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VITA E OPERE DI GUIDO CAVALCANTI

Guido Cavalcanti è un poeta fiorentino vissuto tra il 1258 circa ed il 1300 dal cui modo di fare poesia Dante ha preso le mosse, potendone ammirare il solido impianto concettuale.

Figlio di Cavalcante de’ Cavalcanti, Guido Cavalcanti faceva parte di una importante famiglia magnatizia schierata con i guelfi bianchi capeggiati dalla famiglia dei Cerchi. Con scopi di riappacificazione tra le parti, nel 1267 fu stabilito il fidanzamento del poeta con Bice di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina. Da Bice Guido ebbe i due figli Tancia e Andrea.

Il poeta partecipò attivamente alla vita politica fiorentina fino a quando nel 1293 furono promulgati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che esclusero i rappresentanti della vecchia nobiltà dall’assegnazione di cariche politiche. Nel 1300 si trovò coinvolto in violenti disordini scoppiati tra le due fazioni cittadine dei guelfi bianchi coalizzati intorno alla famiglia dei Cerchi e dei neri della fazione dei Donati: i capi delle due parti furono condannati all’esilio e tra questi c’era anche Guido che fu mandato a Sarzana con un provvedimento datato 24 giugno 1300; tra i priori che lo firmarono c’era anche Dante. A Sarzana Cavalcanti si ammalò di malaria e per questo fu rimpatriato; morì pochi giorni dopo essere tornato a Firenze il 29 agosto 1300.

L’immagine che abbiamo di Cavalcanti quale personaggio aristocratico, solitario, collerico, sprezzante del volgo, chiuso sdegnosamente nelle sue meditazioni ci deriva da Boccaccio che lo fa protagonista di una novella del Decameron narrata all’interno della sesta giornata dedicata ai leggiadri motti; di Cavalcanti lo scrittore certaldese scrive:

oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale […], sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron VI 9, 8-9)

Nella novella si racconta che la brigata di messer Betto Brunelleschi decise un giorno di importunare Cavalcanti che passeggiava per Firenze tra grandi sepolcri di marmo; gli uomini a cavallo lo provocarono con le seguenti parole:

Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?

Egli diede una sibillina risposta:

Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace.

Tale risposta fu compresa da Betto che la spiegò ai compagni: Guido comparava loro ai morti che riposavano nelle arche in quanto, non essendo letterati, come i morti non pensavano. L’arguta risposta colpì la compagnia che decise di non disturbare più il poeta.

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Cavalcanti si inserisce all’interno della corrente letteraria dello Stil novo di cui assume uno dei

topoi più comuni, l’attribuzione esclusiva ai cuori gentili della capacità di recepire il messaggio

amoroso: il poeta si rivolge infatti al pubblico colto costituente la nuova nobiltà, fondata su base culturale anziché di sangue.

Tematica unica dei suoi cinquantadue componimenti che ci sono giunti è l’amore di cui parla attraverso il linguaggio tecnico della filosofia aristotelica ed averroistica. Egli ha una visione tragica di questo sentimento poiché lo ritiene una passione che allontana l’uomo dalla ragione e lo porta alla morte scomponendolo nelle diverse funzioni vitali che egli definisce “spiriti”.

Nella canzone dottrinale Donna me prega il poeta ha modo di esporre con dovizia di particolari la sua concezione amorosa che poi possiamo riscontrare in numerosi altri componimenti di natura non teorica.

La personificazione è la figura di pensiero più ricorrente nel canzoniere cavalcantiano: le varie componenti della condizione dell’innamoramento (gli occhi, il cuore, la mente) acquistano nelle poesie cavalcantiane un’individualità autosufficiente, oggettivandosi e personificandosi. L’oggettivazione coinvolge anche la scrittura che diventa autonoma rispetto al poeta: Cavalcanti affida alla ballata Perch’ i’ no spero di tornar giammai il compito di andare a rendere omaggio alla donna e gli strumenti scrittorii prendono voce nel sonetto Noi siàn le triste penne sbigottite. Numerosi testi cavalcantiani sono caratterizzati dalla teatralizzazione: lo stato umano è visto come un campo di forze in atto ed in perenne conflitto e nello spazio scenico avviene la disintegrazione degli elementi dell’io.

