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Lo scopo primario di questa tesi è stato quello di indagare la percezione della popolazione autoctona rispetto a diversi gruppi etnici presenti nel territorio trevigiano.

Uno dei primi quesiti che ci si era posti, all’inizio dell’indagine, era quale fosse il pensiero delle persone riguardo al concetto di salute.

Dall’analisi dei risultati è emerso che, indipendentemente dall’età anagrafica, dal genere e dalla professione svolta, per tutti gli intervistati il mantenimento di un buon stato di salute risulta di primaria importanza. Quest'ultimo aspetto, secondo gli intervistati, è influenzato da svariati fattori, quali l’adozione di stili di vita regolari, il controllo periodico delle condizioni di benessere e il mantenimento di una soddisfacente vita affettiva. Vi è, però, una generale tendenza alla sfiducia nei confronti della sanità pubblica, condizione che, però, non inficia il rapporto con il Medico di Medicina Generale.

Le chiavi interpretative che possono essere ipotizzate in correlazione con questo fenomeno sono molteplici.

Tali affermazioni possono, ad esempio, trovare giustificazione nella difficoltà di accesso alle cure, sostanziata, spesso, da lunghe liste di attesa per ricevere prestazioni specialistiche che costringe il cittadino a rivolgersi al privato, dovendo così sostenere l’intero costo della prestazione24. Spesso sfiducia ed insoddisfazione hanno come base comune una problematica relazione operatore sanitario-paziente, che si traduce in diffidenza nei confronti dell'intero sistema sanitario, in generale.

Un altro aspetto da considerare, inoltre, è l'insieme delle aspettative dei pazienti, spesso, troppo elevate e quindi il più delle volte deluse, anche delle prestazioni che, dati gli enormi progressi della scienza medica, si crede dovrebbero essere assolutamente scevre di errori e fallimenti. La situazione, poi, viene ulteriormente esacerbata dal ruolo dei mass media che, pur esaltando questi progressi scientifici, focalizzano la loro attenzione sui casi di malasanità con servizi sensazionali, spingendo ancora di più l'opinione pubblica verso un clima di sfiducia generale nei confronti dell'organizzazione sanitaria, alimentando la rabbia delle persone25.

In questa panoramica, i sensazionali messaggi di cronaca non consentono di distinguere la complicanza, insita nelle procedure sanitarie, dall’errore. È questo che determina un senso

di sfiducia nella sanità pubblica, non perché quest'ultima non sia esente da difetti ma perché la “malasanità” vien fatta passare come una pandemia, del tutto organica al sistema. Per quanto riguarda il tema della malattia, le persone intervistate dimostrano una sorta di egocentrismo rispetto alle patologie dalle quali sono affette; questo atteggiamento le porta a parlare e considerare importanti solo le proprie rispetto a qualsiasi altra malattia e, solo se stimolate con altri quesiti, riescono a guardare oltre.

La neoplasia, citata da molti come malattia che incute timore, è vista ancora oggi come male incurabile, una diagnosi di morte certa. Si è riscontrato come questa tendenza sia propria di coloro i quali hanno avuto esperienze, tra familiari o conoscenti, di decessi da patologia neoplastica.

Il timore di patologie come demenza e specificatamente quella di Alzheimer trova correlazione con l’età degli intervistati; infatti, questa situazione viene citata prevalentemente da persone appartenenti alla fascia di età tra i 56 e gli 85 anni. Si è riscontrata, inoltre, una correlazione tra il timore di questa patologia e la presenza della stessa all’interno del proprio nucleo familiare o nella propria cerchia di conoscenze. Da quanto è emerso dalle interviste, si ipotizza che la maggioranza degli intervistati non sia realmente a conoscenza dell’importanza della prevenzione e delle principali norme atte a prevenire la diffusione di qualunque patologia. L’incertezza nel rispondere alla domanda su quali fossero i principali metodi per limitare la diffusione di una malattia e prevenirla è stata riscontrata nella maggioranza dei casi. Pochi sono stati, infatti, i casi di risposta rapida, decisa e convinta, e non stimolata attraverso il ragionamento con l’intervistatore, sulle norme più basilari che dovrebbero far parte della quotidianità di ognuno di noi. Si potrebbe, quindi, dedurre che gli interventi educativi attuati fino ad ora in materia di prevenzione non siano stati sufficientemente efficaci e che vadano implementati ed integrati.

Questa tesi potrebbe essere ancora più avvalorata dal fatto che un numero considerevole di persone considera la presenza sul territorio di gruppi etnici differenti da quello autoctono come un fattore determinante per la diffusione di malattie ed individua nella loro eradicazione la soluzione al problema.

Si è riscontrato come la tendenza a questo tipo di risposta sia più diffusa tra individui anziani, di età compresa tra i 70 e gli 85 anni. Sembrerebbe esser lecito ipotizzare che le persone anziane, avendo avuto meno occasioni di confrontarsi con persone diverse, in

senso geografico e culturale, siano potenzialmente meno inclini all’aggiornamento delle proprie conoscenze in questo ambito, preferendo rimanere radicata nelle proprie convinzioni. Alcune persone, infatti, sono portate a pensare che ciò in cui credono, ciò che pensano, il paese dove nascono, la cultura e la religione ricevuta, il proprio colore della pelle, gli usi e costumi acquisiti, abbia un valore di assioma, la verità incontestabile, il punto di riferimento assoluto, e tutto ciò che si discosta da questo sia sbagliato e inaccettabile.

