• Non ci sono risultati.

Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo

1. Premessa

La pubertà, ovvero il periodo della vita indi-viduale durante il quale si manifestano per la prima volta lo sviluppo e l’attività delle ghian-dole sessuali maschili e femminili, è comune-mente considerata punto d’arrivo dell’età in-fantile e punto d’inizio dell’età adulta. La pro-duzione di sperma nell’uomo e la comparsa del menarca nella donna, prima ancora che altri se-gnali di crescita adolescenziale, segnerebbero il passaggio individuale dalla fanciullezza alla maturità, mentre i rituali di iniziazione pubera-le, osservati presso numerose società, convali-derebbero agli occhi della comunità l’ingresso entro il raggruppamento sessualmente diffe-renziato degli adulti1.

In realtà le cose vanno diversamente, poiché non soltanto alle pratiche rituali è riconosciuto un compito sociale senza dubbio più determi-nante che la valorizzazione dei fatti naturali2– scrive Francesco Remotti «la ritualizzazione non consiste in un riconoscimento dei fonda-menti naturali, […] è la creazione di eventi so-ciali» (Remotti 1981: XXI) – ma è altresì ben difficile che sviluppo puberale fisiologico e riti di iniziazione all’età adulta collimino. Ritualiz-zare significa produrre una sovrastruttura cul-turale ‘relativamente autonoma’ che inevitabil-mente finisce con il divergere rispetto alla na-tura (cfr. Ibidem).

In tal senso, nelle società che praticano ri-tuali di accesso all’età adulta, non solamente possono distinguersi una “pubertà fisiologica” e una “pubertà sociale”, intendendo con la pri-ma la pri-maturazione anatomica dei caratteri ses-suali secondari3e con la seconda l’acquisizione dello status di adulto a motivo del rituale ini-ziatico, ma soprattutto tali riti di iniziazione trasformano la condizione sociale delle persone ‘a prescindere’ dal mutamento operato dalla natura, in modo che il conseguimento della

ma-turità sia primariamente deciso dalla società e non “subordinato alle bizzarrie del caso” (cfr. Lincoln 1983). La pubertà fisiologica non ne-cessariamente rappresenta il punto di partenza della pubertà sociale4; laddove lo sia, sarà co-munque ancora il rituale, non la natura, ad as-segnare all’individuo la nuova posizione e il nuovo ruolo che ricoprirà all’interno della so-cietà, stabilendo il momento a partire dal quale la comunità dovrà considerarlo dotato delle sue più mature funzioni sessuali (Ibidem).

Riconoscendo agli iniziati la posizione sociale di uomo o di donna indipendentemente dai mu-tamenti che la natura opera sul loro organismo, i riti di accesso all’età adulta forniscono alle so-cietà gli strumenti per dominare gli eventi della pubertà fisiologica ed evitare che il loro incon-trollato verificarsi sia causa di sconvolgimento e pericolo per l’intera comunità. I rituali di inizia-zione – potrebbe più esattamente affermarsi con Victor Turner – spogliano del loro aspetto anti-sociale l’accidentale e l’incomprensibile per ri-condurlo entro le coordinate dell’ordine sociale normativo (cfr. Turner 2001).

In particolare, nelle cerimonie di pubertà femminile, le pratiche rituali – e per il loro tra-mite le società – accordano alle iniziate non so-lamente gli status e i ruoli peculiari delle donne adulte, ma altresì le funzioni sessuali e procrea-tive, decretandone l’appropriazione da parte delle fanciulle a prescindere che tale conferi-mento sia anticipato da un’acquisizione effetti-va o simbolica. Così accade per un processo fi-siologico distintivo della maturazione sessuale femminile, che è il ciclo mestruale, e per la so-stanza organica che quel processo produce, ov-vero il sangue mestruale, un sangue da sempre oggetto di attrazione e avversione insieme.