Cavalcanti predilige come forme metriche il sonetto e la ballata, di lunghezza breve, mostrando estraneità ai discorsi lunghi, nella tendenziale contrazione divulgativa della sua voce.174

Esemplificativo della concezione amorosa cavalcantiana può essere il seguente sonetto:

Voi che per li occhi mi passaste ’l core e destaste la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore. E’ vèn tagliando di sì gran valore, che’ deboletti spiriti van via: riman figura sol en segnoria e voce alquanta, che parla dolore. Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse: un dardo mi gittò dentro dal fianco. Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse

veggendo morto ’l cor nel lato manco. (Rime XIII)

In questo componimento Cavalcanti descrive gli effetti devastanti che lo sguardo della donna ha su di lui: il poeta viene svuotato di ogni vitalità; i vari organi e facoltà psichiche se ne vanno sotto

174 Dante invece nel suo percorso poetico fa esplodere lo strumento comunicativo, passando dal sonetto alla ballata

alla canzone al continuum diegetico della Commedia; egli approda progressivamente a forme di discorso meno legate all’emergenza esclusiva dell’io lirico, più idonee ad accogliere un proposito di effettiva presenza e intervento nel reale.

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forma di deboli spiriti e ciò che rimane della sua persona è l’aspetto esteriore e la voce che si lamenta. Il dramma della passione d’amore si traduce in un’azione scenica di battaglia: Amore è rappresentato come un guerriero potente che uccide il nemico colpendolo con una freccia al cuore.

CAVALCANTI NELLA COMMEDIA

Guido Cavalcanti morì il ventinove agosto del 1300 e quindi non poté essere collocato da Dante quale anima all’interno della Commedia, essendo ancora vivo nel periodo in cui Dante collocò il suo viaggio nei tre regni ultraterreni, ovvero la settimana di Pasqua dell’anno del primo Giubileo175. Ciononostante l’Alighieri ebbe modo di ricordare all’interno del proprio capolavoro quello che ai tempi della Vita nova aveva definito come suo “primo amico” (VN XXV 10) in due episodi aventi in comune l’intento di rendere omaggio al grande poeta che lo ha preceduto e di chiarire contemporaneamente la propria superiorità.

CAVALCANTI NEL CANTO X DELL’INFERNO

Nel canto IX dell’Inferno Dante e Virgilio riescono ad attraversare la porta della città di Dite e si ritrovano nel VI cerchio infernale che si presenta come una landa disseminata di sepolcri arroventati da cui escono i lamenti dei dannati; Dante apprende da Virgilio che nel VI cerchio sono puniti gli eretici. Possiamo notare che il contrappasso si adatta ad hoc solamente agli epicurei176, coloro “che l’anima col corpo morta fanno” (IF X 15): infatti costoro vedono concretizzata nella propria vita eterna l’idea che in vita avevano della morte dell’anima insieme alla morte del corpo; la loro anima si trova, proprio come se fosse morta, in una tomba177 che, precisa Virgilio all’inizio del canto X, si chiuderà per l’eternità dopo il giudizio universale. Il fatto che ciascun sepolcro sia circondato dalle fiamme allude alla punizione cui erano destinati gli eretici nel Medioevo, ovvero il rogo.

Nel canto X Dante e Virgilio hanno modo di incontrare due eretici legati da parentela178 e da una sostanziale fede nelle capacità dell’uomo che si sostituisce alla fede in Dio: Farinata degli Uberti, grande capo ghibellino di Firenze, confida nelle capacità politiche dell’uomo, come in una specie di immortalità terrena; Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del poeta Guido, confida nell’ingegno

175 Dante si smarrisce nella selva oscura nella notte del giovedì santo del 1300 (sette aprile), comincia il viaggio

infernale la sera del venerdì santo (otto aprile) e lo conclude la sera del sabato santo (nove aprile), comincia l’ascensione al Purgatorio la domenica di Pasqua e la termina il mercoledì dopo Pasqua (tredici aprile), giorno in cui avrà modo di visitare in una dimensione fuori dal tempo il Paradiso.

