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di Alessio Decaria*

I problemi di metodo sono quelli che via via il nostro lavoro ci presenta.

(Domenico De Robertis)1

Raccogliendo l’invito a discutere collettivamente di una questione ecdotica di grande rilievo e interesse come quella delle disperse petrarchesche, trat-terò di alcuni problemi generali, sollecitato dai materiali inviati dall’équipe che sta alacremente lavorando all’edizione e dalle questioni emerse durante la giornata di studio ginevrina, introducendo alcuni esempi che rispecchia-no, spero, alcune delle casistiche ecdotiche più significative. Non ci si pro-pone, ovviamente, di toccare tutte le questioni connesse al difficile proble-ma ecdotico oggetto della suddetta giornata, né tantomeno di offrire solu-zioni, ma piuttosto di stimolare la discussione su alcuni problemi.

Non è facile esporre un caso complesso come quello delle disperse in poche parole, specie per quanto concerne il problema capitale, che è quello dell’attribuzione. Viene da chiedersi, oggi come più di un secolo fa, quando questa vasta e varia galassia di testi lirici a diverso titolo si ad-densò intorno al nome di Petrarca, dando forma al volume di Solerti: a che fine «impigliarsi nella selva selvaggia delle molte questioni attinenti all’autenticità»?2 Per dare una risposta a questa legittima domanda cer-cherò di mettere a frutto la mia saltuaria frequentazione delle disperse, legata soprattutto alla stesura del repertorio traliro (consultabile

all’in-dirizzo http://mirabileweb.it/p_romanzo.aspx), dove si affrontavano sì alcune questioni attributive concernenti testi del corpus Solerti, ma

ve-* Università di Udine. 1. De Robertis (1961, p. 119).

dendo sempre il problema dalla parte degli altri rimatori trecentisti coin-volti (Petrarca era escluso dal repertorio). Questa prospettiva, lo confes-so, per lo specifico problema ecdotico posto dalle disperse è tutt’altro che penalizzante, data la natura intrinsecamente composita del corpus di

que-ste rime che già Solerti intelligentemente chiamò Rime disperse di Fran-cesco Petrarca o a lui attribuite.

Partirò proprio da qui, cioè dagli altri (altri da Petrarca). Grazie alle nuove indagini che hanno illuminato il Trecento lirico negli ultimi decen-ni siamo giunti, se non ad archiviare, almeno a considerare in un’ottica più problematica alcune formule sbrigative come quella di “Trecento senza Pe-trarca” che sono penetrate (non del tutto a torto), nei decenni passati, nei profili della nostra letteratura trecentesca. A mettere in discussione que-sta prospettiva storiografica è que-stata un’analisi serrata e capillare, necessaria-mente filologica, a cui sono stati sottoposti i testi di molti lirici minori del Trecento, che ora conosciamo decisamente meglio, anche nella loro tra-dizione, e possiamo meglio opporre, contrastivamente, al poeta del Can-zoniere (e di alcune poesie extravaganti, ovviamente). Basti pensare, per misurare la strada percorsa nell’ultimo ventennio, a come l’importante in-troduzione di Vittore Branca alla ristampa dell’edizione Solerti finisse per concentrarsi, dopo poche pagine iniziali, sul rapporto Petrarca-Boccaccio3; riletta col senno di poi, quell’introduzione, cronologicamente non così re-mota (1997), appare figlia di una diversa stagione; a essa si possono accosta-re, per far emergere il cammino percorso, alcune pagine molto intelligenti, e non tra le più recenti, scritte da Daniele Piccini sulla prospettiva «incon-sciamente aristocratica» degli studi sul Trecento lirico, poco propensi ad allargare il quadro ai minori4.

Si può dire che stia venendo meno, in questi anni di intenso lavoro sul Trecento lirico italiano, una delle difficoltà strutturali che rendevano no-bilmente velleitaria l’iniziativa di Solerti e che hanno tenuto molti studiosi lontani dal problema, complesso ma decisivo, delle attribuzioni contese: quella, appunto, della mancanza di studi filologici adeguati sulla lirica mi-nore del Trecento. Oggi, dunque, conosciamo molto meglio la lirica che cresceva intorno a Petrarca e che inevitabilmente veniva a convergere, con maggiore o minore frequenza, con la tradizione delle sue rime extracano-niche. Una buona notizia, dunque, per Roberto Leporatti e i suoi eroici

3. Cfr. Branca in Solerti (1997, pp. 1-30). 4. Piccini (2004, p. xxx).

collaboratori: purtroppo, non ne seguiranno molte altre in questa rapida disamina del complesso problema attributivo delle disperse.