In accordo con l’analisi di Mary Douglas, che largo spazio riserva alla distruttività e alla potenzialità insieme insite negli stati di disordi-ne che scaturiscono allorquando soglie

“proibi-Ri

ce

rc

ar

te” vengano oltrepassate (cfr. Douglas 1993)5, la misteriosa ambiguità che contraddistingue le categorizzazioni culturali del sangue mestruale deriverebbe dal disordine simbolico che par-rebbe essergli peculiare, ovvero dalla sua con-dizione di fluido organico che originatosi all’in-terno del corpo umano fuoriesce dai suoi con-fini inviolabili disgiungendosi dalla sua intima strutturazione. Il sangue mestruale è “forma” e “non forma”, è “essere” e “non essere”, perché scorrendo attraverso l’orifizio vaginale occupe-rebbe una posizione “intermedia” affatto defi-nita a metà strada tra un dentro e un fuori cor-poreo diversamente strutturati. Una sostanza “liminale”, potrebbe dirsi con Victor Turner, impura poiché non classificabile, sede di poteri oscuri che inducono le società all’adozione di attente misure di controllo (cfr. Turner 2001)6, persino – si verifica sovente – dove la simboliz-zazione del sangue mestruale appare lontana da immagini funeste7.

Per rimando, l’ambiguità ascritta al sangue uterino non solamente è veicolo efficace della pericolosità che stigmatizza l’organismo fem-minile nel tempo mestruale, ma ancor più dra-sticamente fa del corpo della donna un corpo congenitamente impuro, contaminante, proibi-to (cfr. Douglas 1993), concorrendo a relegarlo entro gli angusti confini assegnatigli di fre-quente dalla società. È un corpo “aperto” quel-lo della donna, aperto perché sanguinante, aperto e dunque incompleto (cfr. Ibidem)8.

È su questo sfondo teorico che veniamo al-l’oggetto specifico del presente articolo, ovvero il rituale di pubertà femminile celebrato per le fanciulle della Comunità Tamil di Palermo9 al-la comparsa del primo sangue mestruale. Una comunità, quella tamil palermitana, che come le altre comunità tamil del mondo10si costitui-sce a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolo con l’arrivo via via più frequente di interi nuclei familiari in fuga da uno Sri Lanka devastato dalla guerra civile tra il governo e la popolazio-ne singalese da una parte e la popolaziopopolazio-ne tamil dall’altra11.

A Palermo le attività politiche, culturali ed economiche dei Tamil sono guidate dal Comi-tato Coordinatore Tamil Italy che sovente si fa portavoce del controllo esercitato dalla comu-nità sui suoi stessi componenti: una sorveglian-za che il contesto migratorio certamente inten-sifica, perché il confronto, soprattutto da parte dei giovani, con le società dei paesi “ospitanti” rappresenta un’inquietante minaccia. Eppure, per quanto si possa fare dell’appartenenza etni-ca un legame da preservare da “corruzioni”

al-tre, è indubbio che l’odierno inevitabile incon-tro tra mondi culturali eterogenei – universi di per sé niente affatto statici – produca meta-morfosi spontanee che non possono essere evi-tate, senza con questo provocare catastrofiche eclissi. Così è per tutto quanto rappresenti a Palermo l’appartenenza all’etnia tamil, come il rapporto uomo-donna12, la relazione tra Tamil di religione differente13e, non per ultimo, il re-pertorio rituale che i Tamil portano a Palermo dal contesto abitato in precedenza. Ciò a dimo-strazione del fatto che non esistono pratiche culturali immutabili, ma situazioni sociali con-crete, agite da uomini e donne concreti, che reinterpretano e riconfigurano variamente le proprie rappresentazioni, così che l’incontro tra ciò che di una cultura «risiede» e ciò che della medesima cultura «viaggia» (Clifford 2008: 59) dia luogo ad espressioni sociali total-mente nuove.

2. Manjal neer-attu vizha tra induismo e cattolicesimo tamil Manjal neer-attu vizha, o “cerimonia del

ba-gno di curcuma”14, è il rito di pubertà femmini-le cefemmini-lebrato per ogni fanciulla tamil al momen-to del menarca: un rituale di origini presumi-bilmente indiane15, somigliante alle cerimonie di iniziazione femminile attualmente osservate nell’Asia del Sud (cfr. Winslow 1980)16, che dallo Sri Lanka alle comunità tamil del mondo sancisce l’ingresso delle adolescenti nell’uni-verso delle donne adulte.

Come qualsivoglia rito di passaggio è dato in linea di principio da una sequenza cerimoniale tripartita17, così la Manjal neer-attu vizha preve-de che l’inizianda tamil osservi in successione un rito di separazione dal gruppo di apparte-nenza o Nalangu (“pittura”), un rito di segrega-zione nell’abitasegrega-zione familiare o Kudisai (“ca-panna”), un rito di reintegrazione alla società o

Manjal neeru (“acqua di curcuma”; anche

det-to Satangu), in un complesso percorso iniziati-co che la trasforma da fanciulla a donna (cfr. Narayan et al. 2001).