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Ricordiamo che Epicuro era visto nel Medioevo come il prototipo degli atei, benché in realtà egli non negasse l’esistenza degli dei ma li vedesse imperturbabili, estranei agli avvenimenti umani, esempio di ideale atarassia. Il contrappasso, che richiama dunque alla mente il simbolo medievale degli eretici, mal si adatta ad altre eresie maggiormente diffuse all’epoca, come quella monofisita che nega la natura umana del Cristo, riconoscendo in lui solo quella divina.

177 L’uso del termine “arche” da parte del pellegrino Dante (IF IX 125) sottolinea per contrasto la disperata condizione

dei dannati, essendo usata la parola per indicare, oltre che i sarcofagi, anche la cassa di legno (Arca dell’Alleanza) in cui Mosè pose le Tavole della Legge e l’imbarcazione con la quale Noè si salvò dal diluvio universale. Dio andò in soccorso degli Ebrei fornendo loro le Leggi da seguire e suggerì a Noè di costruire una nave per fronteggiare il diluvio universale mentre degli eretici non si cura più.

178 Sono consuoceri. Il figlio di Cavalcanti, Guido, sposerà per motivi politici la figlia di Farinata, Beatrice, nel 1267. Alla

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umano, unico requisito che ritiene necessario per poter intraprendere un viaggio ultramondano in vita; i due dannati mostrano inoltre di essere ancora attaccati alle vicende terrestri: Farinata soffre meno per il tormento infernale che per la sconfitta della sua parte politica179, al ricordo dunque di quello che avvenne sulla terra, e Cavalcante “supin ricadde” (IF X 72) quando crede di aver appreso la notizia della morte del figlio, mostrando di non confidare nella speranza di vita eterna. Dante Della Terza, commentando i lavori di Auerbach, scrive:

La verità è che in questa sofferenza ancorata alla vita si realizza la sua figura terrena di eretico, e ci pare che qui l’interpretazione dello Auerbach ci aiuti meglio a capire il grande episodio dell’Inferno.180

Se andiamo a vedere le biografie dei due personaggi, meglio possiamo comprendere il motivo per cui Dante li ha bollati come eretici.

Manente di Iacopo degli Uberti, detto Farinata, era un capo ghibellino fiorentino. Nel decennio del 1250-1260 a Firenze durante il governo del “primo popolo” era saldamente insediata la parte guelfa e gran parte delle famiglie ghibelline, compresi gli Uberti, fu costretta ad andare in esilio. Farinata riparò a Siena dove riorganizzò le forze della sua fazione e nel 1260 fu tra i principali artefici della battaglia di Montaperti in cui i ghibellini, appoggiati da Siena e dal principe Manfredi, sbaragliarono l’esercito guelfo fiorentino. Tale sanguinosissima battaglia fu vista come un conflitto di Firenze contro Siena e Manfredi e per effetto di Montaperti il guelfismo venne a sovrapporsi e ad identificarsi a Firenze con lo stesso patriottismo. Riunitisi i capi ghibellini ad Empoli, Farinata si oppose alla distruzione della propria città che costoro avevano decretato181 e rientrò con la parte vittoriosa in Firenze, dove poi morì nel 1264.

Il ghibellinismo però non ebbe vita lunga nella città di Dante: con la battaglia di Benevento del 1266 fu assestato un duro colpo alla parte ghibellina (Manfredi venne ucciso) ed i guelfi rientrarono a Firenze definitivamente, bandendo la famiglia degli Uberti per sempre.

Dopo circa vent’anni dalla morte di Farinata, nel 1283 – quando Dante era diciottenne – il francescano Salomone da Lucca, inquisitore dell’eretica pravità, pronunciò la condanna postuma per eresia contro Farinata e sua moglie Adaleta: le sue ossa vennero riesumate dalla chiesa di Santa Reparata ed i beni pervenuti a figli e nipoti vennero confiscati.