Per quanto riguarda infine il tema della xenofobia, fulcro dell’intera indagine, le considerazioni che possono essere fatte, a fronte dei risultati ottenuti, sono molteplici. Dall’analisi dei risultati parrebbe, innanzitutto, condivisibile che nessuna delle variabili del campione, ovvero genere, età, professione e numero di figli, influenzi in maniera considerevole l’opinione delle persone. È, infatti, pressoché totale la presenza di un pregiudizio, in forma più o meno velata. Si è notato come l’unica differenza potrebbe essere fatta dalla professione esercitata, nello specifico quella che prevede una relazione di aiuto. Gli unici intervistati che hanno espresso pensieri e opinioni positive, o quantomeno logicamente sostenibili, riguardo allo scopo dell’indagine sono state infatti persone appartenenti al ramo sanitario, che rappresentano l’8% del campione totale. Si ipotizza che ciò possa essere dovuto ad una maggiore capacità di ragionamento critico in quanto, per il tipo di professione svolta, questi intervistati, avendo avuto più occasione di venire a contatto con differenti culture ed etnie in ambito sanitario, sono forse meno inclini al pregiudizio e posseggono conoscenze sui reali fattori che contribuiscono alla diffusione delle malattie.

Ciò che sembra emergere, comunque, in maniera preponderante è una generale disinformazione che parrebbe portare le persone ad una categorizzazione ingannevole della realtà; ciò che si nota dall’analisi delle interviste è, infatti, un’incapacità di argomentare con affermazioni condivisibili e logiche le proprie asserzioni.

Nonostante sembri che le variabili, ad esclusione della professioni sanitaria, non influenzino in maniera sostanziale il pensiero delle persone riguardo alla presenza o meno di pregiudizio, è altresì vero che per alcune di queste variabili vi sia una più marcata predisposizione ad un pensiero rigido e stereotipato. Sembra, infatti, che sia il genere femminile associato ad un età più matura a portare all’espressione di un pensiero più severo, categorico e senza filtri.

Nel caso dell’età, come si ipotizzava precedentemente, la popolazione anziana che solitamente è meno esposta al confronto con altre culture ed etnie sembra avere, quindi, una tendenza più marcata a considerare esclusivamente le proprie radicate convinzioni. Inoltre, la recrudescenza delle malattie del passato, per le quali resta ancora vivo il ricordo in alcuni intervistati, potrebbe contribuire ancora di più a questa tendenza.

Per quanto riguarda il genere femminile, in letteratura non sono state reperite informazioni che consentissero di fare inferenze. Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che le donne della precedente generazione, casalinghe per norma, abbiano avuto meno occasioni della controparte maschile di spostarsi dal proprio territorio e confrontarsi con persone diverse per cultura, seppur connazionali. Altra ipotesi potrebbe far ricondurre questo atteggiamento a percepire “l'altro”come minaccia al proprio sistema di valori, determinando una chiusura ed uno smisurato senso di protezione per la famiglia e per i figli.

In conclusione, ciò che emerge dall’analisi delle interviste è una pressoché generale presenza di un pregiudizio legato ai diversi gruppi etnici per quanto riguarda il pericolo di trasmissione di malattie, indipendentemente dalle condizioni di salute e di vita dei soggetti immigrati, con assenza quasi totalitaria di argomentazioni valide e condivisibili a supporto di questa credenza.

Seppure il campione di indagine sia ridotto si può supporre che, vista la conferma delle ipotesi di partenza, lo stesso pensiero possa essere ritrovato anche in altri contesti con le medesime metodologie di indagine.

Considerato il fatto che, sempre più, si sta andando incontro ad una globalizzazione importante e che il numero delle persone straniere residente tenderà ad aumentare nei prossimi anni, questa credenza radicata nella popolazione autoctona, ovvero che la persona immigrata possa essere veicolo di trasmissione di malattie infettive gravi indipendentemente dalle condizioni di partenza, potrebbe diventare un ingente problema sociale che dovrà essere gestito negli anni a venire.

Come già sottolineato in precedenza, essere infermiere oggi significa essere un professionista che muta in relazione alla società e alla sua richiesta e che si adatta al processo evolutivo in maniera consapevole e propositiva.

Da qui nasce, quindi, la necessità di acquisire consapevolezza di una problematica che potrebbe, negli anni, portare all’esigenza di riadattare e riformulare il progetto educativo

per la popolazione sul territorio, attraverso la collaborazione di un’equipe multidisciplinare, anche attraverso il sostegno dei Medici di Medicina Generale, a partire da un’informazione chiara e lineare, una più attenta educazione riguardo ai metodi di prevenzione e loro impiego nella quotidianità e un avvicinamento alla conoscenza di nuove culture.

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