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La disciplina ante riforma: il dovere di vigilare sul generale andamento della

Nel documento Gli amministratori deleganti nella S.p.A. (pagine 163-168)

Come anticipato sub § 1 del presente Capitolo, la seconda direttrice su cui è intervenuto il legislatore della riforma per modificare il regime di responsabilità solidale degli amministratori di S.p.A. è stata quella di eliminare il dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione sociale previsto ante riforma dall’art. 2392, 2° comma, che recitava: «in ogni caso gli amministratori sono

solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». La maggioranza degli

interpreti qualificava tale dovere come autonomo e gravante su tutti gli amministratori, a prescindere dalla presenza o meno di deleghe di attribuzioni al comitato esecutivo o a uno o più amministratori delegati (307). La presenza di

deleghe, secondo l’interpretazione maggioritaria ante riforma, non poteva

(306) In questo senso F. BONELLI, Gli amministratori di S.p.A. a dieci anni., (nt. (51)), 112; P.

MONTALENTI, Gli obblighi di vigilanza., (nt. (91)), 847; O. CAGNASSO, Brevi note., (nt. (53), 802; P. MONTALENTI, Società per azioni., (nt. (98)), 126 e 175; M. STELLA RICHTER JR., in

Osservatorio del dir. civ. e comm., 2012, 59 ss..

(307) Così, ex multis, O. CAGNASSO, Gli organi., (nt. (1)), 86; in giurisprudenza si v., ex multis,

Cass., 13 maggio 2010, n. 11643, in Mass. Foro It., 2010, la quale ha affermato che «l’art. 2392

c.c., impone a tutti gli amministratori un generale dovere di vigilanza sul complessivo andamento della gestione, che non viene meno – come si evince dall’espressione «in ogni caso» di cui al comma 2 – neppure nell’ipotesi di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori. Pertanto, il presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, chiamato a rispondere come coobbligato solidale per omissione di vigilanza, non può sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere con ampia autonomia da un dirigente della società medesima (sentenze 15/2/2005 n. 3032; 29/8/2003 n. 12696; 11/4/2001 n. 5443)».

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condurre a un esonero totale da responsabilità per gli amministratori deleganti che, infatti, continuavano a essere onerati, da un lato, del dovere di dare istruzioni al delegato su come eseguire quanto oggetto di delega, sostituire il delegato ovvero avocare a sé i poteri oggetto di delega, e, dall’altro, dell’onere di vigilare sul generale andamento della gestione messa in atto dai soggetti delegati. Da qui i rilievi di coloro i quali evidenziavano che non si trattava affatto di una ipotesi di responsabilità oggettiva bensì di una responsabilità per colpa e per fatto proprio derivante dall’omissione di un comportamento dovuto e prescritto dalla legge (308): il dato testuale contenuto nell’art. 2392 ante

riforma, infatti, non lasciava dubbi sulla sussistenza in capo a tutti gli

(308) Così C. DI NANNI, (nt. (70)), 154, il quale sosteneva che «all’amministratore fanno capo due diverse attività: compiere atti di amministrazione e di rappresentanza e gestire l’impresa. Nel primo compito opera a suo favore una riserva di legge, per cui del danno conseguente all’atto è sempre responsabile il titolare del potere e, in definitiva, ogni componente dell’organo per non averne impedito il compimento. In caso di amministrazione delegata non può esservi esonero totale, dal momento che con la delega si realizza soltanto una sostituzione del delegato nell’adempimento dell’obbligazione, che resta comunque a carico anche del delegante, che continua ad essere responsabile verso la società che lo ha nominato. La sostituzione, pur se autorizzata, fa permanere la responsabilità di chi si fa sostituire, obbligato a dare istruzioni al sostituto (art. 1717 c. 3° c.c.) ed a pretendere da costui il rendiconto, dovendo, a propria volta, risponderne alla società. La nomina del delegato, in conclusione, non fa venire meno il rischio per il delegante, nello stesso modo in cui egli è responsabile per i danni provocati da altri coadiutori o sostituti. Ben più delicata è la posizione dell’amministratore rispetto alla gestione dell’impresa, dal momento che quest’attività è riferibile a diversi soggetti, ciascuno con competenze proprie. Del danno prodotto da un atto di gestione, compiuto da uno di questi soggetti, quest’ultimo è certamente responsabile; ma, insieme con lui, risponde anche l’amministratore. E qui non occorre parlare di responsabilità oggettiva, dal momento che gli amministratori obbligati ad operare per la realizzazione dell’oggetto sociale e ad impedire qualsiasi atto ad esso contrario, sono in colpa quando non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o non hanno fatto quanto potevano per prevenire o attenuare le conseguenze dannose. Da questa norma si ricava, dunque, che quella dell’amministratore è responsabilità per colpa e che essa deriva dalla omissione di comportamenti dovuti: non avere vigilato, non avere compiuto atti postivi di intervento e non avere annotato e comunicato il proprio dissenso»; A.