Pur essendosi in passato offerto quale rito so-stanzialmente omogeneo a prescindere dal gruppo tamil dello Sri Lanka presso il quale la celebrazione veniva praticata (cfr. Ibidem)18, la cerimonia del Manjal neer-attu presenta oggi delle varianti che non solamente si collegano ai differenti credo religiosi professati dai Tamil – Induismo, Cristianesimo e Islamismo – e alle differenti concezioni sociali della donna che

quelle tradizioni religiose producono e veicola-no (cfr. Winslow 1980), ma che rispondoveicola-no al-tresì ai molteplici contesti internazionali della diaspora tamil nei quali il rituale viene osserva-to19. Dissomiglianze che in generale non concer-nono la struttura della cerimonia, rivelandosi questa immutata nel tempo e nello spazio (cfr. Narayan et al. 2001), ma che allo stesso modo fanno della Manjal neer-attu vizha un rito inevi-tabilmente diverso a seconda della fede ideolo-gica e religiosa proclamata dai Tamil e a secon-da del quadro sociale e culturale secon-da loro abitato. Vero è che i rapporti tra i Tamil di religione diversa sono costantemente orientati allo scam-bio e per nulla animati da un ostinato interesse alla diversificazione20, com’è vero che le comu-nità tamil del mondo adottano un comporta-mento estremamente tutelare delle proprie tra-dizioni “etniche” di fronte alle culture non tamil con le quali entrano in contatto (cfr. Burgio 2007). Tuttavia, se è indubbio che i sistemi reli-giosi forti influenzano le forme di conoscenza e le rappresentazioni collettive dei gruppi umani distinguendole in misura mutevole da quelle formulate altrove e su basi concettuali differen-ti, altrettanto certo è che la residenza in territo-ri che non sono quelli d’oterrito-rigine e l’incontro tra culture eterogenee producono metamorfosi di varia natura che non possono essere evitate.

In tal senso, da una parte Deborah Winslow sottolinea quanto le immagini tamil della fan-ciulla mestruata siano sorprendentemente di-verse a seconda dei credo religiosi professati e straordinariamente affini alle figure femminili più importanti di quelle religioni (cfr. Winslow 1980)21, dall’altra il rito del Manjal neer-attu as-sume particolarità disuguali a seconda che sia celebrato in Sri Lanka o in qualunque altro con-testo della presenza tamil22.

A Palermo i Tamil induisti e i Tamil cattolici celebrano la Manjal neer-attu vizha in maniera sì somigliante, ma non identica; soprattutto non è identico il modo in cui il rituale è perce-pito, tanto che la cerimonia hindu è avvertita specialmente quale ‘rito di purificazione’, men-tre la cerimonia cattolica è avvertita special-mente quale ‘rito di protezione’.

Ciò che differenzia le due maniere di recepi-re il rituale è anzitutto la dissonante interprecepi-reta- interpreta-zione dei Tamil induisti e dei Tamil cattolici del sangue mestruale in generale e del menarca in particolare: una sostanza potenzialmente peri-colosa per entrambi i raggruppamenti di fedeli, è vero, soprattutto quando si tratta della sua prima comparsa; ma da una parte i Tamil hindu ritengono il sangue femminile più

propriamen-te ‘impuro’ (killa), dall’altra i Tamil cattolici ri-tengono il sangue femminile più propriamente ‘sporco’ (kata), diversità che pare proprio in-fluire sulla connotazione prima che il pericolo assumerebbe. Nel primo caso, infatti, l’“impu-rità” è considerata sorgente di contaminazione sociale, specie per la parte maschile della co-munità, mentre nel secondo caso la “sporcizia” è considerata richiamo individuale di minaccia demoniaca, specie quando la fanciulla perde il suo primo sangue uterino.

In tal senso, l’inizianda tamil induista, “im-pura” e “infetta”, è principalmente un rischio per la comunità di appartenenza, invece l’ini-zianda tamil cattolica, “sporca” e “vulnerabi-le”, è principalmente un rischio per se stessa. Non a caso sono soprattutto i Tamil hindu a fa-re attenzione a che l’inizianda si mantenga lon-tana dagli uomini della propria famiglia per quasi tutta la durata del rituale, come – cosa più generale – sono soprattutto i Tamil hindu ad es-sere meno permissivi nei riguardi delle donne e a richiedere da loro un comportamento privato e pubblico più riservato, sebbene la maggiore tolleranza del Cattolicesimo moderno per l’e-mancipazione femminile si combini, nel caso dei Tamil cattolici, con una cultura che favori-sce il dominio maschile.