Possiamo presumere che la vicenda impressionò molto il giovane Dante, diviso tra l’ammirazione per il grande politico182 e la condanna dell’eretico ed il disseppellimento del cadavere di Farinata può aver agito nella fantasia del poeta quando immaginò per gli eretici la scena cimiteriale.

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Farinata afferma: “Ciò [il fatto che la mia parte politica non sia più riuscita a tornare a Firenze] mi tormenta più di questo letto [la tomba arroventata in cui mi trovo]” (IF X 78).

180 Dante Della Terza, Prefazione a Erich Auerbach, Studi su Dante, p. XV. 181

Farinata lo fa presente a Dante, mostrando di essere unito al poeta nell’amore verso la patria: Ma fu’ io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto. (IF X 91-93)

182 Dante ha già espresso un giudizio positivo verso Farinata nel canto VI, quando manifesta a Ciacco il desiderio di

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Dobbiamo tenere presente che l’accusa di eresia era sovente mossa contro i ghibellini che, come gli eretici, lottavano contro la Chiesa, gli uni per la sua ingerenza politica e gli altri per questioni dottrinarie. La convergenza delle finalità aveva determinato la confusione tra le due categorie, alimentata naturalmente dalla propaganda guelfa; Dante però non cade nell’errore di identificare i ghibellini con gli eretici ed infatti pone accanto al ghibellino Farinata il guelfo Cavalcante.

Per quanto riguarda l’eresia di Cavalcante, forse Dante era influenzato dalle voci che circolavano intorno al figlio. Di lui Boccaccio dice che fu

leggiadro e ricco cavaliere, e seguì l’oppinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse e che il nostro sommo bene fosse ne' diletti carnali.183

Benvenuto, parlando del figlio Guido, afferma che

errorem quem pater habebat ex ignorantia, ipse conabatur defendere per scientiam.184

Il canto X dell’Inferno in cui compaiono Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti può essere visto come un’unica scena teatrale divisa in cinque atti, essendoci un’unica ambientazione ed essendo le parti dialogiche preponderanti.

Nel primo atto Dante e Virgilio camminano tra le tombe ed il maestro illumina l’allievo riguardo alla chiusura dei sarcofagi dopo il Giudizio universale e all’identità dei dannati.

Nel secondo atto compare ex abrupto Farinata che, rizzatosi in piedi da una tomba, si rivolge a Dante chiedendogli di fermarsi, avendolo riconosciuto come fiorentino; lo identifica come avversario, dopo aver appreso il nome della sua famiglia e tra i due comincia un battibecco185 riguardante il numero di espulsioni da Firenze delle proprie rispettive parti.

Nel terzo atto fa timidamente capolino da una tomba Cavalcante de’ Cavalcanti, probabilmente inginocchiatosi; egli domanda a Dante come mai suo figlio Guido non è con lui e, vedendolo esitare, pensa che il figlio sia morto. Di questo atto centrale parleremo meglio in seguito, essendo la parte che ci interessa ai fini del nostro discorso.

Nel quarto atto, dopo il mancamento di Cavalcante, rimangono in scena Dante, Virgilio e Farinata; questi, continuando la discussione con Dante, ne profetizza in modo oscuro l’esilio186, poi chiede il

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni, dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere

se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca. (IF VI 79-84)

183 (a cura di) Giorgio Padoan, Esposizioni…, p. 526. 184

Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, canto X, vv. 61-63.

185 Il dibattito Dante-Farinata è caratterizzato da procedimenti frequenti nelle polemiche e nelle tenzoni medievali: il

vanto dei propri meriti (o delle proprie azioni) e il vituperio o rinfaccio dei difetti (o delle malefatte) dell’avversario.

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La profezia è la seguente:

ma non cinquanta volte fia raccesa

la faccia de la donna che qui regge [Proserpina, moglie di Plutone] che tu saprai quanto quell’arte pesa. (IF X 79-81).

