Lo scopo di questo studio è quello di valutare, in una popolazione di pazienti affetti da AR, i livelli di anticorpi marker di malattia quali gli ACPA e di anticorpi indotti da immunizzazione (anti-TT) o da infezione (anti-EBNA). Il dosaggio è stato effettuato su campioni raccolti da 30 pazienti in due momenti diversi della malattia, a distanza, in media, di 18 mesi.
L’analisi dei dati raccolti ha mostrato che i livelli degli ACPA sono correlati fra loro, ma non con gli altri anticorpi presi in esame.
Questo dato conferma che gli ACPA rappresentano una singola famiglia di anticorpi (correlazioni statisticamente significative si osservano fra anti-CCP, anti-VCP1 e anti-VCP2) e che sono in grado di legare peptidi citrullinati di origine endogena (filaggrina) ed esogena (proteine EBNA1 e EBNA2 citrullinate). In letteratura è stata descritta la associazione fra ACPA e fattore reumatoide (37), ma non era mai stata studiata l’eventuale associazione con anticorpi diretti verso antigeni infettivi o di immunizzazione. Nella popolazione presa in esame non è stata rilevata alcuna associazione tra ACPA e anti-TT o anti-EBNA. Questo risultato suggerisce che la produzione delle due famiglie di anticorpi sia regolata in modo differente. Abbiamo quindi valutato se i livelli di immunoglobuline con diversa specificità correlassero con la attività della
malattia, ovvero se uno stato flogistico generalizzato potesse influenzare la produzione di una famiglia di anticorpi piuttosto che l’altra. Nessun anticorpo è però risultato correlato con i tre parametri dell’attività di malattia. Per quanto riguarda l’associazione tra ACPA e attività di malattia, sono presenti in letteratura dati contrastanti: non è stata infatti ancora dimostrata un’associazione diretta fra livelli di anti-CCP e intensità della flogosi articolare, mentre è nota la loro associazione con la gravità della malattia (15, 20, 22). Gli anti-VCP1 non sono risultati un buon indicatore dell’attività di malattia (35); per gli anti-VCP2 sono attualmente in corso studi. Una menzione particolare merita invece l’osservazione dei livelli di anti-TT e di anti-EBNA, apparentemente scollegati dai livelli di infiammazione. La risposta immune al tossoide tetanico è uno degli esempi classici di memoria vaccinica: l’antigene viene somministrato in ambiente pro-infiammatorio nell’età infantile per indurre la produzione di anticorpi protettivi (memoria umorale); i livelli di questi anticorpi subiscono un lento declino nel corso degli anni per cui è suggerita la somministrazione di dosi vacciniche di richiamo ogni 10 anni. I meccanismi che garantiscono la persistenza di livelli protettivi di anti-TT nel corso degli anni sono a tutt’oggi oggetto di studio: si ritiene comunque che partecipino al mantenimento della memoria umorale le plasmacellule a lunga vita residenti nel midollo osseo (38) e le plasmacellule a breve vita originate dalle cellule B della memoria durante
attivazioni policlonali (39). Solo undici dei pazienti analizzati in questo studio presentavano livelli rilevabili di anti-TT nel siero; l’analisi condotta su questi pazienti non ha evidenziato associazioni con gli indici di flogosi, ma sono necessari studi su casistiche più ampie per capire se nei pazienti affetti da AR la produzione di anti-TT sia in qualche modo regolata dall’attività di malattia (livelli di infiammazione/attivazione policlonale). La bassa percentuale di soggetti positivi per anti-TT vede il concorrere di tre cause: in primo luogo l’AR colpisce più frequentemente le donne che, rispetto agli uomini, ricevono generalmente una dose di richiamo in meno rispetto agli uomini (che ricevevano un richiamo all’età di 18 anni durante il servizio militare); in secondo luogo, secondo i dati pubblicati dai CDC di Atlanta nel 1995, la copertura anticorpale nei soggetti vaccinati comincia a decadere dopo i 40 anni, per limitarsi al 30% dopo i 70 anni, i soggetti analizzati in questo studio hanno un’età media di 56 anni; infine la mancanza di linee guida sulla somministrazione di vaccini a soggetti affetti da malattie autoimmuni riduce la propensione a effettuare “richiami” in questo tipo di pazienti. Nemmeno gli anti-EBNA1 hanno mostrato associazione con gli indici di infiammazione.
