicidio di Salvo Lima nel mar-zo 1992. Cruciale è capire quanto le ragioni di questa men che santa al-leanza — che vengono talora frettolo-samente imputate solo alla disonestà dei politici — siano legate a circostan-ze storiche non ripetibili e di cui non occorre quindi preoccuparsi. Si è par-lato ad esempio dell'utilizzo in chiave anticomunista dei mafiosi. E vero che dopo la guerra la mafia ha agito come elemento d'ordine contro il banditi-smo ed è servita ai latifondisti per

li-berarsi dei sindacalisti che ne minac-ciavano il potere. È vero anche che il rischio, in parte strumentale, posto dal movimento separatista imponeva cautela. Un intervento repressivo era un'opzione poco allettante comunque in un periodo di turbolenza sociale e indigenza economica, che per giunta avrebbe dato forza sia all'opposizione di sinistra sia al separatismo.

Esistevano dunque reali alternative allo scendere a patti con la mafia? Non va dimenticato che nel 1945 la De in Sicilia era priva di legittimità politica e di voti, e che la mafia era la forza che, persino più della Chiesa, poteva fornire questa merce preziosa: piaccia o non piaccia, i mafiosi hanno, almeno fino a un passato recente, su-scitato moti di orrore ma anche larghi consensi in Sicilia. Il problema è che in una certa misura il rapporto mafia e politica dipende dalle strategie possi-bili per ottenere il consenso in un re-gime democratico. Benché la vanaglo-ria ci spinga a pensare che la mafia sia un problema solo italiano, in realtà sia in Giappone sia in India —- paesi

an-ch'essi a democrazia acerba — si ri-scontrano fenomeni identici di rela-zioni extralegali tra potere politico e yakuza o goons, corrispettivi locali dei mafiosi. Se il consenso è il diavolo a fornirlo, in ogni democrazia vi saran-no uomini politici tentati di scendere a patti con esso.

Bastano quindi sete di consenso e vincoli storici a spiegare perché la De si sia piegata a questa soluzione acco-modante che ha corroso la forza e la dignità dello stato? Va ricordato un

aspetto ideologico che ha fornito al "contratto" tra mafia e politica una razionalizzazione conveniente e ha permesso alla De di "sottovalutare", come ha ammesso Andreotti stesso, il pericolo mafioso. Si tratta di un punto di vista che considera lo stato privo di un diritto speciale di rivendicare il monopolio della legge. Le grandi isti-tuzioni ecclesiastiche, industriali, sin-dacali, ma anche le organizzazioni ri-voluzionarie e criminali, sarebbero, al-la pari dello stato, degli "ordinamenti giuridici". Per quanto è possibile ca-pire una posizione fumosa prima an-cora che pericolosa, ciò significa che in ciascun ordinamento vigono norme che vincolano coloro che vi si ricono-scono in modo in nulla diverso dalle leggi dello stato, e che se queste con-trastano con quelle non vi è modo, al di fuori della forza o del compromes-so, di decidere quali vadan fatte vale-re. Ciò che per lo stato è un omicidio, per fare un esempio estremo, per un ordinamento giuridico diverso è un'esecuzione e nessuno può stabilire in astratto chi abbia ragione. Questa

posizione relativista è presente nella combinazione di cinismo e cattolicesi-mo, quintessenza della pratica politica italiana, secondo cui l'unico "bene pubblico" possibile risulta da un infa-ticabile processo di mediazione tra i molteplici interessi organizzati presen-ti nella società, processo in cui ciascu-na parte, mafia inclusa, persegue ine-vitabilmente e alla pari con gli altri, i propri fini. Caro al clero, ma diffuso anche tra burocrati, magistrati e gran-di industriali, questo punto gran-di vista —

sistematizzato dal giurista siciliano Santi Romano — ancora aleggia nel nostro paese, certo non accelerandone 10 sviluppo democratico. In un conte-sto del genere, è dunque così implau-sibile che Andreotti abbia incontrato e addirittura baciato i capi mafia? "È possibile — si è chiesto Pino Arlacchi insieme a milioni di italiani ("la Repubblica", 27 aprile) — che un esponente di governo noto per la sua accortezza ed astuzia fino a diventare 11 simbolo stesso del machiavellismo politico italiano abbia commesso l'im-mensa sciocchezza di rendere visita al capo della mafia latitante?" Arlacchi ha risposto affermativamente su base induttiva, dimostrando come le rela-zioni tra mafia e politica non apparte-nessero a una zona immateriale dell'universo: son fatti di relazioni tra singoli mafiosi e singoli uomini politi-ci, basate su cene, matrimoni, proces-sioni, comparaggio, frequenza dei me-desimi club, scambi di doni e auguri natalizi, tutti documentati nelle fonti giudiziarie. Ma si può giungere alla stessa conclusione per via deduttiva,

La relazione

La relazione della Commissione parlamentare antimafia è un documento importante, oltre che per ciò che dice, per chi lo ha scritto. In passato, l'apporto della Commissione è stato non privo di ambiguità, come ha sostenuto recentemente Salvatore Lupo in Storia della mafia (Donzelli,

1993). Le informazioni raccolte dalla Commissione a partire dal 1963 sono state par-zialmente pubblicate in un totale di 55 volumi. Se si confronta una messe così vasta e interessan-te di mainteressan-teriale con la qualità delle relazioni che lo accompagnano, non si riesce a capire come i commissari siano riusciti a ricavare risultati così poveri e confusi. Si ha l'impressione che questo istituto — di cui pur hanno fatto parte persone come Cesare Terranova — sia servito come una palestra in cui le forze di governo permettevano all'opposizione di sinistra di menare pugni anti-mafia, purché rigorosamente nel vuoto. La deter-minazione con cui invece questa Commissione, in larga misura, grazie al suo nuovo presidente, Luciano Violante, ha operato, è non meno benve-nuta per essere stata così a lungo attesa.