BORGIOLI, L’amministrazione delegata, (nt. (1)), 262, il quale affermava che «in presenza di delega

vale, infatti, il principio secondo il quale solo i delegati rispondono in relazione alle attribuzioni loro affidate. Viene così ad interrompersi il nesso di solidarietà fra i vari amministratori e la delega opera come motivo di limitazione o comunque attenuazione della responsabilità. La responsabilità solidale vale solo per i delegati, in quanto (e nei limiti in cui) siano investiti di uguali funzioni delegate. Essa viene, invece, meno nei confronti dei non delegati, oppure anche degli altri delegati, in quanto investiti di funzioni diverse (per cui, in relazione alle funzioni che non sono state loro delegate, essi sono da equiparare agli altrui amministratori non delegati). Il principio della responsabilità solidale torna, invece, ad operare anche per i non delegati in relazione all’inadempimento di due tipi di obblighi sui quali ci dobbiamo ora soffermare: quello c.d. di vigilanza e quello c.d. di intervento»; G. MINERVINI, Gli amministratori., (nt. (7)), 426; F. DEVESCOVI, (nt. (1)), 83.

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amministratori, «in ogni caso», di un distinto e autonomo obbligo avente ad oggetto la vigilanza sul generale andamento della gestione, che la dottrina qualificava come una «vigilanza attiva» gravante su tutti gli amministratori (309).

Ciò era, d’altra parte, coerente con l’intenzione del legislatore di trovare un equilibrio tra l’esigenza di garantire la presenza in consiglio di soggetti in possesso di esperienza e professionalità tali da offrire un contributo rilevante al processo decisorio e, allo stesso tempo, di evitare che il regime di responsabilità previsto in capo agli amministratori deleganti consentisse loro di disinteressarsi della gestione sociale (310). E benché la vigilanza richiesta fosse

qualificata come «attiva», non si chiedeva agli amministratori deleganti un controllo analitico sul generale andamento della gestione, bensì un’attività sintetica e compatibile con la minore presenza in società di tali soggetti: da un lato, l’oggetto del controllo era circoscritto alla verifica della «coerenza delle scelte

strategiche imprenditoriali con gli scopi perseguiti dalla società (311); dall’altro, tale attività

(309) Così O. CAGNASSO, Gli organi., (nt. (1)), 87; R. WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo., (nt. (7)), 193; A. BORGIOLI, L’amministrazione delegata, (nt. (1)), 263, secondo il quale era necessario «non solo l’inadempimento dei delegati ai propri obblighi, ma anche quello dei non delegati al

dovere di vigilanza. Ed [era] pure necessario, secondo i principi, che fra l’uno e l’altro [sussistesse] un nesso di causalità, perché come [...] nel caso dei sindaci (art. 2407 c.c.), [era] incongruo che i non delegati [fossero] chiamati a rispondere quando, malgrado il diligente esercizio del potere di vigilanza, il danno si sarebbe ugualmente verificato»; P. PETTITI, in Amministrazione e amministratori di società per azioni, Giuffrè, Milano, 1995, 110 ss..

(310) Così P. ABBADESSA, (nt. (38)), 501. Nello stesso senso O. CAGNASSO, Gli organi., (nt.

(1)), 88; R. WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo., (nt. (7)), 195.