Questo rinnovato affondo nella tradizione trecentesca della lirica sta indirizzando, per quanto si può dedurre dai risultati sin qui divulgati, il lavoro della squadra leporattiana: la via maestra da percorrere per decidere delle attribuzioni è, almeno in prima istanza, quella filologica, non del tut-to presente a Solerti, almeno nelle sue applicazioni concrete e puntuali, e risolutamente imboccata, invece, nel preziosissimo aggiornamento biblio-grafico messo a punto da Paola Vecchi Galli nell’appendice alla già men-zionata ristampa del volume di Solerti del 1997. Una strada che andrà co-munque intrapresa, pur restando consapevoli delle difficoltà e della fatica e del lavoro e del tempo che si dovrà spendere in questa ricognizione: il che potrebbe (o dovrebbe) suonare scontato a chi pratica gli studi filologici, anche se si tratta di ingredienti che già un filologo come Michele Barbi più di un secolo fa si rendeva conto che erano divenuti di difficile reperimen-to, tanto da rendere gli addetti a imprese consimili quasi estranei al loro tempo:

Il volume che offro agli studiosi dell’antica nostra poesia è frutto di lunghe e pa-zienti indagini. Quando nell’ardore de’ miei vent’anni osai volgere il pensiero a un’edizione critica del Canzoniere di Dante, tentata invano dal Witte, per tanto tempo inutilmente sospirata dal Carducci, posta dallo Scartazzini fra le cose che forse non si faranno mai, sapevo bene che mi accingevo a un’impresa molto ardua, ma non pensai affatto che potesse riuscire così lunga e disperata, e da potersi mal conciliare con le esigenze della vita moderna, la quale non consente di sprofondar-si per più lustri in una indagine sola, per quanto importante5.

Già Vittorio Cian, nella menzionata prefazione all’edizione postuma delle disperse, parlava della sfida solertiana come di «un’altra impresa, in apparenza, modesta, in effetto, però, importante ed irta di difficol-tà gravi»6; con questa formulazione, a mio parere, si voleva sottolineare l’ardua insidia nascosta in una ricerca di questo tipo, più che sminuirne il

5. Barbi (1915, p. v).

6. «Le ultime energie della sua vita di studioso infaticabile egli dedicò ad un’altra impresa, in apparenza, modesta, in effetto, però, importante ed irta di difficoltà gravi, l’e-dizione delle Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, da lui già approntata per

la stampa e che qui offro ai cultori dei buoni studi italiani, adempiendo la promessa che il povero amico, nelle ultime ore dell’agonia straziante, invocò da me in nome del nostro af-fetto fraterno» (Cian in Solerti, 1909, p. xiv).

cabotaggio con l’aggettivo «modesto». Si tratta comunque di un’impre-sa «importante» per la nostra conoscenza di Petrarca non meno che di quella del Trecento; meglio ancora: per la nostra conoscenza di Petrarca nel Trecento, a cui non si può arrivare se non attraverso le strade per le quali ci guida la trasmissione manoscritta.

Proverò ad accennare, nello spazio che mi è concesso, ad alcune tipolo-gie ecdotiche con cui inevitabilmente ci si dovrà confrontare, che pongono problemi di ordine diverso, ma che sono in qualche misura “tipiche” della tradizione della lirica italiana medievale, soprattutto tre-quattrocentesca. Pescherò ovviamente nelle sezioni dell’edizione solertiana che vanno dalla terza alla sesta (si ricordi che le sezioni sono disposte secondo «una climax

discendente di certezza»7): «rime attribuite a Petrarca da uno o più codici contenenti sillogi petrarchesche» (iii); «rime attribuite a Petrarca da vari manoscritti» (iv); «Frottole attribuite a Petrarca» (v); «rime d’altri au-tori attribuite talvolta a Petrarca» (vi), ma alcuni interventi pubblicati in questi atti rivelano che anche in merito all’inserimento delle poesie nelle sezioni si possono muovere sensate obiezioni alle scelte di Solerti.

1

Attribuzioni contese: Petrarca e gli altri

Trascurando le rime extravaganti relativamente sicure, già ottimamente studiate e pubblicate in tempi recenti8, mi concentrerò in primo luogo sul-le rime attribuite in modo non univoco, per sul-le quali sussistono candidature alternative a quella di Petrarca.