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motivo dell’accanimento dei Fiorentini sulla propria fazione187 e, avendo appreso che la ragione consiste nella strage di Montaperti, si difende dicendo che lì erano in molti, mentre era solo quando ad Empoli volevano radere al suolo la sua città. Successivamente Farinata assume la funzione didascalica di spiegare che i dannati vedono il futuro ma non il presente mettendo in evidenza che la loro conoscenza si annullerà dopo il Giudizio Universale, quando non esisterà più il futuro. Dante capisce dunque come mai Cavalcante non era informato sullo stato del figlio ed invita Farinata a rassicurarlo del fatto che Guido è ancora in vita. A domanda di Dante, il capo ghibellino cita altri due dannati presenti nel cerchio ed infine scompare nel sepolcro.

Nel quinto ed ultimo atto Dante e Virgilio rimangono soli e, mentre si avviano verso il cerchio successivo, il maestro invita il discepolo rattristato dalla profezia di Farinata ad attendere l’incontro con Beatrice per conoscere il proprio futuro.

La scena del canto X dunque si apre e si chiude in modo circolare e, come se fossimo a teatro, in ogni atto c’è l’aggiunta o la sparizione di un personaggio; le figure di Farinata e di Cavalcante sono costruite per contrasto, di modo che grandezza dell’uno e piccolezza dell’altro si illuminano a vicenda. Possiamo affermare che essi vivono – senza che per questo occorra ricercare alcuna significazione o gradazione simbolica – in un’organica e dialettica unità creativa.

Farinata è un magnanimo; Dante costruisce l’immagine della sua monumentale grandezza, fisica e morale insieme, in vari momenti successivi. Il ghibellino si erge all’improvviso dal proprio sepolcro interrompendo il colloquio tra Dante e Virgilio con parole cortesi ma ferme; ad una parziale ammissione di colpa sul proprio operato fa seguire la coscienza di un nobile impegno politico. Dante mostra di avere un po’ di soggezione verso la sua figura statuaria che sembra avere “l’inferno a gran dispitto” (IF X 36) ed ha bisogno della sollecitazione di Virgilio per avvicinarsi al suo avello. Farinata infatti nella sua imponenza sembra una tipica statua a mezzo busto: egli si erge “col petto e con la fronte” (IF X 35), le parti più nobili del corpo umano, a esprimere insieme la possanza fisica e la forza morale.

Il ghibellino non si lascia impietosire dal dolore paterno di Cavalcanti e, dopo che il poveretto si accascia nella tomba, continua imperturbabile il proprio improperium. Concluso il dialogo con Dante, sparisce spontaneamente dalla vista del poeta, a differenza di Cavalcante che si lascia travolgere dal forte sentimento di dolore.

Il padre di Guido mostra solamente la testa fino al mento ai due viaggiatori e ciò fa presumere a Dante che si sia messo in ginocchio; la sua figura risulta ancor più sminuita di fronte allo svettare sdegnoso di Farinata. Le sue angosciose domande sul figlio pronunciate “piangendo” (IF X 58) contribuiscono a formare una figura patetica e disperata; al creduto annuncio della morte del figlio

Tenendo presente che Proserpina era identificata nel mito antico con la luna, possiamo parafrasare i versi nel seguente modo: non passeranno cinquanta mesi (quattro anni e due mesi) prima che tu apprenda quanto sia difficile la capacità di tornare in patria. In effetti nel giugno del 1304 erano falliti i numerosi tentativi degli esuli di parte bianca di rientrare con la forza a Firenze, Dante aveva deciso di “fare parte per se stesso” e la situazione gli faceva chiaramente comprendere la difficoltà di rientrare in patria.

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Dante manifesta la propria avversione alle leggi che rendevano corresponsabili i consanguinei delle colpe dei padri. Qui si augura che i discendenti di Farinata possano trovare pace (IF X 94), nel canto di Ugolino, rivolgendosi a Pisa, depreca il fatto che insieme al conte morirono imprigionati nella torre i suoi figli e nipoti (IF XXXIII 85-90). Anche il poeta aveva dei figli che, come lui, furono banditi da Firenze e sente quindi il caso suo personale vicino a quelli di Farinata e di Ugolino.

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balza in piedi per poi cadere riverso nel sepolcro e non alzarsi più, lasciando dunque come unico protagonista della scena il maestoso Farinata, estraneo e insensibile al dolore di Cavalcanti.

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