(311) Così R. WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo., (nt. (7)), 193, il quale tuttavia

precisava che «anche un singolo atto può essere fonte di responsabilità, quando esso sia di tale rilevanza da

influire sulle sorti dell’ente sociale: basta pensare alla vendita o alla costruzione di uno stabilimento, alla cessione o all’acquisto di un’importante partecipazione azionaria, e l’esemplificazione potrebbe continuare»;

O. CAGNASSO, Gli organi., (nt. (1)), 96, il quale chiariva che «gli amministratori debbono vigilare,

secondo una certa dottrina, affinché la gestione della società sia diretta al conseguimento di un utile mediante l’esercizio dell’attività economica che costituisce l’oggetto sociale»; C. DI NANNI, (nt. (70)), 65, il quale evidenziava che l’unità della gestione «garantisce la realizzazione dell’interesse sociale, che deve essere

considerato punto di riferimento di tutta la vita della società e limite all’operato di qualsiasi soggetto che assuma, di diritto o di fatto, decisioni in nome della società. Compito degli amministratori, dunque, non è solo quello di operare, ma anche di controllare con continuità le altrui iniziative; e quindi di vigilare affinché non vi siano lesioni dell’interesse sociale e che, conseguentemente, tutta la gestione sia indirizzata verso la sua realizzazione. In questo senso deve intendersi, perciò, la formula «generale andamento della gestione» sociale, usata dall’art. 2392 c.c.»; F. DEVESCOVI, (nt. (1)), 125, il quale affermava che può «dirsi

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e la responsabilità conseguente all’omissione della stessa dovevano trovare un limite nel principio ad impossibilia nemo tenetur, con conseguente esonero da responsabilità nei casi in cui tale controllo fosse stato del tutto impossibile (312).

Tuttavia, la presenza stessa di organi delegati alla gestione e il fatto che l’attività degli amministratori deleganti fosse limitata alla partecipazione alle più o meno frequenti riunioni del consiglio di amministrazione, riduceva notevolmente l’effettivo potere decisionale degli amministratori deleganti sulla gestione e la possibilità stessa che questi svolgessero una concreta vigilanza sul generale andamento della gestione (313). Ciò aveva reso agevole per la

soddisfatta l’esigenza di non addossare agli amministratori responsabilità esorbitanti dalle loro attribuzioni, quando si consideri che l’attività di vigilanza imposta dall’art. 2392, secondo comma, c.c. deve investire solo i profili salienti della gestione e quindi un’attività e non singoli atti; che la seconda parte della disposizione ha una sua propria portata in quanto richiede l’intervento solo nel caso di una conoscenza di singoli atti lesivi. Per cui, in questo ultimo caso, è obbligatorio l’intervento ma non è obbligatoria la conoscenza dei singoli atti».

Cfr. G. CABRAS, (nt. (248)), 29, il quale mette in relazione la responsabilità degli amministratori per omessa vigilanza già nel sistema ante riforma con la presenza di un’adeguata organizzazione della società: «non può approvarsi perciò quell’orientamento

giurisprudenziale, secondo cui gli amministratori sono responsabili per tutti gli inadempimenti dei dipendenti, cui siano state attribuite deleghe per specifiche funzioni; infatti, quando i dipendenti siano dotati della necessaria competenza nonché di autonomia decisionale per l’esercizio delle funzioni delegate, va esclusa la responsabilità degli amministratori: quel che importa – ai fini dell’adempimento all’obbligo di vigilanza e, quindi, ai fini dell’esonero della responsabilità – è che questi ultimi abbiano posto in essere nell’ambito della società una organizzazione adeguata, che assicuri il corretto svolgimento delle stesse funzioni da parte dei dipendenti».

(312) La dottrina ante riforma ammetteva, infatti, che «il dovere di vigilanza attiva trova evidentemente un limite nel principio generale nemo ad impossibilia tenetur e deve essere adempiuto con la diligenza del mandatario»: così O. CAGNASSO, Gli organi., (nt. (1)), 88. Si v. anche D. DE GIORGI, Nota a

App. Trento, 22 maggio 2001, in Società, 2002, 60.