Si tratta della parte probabilmente più complessa del lavoro (dove non si può applicare una soluzione globale come quella recentemente proposta da Leporatti, 2017, per la serie del Riccardiano 1103, in cui vige la mera alternanza tra Petrarca e il silenzio), perché riguarda un nume-ro molto ampio di testi, largamente distribuiti nella tradizione, e perché comporta comunque la necessità di entrare nel merito della questione attributiva, che coinvolge spesso testi trasmessi da molte testimonianze,

7. Vecchi Galli (1997, pp. 328-9).

8. Sono quelle trasmesse da carte d’autore, come quelle presenti nel “codice degli ab-bozzi”, o copie di carte d’autore (le ballate e i sonetti tràditi dal Casanatense 924), a cui si può affiancare «qualche altro componimento [...] attribuito a Petrarca da una tradizione lunga e affidabile» (cfr. Vecchi Galli, 2007, p. 10). Questo canone ristretto di rime extrava-ganti è accolto nell’edizione a cura di Laura Paolino (1996).

spesso restie a una sistemazione genealogica. Si tratta anche di un proble-ma molto studiato, se la vasta bibliografia indicata da Paola Vecchi Gal-li (2007, pp. 11-3) può essere ulteriormente integrata con interventi più recenti. Il problema è, se non sempre complesso, comunque defatigante, anche per i non pochi testi caratterizzati da una vasta tradizione che reca attribuzioni a Petrarca solo saltuarie e per lo più poco credibili. Un con-to, infatti, è accorgersi, già a una semplice lettura del tescon-to, che non può trattarsi di Petrarca; un altro dimostrare con metodologia scientifica che quel testo non è di Petrarca, adducendo prove, non mere impressioni.

Penso – per fare un esempio in qualche misura tipico, ma una situazio-ne analoga, anche se più semplice, è illustrata da Francesca Florimbii (2017) per Dimme, cor mio, non di Petrarca, ma nemmeno del Romanello – a un

sonetto come Sarà ’n Silla pietà, ’n Mario e Nerone, inserito da Solerti

nel-la sesta sezione9, di fatto non attribuibile per nessun motivo a Petrarca, a cui, tuttavia, lo assegnano diversi codici (come del resto a Dante, come ben vide De Robertis10). Ecco il testo nella versione del codice Holkham Hall 521, copiato da Felice Feliciano, che l’attribuisce a un Francesco Malpigli forse inesistente11:

Missiva domini F. de’ Malpiglis

Serà pietà in Scylla, Mario e Nerone, e crudeltà serà spinta in Medea e senza furia fia Panthasilea

et Hercule inimico ala ragione. 4 Viverà fuor de libertà Catone

et a Didon serà fidel Enea et senza dolzeza serà Citharea

et infidel fia el buon Scipione. 8 Ardente fiamma agiacerà il valore

et animo gentil serà con sdigno

e possarà l’inferno senza romore. 11

9. Solerti (1909, p. 291).

10. De Robertis (2002, ii**, pp. 1056-7).

11. «Il nome di Francesco Malpigli, del tutto sconosciuto – il solo Malpigli noto è il notaio e rimatore bolognese Nicolò – potrebbe infatti essere frutto di una congettura del Feliciano, copista del codice, trovatosi innanzi ad un abbreviato o malamente leggibile

Al sol serà ribello ogni suo signo, e tutto ’l mondo sotto è sopra volto

prima ch’io sia da’ tuo begli occhi sciolto12. 14

Questo sonetto era già approdato alla stampa nell’edizione incunabola, prodotta dal fiorentino Bonaccorsi intorno al 1490, delle Rime di Cesare Torto e di altri; in tempi recenti, prima della citata edizione a cura di Crimi,

è stato pubblicato sotto il nome di Francesco Malecarni da Antonio Lan-za13, che ha seguito l’indicazione di Francesco Flamini, a cui si deve il primo vasto censimento delle testimonianze che recano questo componimento14. Gli altri rimatori che si contendono la paternità del sonetto sono Fran-cesco Accolti da Pontenano, Mariotto Davanzati, Antonio Cornazzano, Burchiello e Bernardo Ilicino: quasi tutti gli editori delle poesie di questi rimatori hanno rifiutato di assegnarla al poeta oggetto delle loro rispetti-ve indagini, quindi è rispetti-verosimile ipotizzare che essa resterà a Malecarni per esclusione (o per una sorta di “risarcimento” per il fatto che per il suo corpus

non si dispone ancora di un’edizione critica); e non credo che muti la so-stanza del problema attributivo, almeno finché non si esegua una collazio-ne esaustiva delle testimonianze, il fatto che sia stato rintracciato un secon-do codice che assegna a Malecarni il componimento (Oxford, Bodleian Li-brary, A 1215). È difficile, dunque, per l’editore delle disperse petrarchesche sottrarsi con valide scuse all’analisi, che per forza di cose comporterà un non trascurabile dispendio di tempo e di energie, anche se in un’operazio-ne filologica vasta e complessa come questa si può certo prevedere, almeno in una prima fase di lavoro, di escludere testi che hanno probabilità molto ridotte di entrare nel canone delle poesie attribuibili a Petrarca. La situa-zione di questo componimento ci fa capire come non sia facile adottare un