L’infezione da EBV è molto diffusa, interessando più del 90% degli adulti nel mondo. Nella maggior parte dei casi l’infezione si contrae in modo asintomatico durante l’infanzia e diviene persistente, con latenza
del virus nei linfociti B e liberazione di particelle virali nella saliva. EBV penetra nell’organismo attraverso la mucosa faringea; dopo un ciclo iniziale di replicazione litica nelle cellule epiteliali, avviene l’infezione secondaria dei linfociti B presenti al disotto della dell’epitelio tonsillare. EBV utilizza i meccanismi di attivazione fisiologici dei linfociti B per instaurare il suo ciclo di latenza: le cellule B recentemente infettate infatti, sotto l’influenza dell’oncogene EBNA2, esprimono tutti i geni della latenza virale e proliferano nei centri germinativi grazie all’espressione di due proteine di membrana LMP1 e 2a. Per completare il suo ciclo vitale, il virus deve replicarsi e infettare altre presone. Quando i linfociti B memoria infettati incontrano un antigene, migrano verso gli organi linfoidi secondari e maturano a plasmacellule; questo evento è legato alla riattivazione del ciclo litico; da questa sede il virus può infettare nuove cellule B e essere immesso nella saliva. Durante la latenza, il genoma virale è espresso al minimo; la proteina EBNA1 viene comunque sintetizzata durante la replicazione cellulare: questa proteina lega il DNA virale e assicura che questo venga equamente distribuito nelle due cellule figlie (40).
Se è verosimile che i livelli di anti-EBNA1 crescano ogni volta che il virus va incontro a un ciclo di replicazione litica, tuttavia non sono noti i fenomeni che portano all’attivazione di un ciclo litico. Perciò è difficile prevedere se e quando una variazione nei livelli di questi anticorpi si può
verificare. I livelli di IgG anti-EBNA nella popolazione studiata non correlano con i livelli di nessuno degli altri anticorpi studiati, né, come atteso, con gli indici di infiammazione. Questo suggerisce in primo luogo che la memoria umorale verso antigeni di immunizzazione sia regolata in modo indipendente da quella verso antigeni di infezioni croniche; in secondo luogo la risposta verso antigeni virali citrullinati appare svincolata da quella verso gli stessi antigeni non modificati.
In tutte le considerazioni fatte finora, ci siamo basati sull’analisi dei livelli dei diversi anticorpi, cioè sulla misura di quei parametri in un determinato momento della storia clinica. Informazioni ulteriori possono però essere ottenute studiando come questi parametri si modifichino nel tempo. A tale scopo abbiamo effettuato una analisi statistica che confronta le variazioni dei livelli di anticorpi tra loro e con gli indici di flogosi.
I risultati hanno mostrato come non solo i livelli dei tre ACPA sono correlati fra loro, ma lo sono anche il segno e l’entità delle loro variazioni nel tempo. Correlazioni significative non sono state invece riscontrate con le variazioni di anti-TT, anti-EBNA, indici di flogosi. Questo dato suggerisce che la produzione di ACPA non sia dipendente dall’intensità della flogosi e ancora una volta smentisce un valore predittivo di questi anticorpi sull’attività di malattia. Gli ACPA devono
quindi essere considerati anticorpi marker di malattia, ma non di attività di malattia, per cui è indicata la loro ricerca per porre la diagnosi, ma non si dimostrano utili nel monitorare l’andamento della malattia o l’efficacia della terapia.
È stata recentemente descritta la presenza di ACPA di isotipo IgA e IgM in una buona percentuale di pazienti AR, anche dieci anni dopo l’insorgenza della malattia (41, 42). Anche da questo punto di vista la produzione di ACPA si differenzia da quella di anticorpi diretti verso i normali antigeni di immunizzazione, in cui invece si assiste alla realizzazione di una memoria umorale, con anticorpi di isotipo IgG e scomparsa delle IgM. Una ulteriore prova a favore di una diversa regolazione dei due tipi di anticorpi è suggerita anche dai risultati ottenuti in pazienti con AR trattati con Rituximab (monoclonale anti-CD20): in pazienti depleti di linfociti B, si assiste al calo degli autoanticorpi, ma gli anticorpi verso antigeni infettivi rimangono invariati (43).
I dati di questo studio costituiscono un ulteriore supporto all’ipotesi che la regolazione della produzione di autoanticorpi sia differente da quella degli anticorpi verso antigeni di immunizzazione.
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RINGRAZIAMENTI
Un sentito ringraziamento va alla prof.ssa Paola Migliorini che con la sua competenza e disponibilità mi ha dato la possibilità di svolgere questo lavoro all’interno del dipartimento di Allergologia e Immunologia clinica. Un affettuoso grazie va anche alla dott.ssa Consuelo Anzilotti, che ha dato un contributo importante per lo svolgimento di questo lavoro, dandomi sempre un grande sostegno e non facendomi mai mancare un sorriso. Grazie anche a tutti i ragazzi del laboratorio che hanno saputo addolcire quest’ultimo periodo di grande stress.