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CAPITOLO VI CONCLUSIONI

6.1 Discussione generale

I quesiti alla base della nostra ricerca sorgevano dalla constatazione della centralità e pervasività della comunicazione nelle organizzazioni e dalla conseguente responsabilità degli attori organizzativi a completare il proprio bagaglio professionale con opportune competenze comunicative che potessero supportare lo sforzo dell’organizzazione di essere all’altezza dei suoi compiti in tale campo, ormai diventato strategico.

La comunicazione supporta e allo stesso tempo struttura le organizzazioni, le accompagna nel cambiamento e ne esplicita obiettivi e finalità. Per tale motivo l’organizzazione stessa deve sentirsi a maggior ragione responsabile delle competenze comunicative che i propri operatori, a qualsiasi livello, possiedono ed esibiscono. Ma la comunicazione nelle organizzazioni, come abbiamo avuto modo di vedere, è un oggetto multidimensionale, non sempre teoreticamente nitido o descrivibile in modo deterministico. Nelle organizzazioni comunicano “macchine” con “macchine”, queste ultime con esseri umani e questi, prevalentemente, fra di loro. Una comunicazione di tal genere entra rapidamente nel campo della complessità, della probabilità, della aleatorietà del risultato. Ci siamo dunque chiesti se i modelli che descrivono attualmente la comunicazione organizzativa fossero specifici, completi, coerenti e parsimoniosi. A questo proposito fra le modellizzazioni più recenti quella di Invernizzi ci è parsa la più specifica, perché toccava in modo esauriente tutti i più importanti processi dei vari segmenti organizzativi senza annegare nella genericità onnicomprensiva. Ci è parsa anche la più coerente al suo interno perché capace di descrivere nella stessa modalità i diversi processi comunicativi che investivano pubblici e destinatari anch’essi vari e polimorfi. Ci è infine sembrata parsimoniosa proprio perché non ricorreva a spiegazioni

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esterne e modelli complessi, ma utilizzava le stesse strutture e processi organizzativi come elementi di giustificazione delle sue articolazioni. Tuttavia, nei limiti della nostra competenza, la modellizzazione di Invernizzi ci è sembrata incompleta, al pari di altri autorevoli modelli, nel senso che nelle organizzazioni, rispetto ad altri contesti, il focus della comunicazione era posto sugli aspetti espliciti, perspicui, manipolabili, trasformabili, e si basava su strumenti e ricorreva a mezzi (media) di analoga tipologia. La comunicazione veniva appunto descritta “nello spettro del visibile”. Ma, proprio partendo dall’esperienza maturata in altri contesti comunicativi nei quali questi processi

si giocano in un continuum esplicito-implicito, come ad esempio le aree della patologia mentale, delle relazioni personali, della menzogna, dell’inganno, dell’ironia, ci è parso legittimo porci il quesito se anche nelle organizzazioni questi problemi fossero presenti e che peso rappresentassero. L’analisi teorica della ricerca ha potuto dimostrare che esistono contesti organizzativi nei quali questi fenomeni esistono e assumono rilievo strategico. Passano cioè dallo spettro del visibile allo spettro dell’”invisibile”. Allora il secondo quesito non poteva che essere, proseguendo nella metafora dello “spettro”, quello di che strumenti l’organizzazione può dotarsi per “vedere” questi processi comunicativi. Vedere, ovviamente, per controllare e governare. Naturalmente poi i processi vengono condotti da agenti umani, nella loro specificità, e pertanto i quesiti si trasformavano in tal modo: i vari attori organizzativi possiedono le chiavi di lettura, gli

occhiali, per vedere tali fenomeni e le organizzazioni che strumenti possiedono per

accertarne il possesso nei propri componenti, ovvero sanno le organizzazioni dotare i

propri uomini di tali competenze? Sanno formare ad una comunicazione globale i loro

manager e i loro dipendenti?

Questi quesiti di ordine generale non possono che avere risposte parziali e provvisorie da una ricerca come la nostra. Di conseguenza il nostro approccio al problema è stato graduale. Pertanto, acquisite e definite le caratteristiche generali del problema di ricerca,

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occorreva aggredirlo inizialmente, scomponendolo in sottoproblemi di minore complessità e maggiore accessibilità. Ci siamo pertanto posti il problema preliminare di costruire uno strumento che iniziasse a sondare un pool di competenze comunicative nei diversi attori comunicativi, seguendo il solco di variabili organizzative consolidate, come la percezione di clima, che in qualche modo potessero rappresentare un indicatore parallelo di validità del costrutto e della competenza che si cercava di stimare nei vari soggetti organizzativi. L’assunto di base era che clima e comunicazione sono correlati per vari aspetti e secondo diverse dimensioni. Le ipotesi di lavoro erano che le competenze comunicative in qualche modo preventivamente possedute potessero influenzare il clima organizzativo. In realtà è emersa la tendenza opposta, che ha necessità di ulteriori verifiche e riprove, cioè che sarebbe il clima positivo la determinante dell’insorgenza di specifiche competenze comunicative allargate, almeno nelle posizioni più vicine al segmento manageriale.

La costruzione di più strumenti che stimassero le competenze dei diversi attori nel continuum comunicativo si è articolata nella realizzazione di due versioni di un questionario dedicato alle diverse figure aziendali.

Quello dei dipendenti è stato realizzato in versione semplificata, tenendo conto anche della minore “responsabilità” comunicativa di tali attori. Quello dei dirigenti, più complesso, è giunto alla fase definitiva con una articolazione per scale settoriali, in relazione alle varie tipologie comunicative, che mantiene la sua unitarietà in considerazione del fatto che ciascuna sottoscala spazia nel continuum comunicazione- discomunicazione. Entrambi i questionari hanno evidenziato discrete proprietà psicometriche, saturando e sintetizzando dimensioni che stimano competenze specifiche nel continuum dell’espressione esplicito-implicito.

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I passi per la validazione di entrambe le versioni dei questionari, a partire dalle edizioni preliminari, si sono dovuti misurare con un notevole sforzo di operazionalizzare le variabili, specie sul versante discomunicativo.

L’attendibilità e la validità di entrambi i questionari è risultata soddisfacente, come pure i modelli teorici che sono emersi dalle equazioni strutturali relative al modello globale per i dipendenti e ai quattro distinti modelli per i dirigenti.

In generale tali modelli hanno postulato un clima organizzativo positivo, indicatore di buona circolazione di comunicazione, come matrice di buone prassi comunicative, e perciò elemento propulsore di corrette dinamiche comunicazionali attive che generano competenza attiva, e, di converso, contenitore di dinamiche discomunicative che generano conoscenza reale e critica di tali processi. Come è noto, la conoscenza critica dei processi è anche lo step fondamentale per giungere alla competenza e al completo padroneggiamento degli stessi. I modelli dei dirigenti hanno confermato, come da ipotesi teorica, che la discomunicazione non è vista come disvalore comunicativo, ma è correttamente intesa, in relazione al valore del clima, come processo diverso e atipico di comunicazione. Pertanto un clima positivo permette di stabilire competenze che evitano giudizi “etici” sulla discomunicazione. Quest’ultima è uno strumento e come tale è colta nei contesti in cui c’è circolazione comunicativa, dinamicità, relazioni e comunicazioni con i superiori.

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