12. Traggo il sonetto da Crimi (2010, p. 245). Il testo pubblicato da Solerti, oltre alla disposizione dei vv. 11-13 nella sequenza, rispetto al testo sopra riportato, 13, 11, 12, reca le seguenti varianti significative: 1 ’n Silla pietà, ’n Mario; 5 Fuori di libertà vivrà; 7 om. et;

8 e Proserpina fia tolta a Plutone; 9 Ardenti fiamme in ghiaccio aràn; 10 fia senza sdegno; 11 l’inferno poserà; 12 del ciel sarà; 13 sotto sopra vòlto.

13. Lanza (1973-75, ii, p. 33), dove non si forniscono indicazioni sui criteri utilizzati per costituire il testo (i codici segnalati sono il Riccardiano 1154, il Laurenziano Redi 184, i Magl. vii 1168 e 1171). Tra le varianti più significative rispetto al testo sopra riportato si segnalano l’inversione tra i vv. 11 e 13 e le seguenti lezioni: 7 e fia senza dolcezza; 8 e ritolta Proserpina a Plutone; 9 in giaccio [sic] arà valore; 10 fia senza sdegno; 11 (13) l’inferno poserà;

13 (11) sotto sopra.

14. Flamini (1891, pp. 685-6, 762).

criterio di esclusione univoco e applicabile a situazioni tra loro molto di-verse; d’altra parte, in assenza di elementi interni di perentoria evidenza, è antimetodico sostenere con certezza che il testo non è del Petrarca prima di aver esaurito la recensio, soprattutto in un’edizione coscientemente ispirata

alla valorizzazione del dato della tradizione (anche perché sarebbe in ogni caso utile circoscrivere il luogo e il tempo in cui nacque l’attribuzione a Pe-trarca, ricostruendo un frammento forse non del tutto insignificante della fortuna dell’autore oggetto della ricerca).

Proprio dalla storia della tradizione, del resto, potrebbero venire in-dicazioni utili: ad esempio, il contributo di Maria Clotilde Camboni compreso in questi stessi atti, oltre a fornire un nuovo, aggiornato censi-mento delle copie superstiti di questo sonetto, svolge alcune osservazioni sulla sua fortuna cinquecentesca nell’ambiente del bolognese Ludovico Beccadelli e segnala che due testimoni sono riconducibili alla mano di Giovanni da Carpi; analoghe osservazioni si potrebbero fare a proposito del sopra citato Feliciano, che trascrisse anche un altro testimone del so-netto, il codice Ottelio 10 della Biblioteca Joppi di Udine. Conoscendo la tendenza di questo estroso personaggio a includere uno stesso pezzo in più antologie poetiche, sarebbe opportuno fare una verifica completa nei manufatti a lui riconducibili: che la strada sia promettente lo dimostra il fatto che essa conduce subito all’acquisizione di una nuova testimonian-za, quella del codice Rossiano 1117 della Vaticana, altra antologia felicia-nea, dove il sonetto compare a f. 46r16.

L’altra via che potrebbe consentire di mettere un po’ d’ordine in que-sta affollata galassia di testimonianze è quella della stemmatica comparata: non pochi dei manoscritti individuati sono notoriamente collegati tra loro da rapporti genealogici solidi e si potrebbe assumere, almeno in via d’ipo-tesi e provvisoriamente, la loro congiunzione anche per questo testo (oltre ai rapporti indicati da Camboni, penso, ad esempio, alla coppia costituita da Magliabechiano vii.1171 e Chigiano m.iv.79).

Inoltre, bisognerebbe esaminare bene il contesto in cui il sonetto com-pare in ciascuna testimonianza, operazione sempre raccomandabile, ma so-prattutto quando si ha a che fare con problemi attributivi17. Infatti, anche in questo caso, si è ricompensati: nel già menzionato codice di Holkham

16. Per questo codice e l’altro di Feliciano (conservato presso la Biblioteca Civica Jop-pi di Udine) cfr. da ultimo Florimbii (2019, pp. xxxviii-xl), a cui si ricorrerà per l’amJop-pia bibliografia pregressa.