La relazione è un documento non sistematico diviso in 8 parti per un totale di 77 brevi paragra-f i . Vi si trovano raccolte, con stile chiaro e conci-so, raro in un documento istituzionale, una gran quantità di informazioni in parte desunte dai col-loqui che la Commissione stessa ha avuto con i mafiosi che collaborano con la giustizia. La lettu-ra è agghiacciante e avvincente al tempo stesso: politici, magistrati, inquirenti, amministratori collusi con la mafia vengono elencati senza rispar-miare nessuno. Particolarmente e f f i c a c e è la parte dedicata ai legami tra mafiosi e massoni di cui si sa poco: pur continuando a sottolineare l'autono-mia decisionale di Cosa Nostra, si descrive la pe-culiare struttura delle logge in Sicilia e si narra di come, verso la fine degli anni settanta, una mezza dozzina di mafiosi importanti furono invitati a entrare nella massoneria. Molto interessante è

anche la sintesi degli eventi che, dal 1943 al 1950, produssero quei vincoli e quegli incentivi alla base di quella "coabitazione" tra mafia e po-litica che ha dominato la storia dell'Italia repub-blicana (vedi articolo in questa pagina). I cicli della "coabitazione" vanno da un normale stato di cose basato sullo sfruttamento reciproco a un minimo di non belligeranza passando per un li-mitato numero di fasi di conflitto segnate dai grandi omicidi di mafia, fasi che si chiudono sem-pre rapidamente con una nuova negoziazione del contratto di "coabitazione".

Sebbene vi sia finalmente chiarezza sulla natu-ra non ideologica ma "utilitaristica" dell'agire mafioso, non mancano nell'analisi della Commissione diversi luoghi comuni che studi re-centi, di cui si sarebbe potuto tenere conto, hanno demolito: ad esempio, si legge che Cosa Nostra sarebbe passata prima da "mafia del latifondo" a "mafia dei suoli urbani", per occuparsi poi di stu-pefacenti a partire dagli anni settanta. In realtà, la mafia è presente nelle città dall'Ottocento, pro-tegge il mercato degli stupefacenti da almeno ses-santanni, e, ancora oggi, è radicata nei paesoni di campagna della Sicilia occidentale. I problemi de-rivano in parte dal fatto che nella relazione si confondono i mercati protetti con l'industria del-la protezione. Si giunge, ad esempio, aldel-la conclu-sione che "la quota maggioritaria" dei profitti del mercato dei narcotici in Italia se lo intaschi Cosa Nostra, che sarebbe come conteggiare nei profitti dei Lloyds i profitti delle compagnie di navigazio-ne assicurate dai Lloyds. Non mancano infinavigazio-ne in-genuità e deduzioni stravaganti: ad esempio, dal fatto che sul mercato della droga "le decisioni

de-vono essere rapide" si deduce "l'intensificarsi del ricorso all'omicidio come mezzo per risolvere i contrasti". Nonostante le difficoltà, non si potrà comunque sottolineare mai abbastanza l'impor-tanza di questo documento.

(d. g.)

tenendo conto sia dell'importanza per la De del "contratto" con la mafia sia dell'ideologia di questo partito.

E le fonti confermano. Il pentito Francesco Marino Mannoia dice di aver visto Andreotti scendere da un'auto nera con i vetri scuri ed entra-re in una modesta villetta. Mannoia, che faceva da guardia del corpo di Bontade, rimase in giardino: "Sentii però chiaramente delle grida proveni-re dall'interno. Quando l'incontro eb-be fine Andreotti andò via con i cugi-ni Salvo... Dopo che andammo via an-che noi, lungo il tragitto Bontade rac-contò a me e Federico che Andreotti era venuto per avere dei chiarimenti sull'omicidio Mattarella. Il Bontade gli aveva risposto 'In Sicilia comandia-mo noi, e se non volete cancellare completamente la De dovete fare co-me diciamo noi. Altrico-menti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l'Italia meridionale'". Questo evento, che spetterà ai giudici stabilire se è av-venuto, mette bene in luce la natura contrattuale dei legami tra mafiosi e politici. Andreotti non va in Sicilia per farsi una partitina a carte con gli ami-ci, ma per ricucire un patto essenziale per il suo partito messo in crisi dall'omicidio Mattarella. Se ha rischia-to l'ha fatrischia-to per un motivo grave. Se poi prima della trattativa il rituale del posto oltre alla stretta di mano con-templa anche il bacio perché stupirsi? Vi saranno le basi per un accordo sul-la natura e i limiti delsul-la responsabilità politica tra le nuove forze politiche, un accordo che autodisciplini l'uso a fini elettorali e di potere di personaggi so-spetti, come chiede la relazione della Commissione antimafia? La verità è che non lo sappiamo ancora, ma, se c'è cascato Andreotti, sarà quantomai opportuno tenere gli occhi aperti. Il legame tra mafia e politica non finisce necessariamente con la fine della De.

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