(313) Così O. CAGNASSO, Gli organi., (nt. (1)), 87, il quale riconosceva che «indubbiamente l’effettivo potere decisionale degli amministratori non investiti della delega è spesso nella realtà societaria assai limitato, quando addirittura quasi nullo», per poi concludere che, tuttavia, «questa innegabile realtà non può, a mio avviso, condurre sino alla conclusione che non sussista un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione sociale anche a carico degli amministratori deleganti. Infatti pare in netto contrasto col sistema legislativo affermare che un gruppo di amministratori non sia soggetto a responsabilità». Si v.

anche V. DI CATALDO,(nt. (260)), 650, il quale rammenta che «l’articolazione soggettiva del

consiglio di amministrazione risponde, come è noto, ad una duplice motivazione, societaria ed aziendale. […] La motivazione aziendale (che è quella di cui qui occorre far conto) induce a combinare in consiglio persone aventi competenze professionali diverse, tutte ugualmente «utili» per la gestione dell’impresa. Accade quindi normalmente, come è a tutti noto, che il consiglio di amministrazione di una grande impresa sia formato in modo che ad uno o più managers direttamente competenti alla gestione (o, addirittura, ai vari aspetti della

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giurisprudenza ante riforma sanzionare la violazione del dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione da parte degli amministratori non direttamente responsabili delle condotte dannose, ossia da parte degli amministratori deleganti, quale escamotage per coinvolgere nella responsabilità tutti gli amministratori, delegati e deleganti, sulla base del ragionamento per cui «l’amministratore delegato ha compiuto un atto pregiudizievole, dunque il consiglio non ha

vigilato, e sono responsabili tutti gli amministratori, perché, se il consiglio avesse vigilato, avrebbe impedito il compimento dell’atto pregiudizievole» (314).

gestione) si affianchino, ad esempio, un esperto in relazioni industriali, un consulente, […] un giurista, […] a seconda delle esigenze della società e dell’impresa. Di fatto poi ciascuna decisione, ancorché formalmente riferibile (e giuridicamente imputabile) al consiglio nella sua interezza, sarà frutto di valutazioni e considerazioni realizzate non ugualmente da tutti i consiglieri, ma da alcuni (di volta in volta diversi, a seconda della materia) più che da altri»; P. MONTALENTI, sub art. 2381, (nt. (157)), 683, il quale rammenta che «il dovere di vigilanza era genericamente individuato; pur riconoscendosi che esso non poteva

non avere se non un carattere sintetico, si rilevava tuttavia che ciò entrava in contraddizione con il carattere «analitico» del dovere di attivazione nei confronti di «atti pregiudizievoli» (art. 2392, 2° co., ult. parte, vecchio testo); il rischio era quello in concreto di scivolare verso un sistema di responsabilità oggettiva».

(314) Così, ma in senso critico, A. ROSSI, (nt. (252)), 23 s., il quale evidenzia che la

conseguenza era «l’indifferente coinvolgimento di schiere di amministratori (e sindaci), presenti e passati,

nelle azioni sociali di responsabilità promosse nell’ambito di procedure concorsuali».

In giurisprudenza si v., ex multis, Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro it., 2006, I, 1898; Cass., 13 gennaio 2004, n. 269, in Dir. e prat. soc., 2004, 6, 69; Cass., 29 agosto 2003, n. 12696, (nt. (11)); Cass., 6 dicembre 2000, n. 15487, in Società, 2001, 591; Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in Giur. it., 1999, 773; Cass., 24 marzo 1998, n. 3110, in Società, 1998, 934; Cass., 7 novembre 1997, n. 10937, in Dir. fall., 1998, II, 855, e in Fallimento, 1998, 697, con nota di BARBIERI; Trib. Milano, 4 luglio 1983, in Società, 1984, 28.

Anche la giurisprudenza più recente sembra ancora legata alla interpretazione della norma previgente: si v. Cass., 9 gennaio 2013, n. 319, in Notariato, 2013, 136, la quale ha ribadito che «a carico degli amministratori è posto il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione sociale, nonché

di attivarsi per impedire il compimento di atti pregiudizievoli per la società o comunque per eliminarne le conseguenze dannose. Tale dovere prescinde dalla delega di determinate funzioni al comitato esecutivo o a singoli amministratori, e la sua violazione comporta pertanto il riconoscimento della responsabilità per i predetti atti; a meno che non sussista la prova che l’amministratore, pur essendosi diligentemente attivato a tal fine, non abbia potuto in concreto esercitare la dovuta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio di amministrazione»; Trib. Milano, 27 settembre 2011, n. 11379, in Società,

2011, 1472, secondo cui «restano in capo a tutti gli amministratori i doveri di conservazione del

patrimonio, di corretta tenuta delle scritture contabili, di corretta redazione dei bilanci e di agire informato. Il componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, chiamato a rispondere come obbligato solidale, non può sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto».

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