Hall il sonetto è seguito dalla Risposta del’antedicto miser Baldessario che

comincia Di fideltà Fabricio e Scipïone18: Di fideltà Fabricio e Scipïone

nudi seranno inver lor patria rea, e Cocles che ’l ponte sol tenea

contra Toscana, e fia debil Sansone, 4 e muto diverà il tuo Cicerone,

in Paradiso ogni anima zudea, e diverà pietoso il crudo Egea,

Massentio, Ascallonite e Pharaone. 8 In bataglia avrà Cesare timore

e Platone idïota e senza inzegno

e ’l ciel dale formiche arato e tolto. 11 Serà più bianco assai il corbo che ’l cigno e la neve darà fiamma et ardore

prima che non adori el tuo bel volto. 14

Caso risolto, dunque? Che si vuole di meglio di una tenzone ricompo-sta, con tanto di risposta per le rime? Le cose, ancora una volta, non sono così semplici. La presenza di una risposta per le rime – che pure dà qual-che conforto, anqual-che per orientare la ricostruzione testuale, ad esempio riguardo all’inversione dei vv. 11 e 13 ben documentata nella tradizione – non consente di risolvere con un colpo di bacchetta magica la questione; nemmeno questa scorciatoia può valere, visto che non mancano le rispo-ste comporispo-ste a distanza di tempo e a volte perfino all’insaputa del propo-nente, che magari poteva non avere alcuna intenzione di essere tale19: e si noti che qui il primo testo non ha alcun tratto caratteristico della poesia di corrispondenza. D’altra parte, la grande diffusione, nel Quattrocento,

18. Anche questo testo lo riproduco dall’edizione a cura di Crimi (2010, pp. 246-7). Su Baldassarre ora si può vedere anche Canova (2017, pp. 137-42).

19. Un caso istruttivo è quello studiato da Nicoletta Marcelli per Domenico da Prato e Antonio di Meglio: cfr. Marcelli (2010, in particolare pp. 244-50) e Decaria (2008a, pp. 318-9). Lo stesso Petrarca non mancò di comporre una «responsio sera valde» al sonetto indirizzatogli da Giacomo Colonna (Se le parti del corpo mio destrutte, a f. 1r del Codice

degli abbozzi): il responsivo Mai non vedranno le mie luci asciutte (Rvf 322) fu infatti

di questo genere di testi strutturati per sequenze di impossibilia poteva

favorire la nascita di risposte abusive e un sonetto fortunato come questo rappresentava un pretesto ideale per aderire a una tradizione ben nota e riconoscibile. Infatti, se osserviamo bene la serie in cui il sonetto di Silla s’inserisce nel codice Rossiano non è difficile riconoscere, nelle sue stret-te vicinanze, almeno un altro paio di stret-testi di questa natura, la cui genera-le adespotia conferma la ragione della sequenza stessa20. Senza contare, ai fini dell’attribuzione di Sarà ’n Silla pietà, che la fama di Feliciano – di

cui sono documentati rapporti diretti con Baldassarre da Fossombrone – come rimaneggiatore di testi altrui è piuttosto solida21.

Siamo sconfinati, seguendo i fili della tradizione manoscritta, in pieno Quattrocento, tra oscuri rimatori, copisti di dubbia fama, componimenti scritti o disposti successivamente “in serie” e, soprattutto, vastissime tradi-zioni manoscritte. Davvero vale la pena, per giungere a Petrarca (o almeno nei suoi dintorni), sobbarcarci tutto questo lavoro? È questo il prezzo che si paga nell’affrontare la tradizione della lirica italiana dei primi secoli, gio-iosamente priva di soluzioni di continuità cronologiche, restia a frapporre barriere geografiche, per sua natura poco o per nulla rispettosa dell’auto-rialità dei testi.

Ovviamente, come si diceva, esistono necessità di lavoro che impongo-no di procedere per gradi e di definire delle priorità. E questo sonetto si-curamente non è una priorità, se si punta a Petrarca. Anche perché è molto probabile che in questo e in altri casi un’esaustiva recensio, insieme a

un’ade-guata ispezione linguistica e stilistica, non risolverà il problema con la pe-rentorietà che si vorrebbe, e anche il confronto puntuale con i corpora

sicu-ri dei vasicu-ri contendenti, data la natura formulare e convenzionale di questa poesia, non basterà a dare alla questione una risposta risolutiva.

Il punto di metodo è delicato. È giusto e necessario appellarsi, in casi co-me questo, o magari anche in altri co-meno disperanti, al criterio della lectio dif-ficilior (mai avulso, però, da una messa a fuoco dei rapporti fra i testimoni

quanto più precisa possibile22): della sua efficacia sono testimoni, fra gli altri, casi come quello del sonetto già incluso nella silloge solertiana El lampeggiar