Per il resto, Tamil induisti e Tamil cattolici di Palermo dispongono la nascita della “nuova donna” per il tramite di un rituale relativamen-te simile, quantunque la cerimonia conclusiva di riaggregazione sociale conservi la sua funzio-ne originaria di individuaziofunzio-ne del futuro spo-so dell’iniziata più nel rito hindu che in quello cattolico, elemento che ben si spiega con il ruo-lo sociale che l’Induismo assegna alle donne23.

3. Rito del Nalangu

Veniamo pertanto alla ricostruzione della se-quenza rituale tripartita della Manjal neer-attu

vizha così come è osservata dai Tamil di Palermo24. Il rito di iniziazione femminile del Manjal

neer-attu ha dunque inizio nel momento in cui la

fanciulla perde il suo primo sangue mestruale: un evento che i familiari adulti dell’adolescente senza dubbio attendono, soprattutto all’appros-simarsi della sua età puberale, ma che a detta delle donne incontrate è poco o nulla rivelato a colei che in prima persona affronta il mutamen-to fisiologico e più tardi il mutamenmutamen-to sociale.

La ragazza tamil, in sostanza, non è in alcun modo preparata alla comparsa del menarca se non per le scarse informazioni apprese al di

Ri

ce

rc

ar

fuori delle mura domestiche. In tal senso Maria racconta divertita:

Io stavo ballando con mio fratello no? Quand’ero piccola mi piaceva, ballavo sempre. A un certo punto mi sono fermata e gli dico: «Guar-da, mi esce il sangue, mi sono fatta male». Lui al-l’inizio è rimasto così – a quest’ora pensava: «Ma io non l’ho vista che è caduta!» – poi però l’ha ca-pito subito, infatti è andato da mia madre e gliel’ha detto. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] Mentre Anna ricorda quale shock abbia rap-presentato per lei la vista di un sangue “anoma-lo” e imprevisto:

È successo che mentre ero in bagno ho visto delle macchie rosse. Avevo 12... 13 anni… co-sì… Mi sono spaventata, non capivo da dove ve-niva, pensavo che stavo male. Mia mamma è en-trata e mi ha detto che ero diventata signorina25. Poi quando vengono le tue zie e le altre signore al Nalangu un po’ si dice cosa significa, se no mentre stai a casa tutto quel tempo26la madre te lo spiega, oppure tua nonna. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Luisa conferma quanto poco l’argomento sia discusso in casa e come invece possa più fa-cilmente esser trattato anzitutto in ambiente scolastico:

A scuola… me ne sono accorta in bagno. Già alcune mie compagne l’avevano avuto quin-di qualcosa la sapevo, anche per la maestra. Io però ho aspettato e sono andata a casa all’uscita. E mia madre! Sempre a dirmi: «Ma perché non mi hai chiamato? Ma perché non mi hai chiama-to?». «E tu perché non me l’hai detchiama-to?». Perché forse dovevo andare a casa subito27. [Luisa, Pa-lermo 11 novembre 2009]

La mamma della fanciulla si preoccupa a questo punto di allontanare la figlia dalle occu-pazioni ordinarie peculiari delle ragazze di gio-vane età e di invitarla a sedere in un angolo ap-partato dell’abitazione familiare fino a quando non avrà luogo la celebrazione del Nalangu, che significa “pittura”, in riferimento alla colo-razione del corpo dell’inizianda effettuata dalle donne invitate dalla madre a intervenire alla ce-rimonia. Così spiega Anna:

Ti siedi in un angolino così non tocchi nes-suno28e aspetti che vengono le altre signore. Di solito al Nalangu vengono tutte le zie, le nonne, tutte le parenti femmine, e vengono anche le amiche più strette della madre o quelle che abi-tano vicino e che lo sanno. Può capitare che ven-gono anche le ragazze, però solo quelle che già sono signorine, anche se la maggior parte sono delle signore sposate. Perché nel frattempo tua mamma o tua nonna lo dicono che sei diventata signorina! [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Analogo il resoconto fornito dalle donne che contrariamente ad Anna, la cui religione è indui-sta, professano il credo cattolico, malgrado esse riferiscano di essere state invitate a sedere in di-sparte più per la propria incolumità che non per la salvaguardia dei propri familiari:

Io per esempio mi sono seduta dietro il di-vano così ero più riparata e nel frattempo mia mamma chiamava delle mie zie e si mettevano d’accordo per fare il Nalangu. Mia nonna è a Jaf-na, però se era a Palermo anche lei veniva. E an-che altri miei parenti non sono a Palermo, però l’hanno saputo tutti29. [Maria, Palermo 26 ago-sto 2009]

La cura maggiore della madre della fanciul-la, cosa che tuttavia si verifica specialmente nel caso che la famiglia professi la religione indui-sta, consiste nel rivolgere l’invito di partecipa-zione al Nalangu anzitutto alla moglie del fra-tello o alla sorella del marito (rispettivamente zia materna acquisita e zia paterna della ragaz-za), figure destinate con tutta probabilità a di-venire future suocere dell’inizianda. A questo proposito Anna specifica:

La cosa importante, comunque, è che vengo-no o la moglie del fratello di tua madre o la sorel-la di tuo padre. Figurati che delle volte è successo che se abitano in un’altra città partono e vengono qui, anche se questa cosa di solito si fa più per la festa30, così partono tutti31, perché il Nalangu de-ve essere organizzato presto, quando arrivano le mestruazioni, e poi devono venire solo le femmi-ne. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Le donne la cui religione è quella cattolica, e il cui sposo non può essere scelto tra i paren-ti, sottolineano certo l’importanza della pre-senza delle familiari al Nalangu e alla Manjal

neer-attu vizha in genere (sono soprattutto

queste ultime ad assistere la madre nell’istru-zione dell’inizianda al comportamento previ-sto per ciascuna donna), ma nulla riferiscono in merito al ruolo di rilievo rivestito dalla zia materna o dalla zia paterna.

Le vedove, tradizionalmente ritenute figure “di cattivo augurio”, sono escluse dalla parteci-pazione al Nalangu e dall’intera cerimonia pu-berale soprattutto qualora la famiglia dell’ini-zianda osservi la religione induista. Ciò nono-stante, tutte le intervistate esprimono una profonda disapprovazione nei riguardi della suddetta prescrizione, evidenziando come il ri-fiuto sociale cui tali donne sono generalmente costrette si converta a Palermo nella conduzio-ne di una vedovanza moderatamente riservata. Altra informazione che parrebbe riguardare principalmente le donne di religione induista

(nessuna delle intervistate cattoliche ha preci-sato quanto segue) concerne la scelta della ca-mera della propria abitazione provvisoriamen-te destinata alla celebrazione del Nalangu. In tal senso Teresa chiarisce:

Da noi si usa che a casa abbiamo un mobile delle preghiere32– preghiera si dice puja – dove c’è più spazio. In Sri Lanka si mette nel salotto33, ma qui dove c’è spazio. E il Nalangu si fa lì. Di-cono che così chi viene è protetto dal sangue e che il rituale si fa bene, che non ti dimentichi niente. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

La presenza dell’altare con le immagini delle divinità maggiormente venerate, in breve, non solamente proteggerebbe la casa e le ospiti dal-l’impurità contaminante del sangue mestruale, ma altresì garantirebbe la corretta esecuzione del rito anche in assenza di figure sacerdotali.

Le donne coinvolte giungono quindi all’ora stabilita ognuna portando cibi e bevande che consentono sì l’allestimento di un banchetto co-munitario, ma che soprattutto rispondono al-l’urgenza di offrire alla fanciulla mestruata pie-tanze che rinvigoriscano il suo fisico “debilita-to”. Premura delle commensali, inoltre, sarà quella di donare alla giovane inizianda vivande di buon auspicio per il suo futuro di moglie e di madre. A illustrazione di ciò Francesca afferma:

Tutte queste signore portano le cose per mangiare insieme, specialmente il pukai34, che è di buon augurio. Ora, in Sri Lanka queste cose si mangiano nelle foglie grandi non lo so di qua-le pianta, del banano35mi pare; qui no, si pren-dono i piatti oppure si mangia direttamente dai vassoi. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009] La stessa difformità è evidenziata dalle altre

Documenti correlati