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5.3 L’economia di mercato

5.3.2 Cos’è l’economia di mercato?

5.3.2.1 La divisione del lavoro e il mercato

Adam Smith vedeva già con grande chiarezza l’importanza della divisione del lavoro, di cui abbiamo già visto alcuni aspetti nel capitolo precedente.

È famoso l’esempio della fabbricazione di spilli con cui inizia la sua opera più conosciuta. Un solo operaio che eseguiva tutte le operazioni necessarie per produrre uno spillo dal metallo grezzo, riusciva a fare uni spillo al giorno, e in ogni caso mai più di 20 al giorno. Dividendo le diverse opera-zioni richieste per la fabbricazione di spilli tra dieci operai, si potrebbero fare 48.000 spilli al giorno, cioè 4.800 per ogni operaio. Se i lavoratori vivono della vendita di ciò che producono, è chiaro che con la divisione del lavoro tutti miglioreranno sensibilmente il loro reddito, e inoltre ci sarà sul mercato una maggiore abbondanza di spilli, che saranno disponibili ad un prezzo inferiore. Con la divisione del lavoro tutti vincono, perché con questo sistema produttivo l’efficienza e la produttività aumentano. È l’aumento della produttività che permette l’aumento della popolazione a cui abbiamo fatto riferimento prima.

Adam Smith mette in relazione la divisione del lavoro con la tendenza, propria dell’uomo, a scambiare beni. Gli animali non barattano: non avete mai visto un cane scambiare l’osso che ha con l’osso di un altro cane. Ogni cane ha il suo osso e lo difende con tutte le sue forze. La divisione del lavoro

11L. von Mises, L’azione umana. Trattato di economia, cit. p. 307.

implica lo scambio di beni, poiché nessun uomo produce tutto ciò di cui ha bisogno. Ogni uomo si concentra sulla produzione di una sola cosa, nella quale raggiunge una grande efficienza, e la scambia con le altre cose di cui ha bisogno e che sono prodotte in modo efficiente da altri. Nel capitolo IV, sezione 3.2, abbiamo già spiegato cosa significa la divisione del lavoro per la giustizia sociale.

Ora guardiamo un altro aspetto. La divisione del lavoro si accompagna al libero scambio di beni che chiamiamo mercato. E dal mercato è sorto lo scambio indiretto attraverso il denaro. Lo scambio diretto di un prodotto con un altro prodotto ci renderebbe la vita molto difficile. Una persona che dà lezioni d’inglese e che vuole ottenere del pane, dovrebbe trovare un panettiere interessato a scambiare il suo pane con lezioni d’inglese, o almeno che sia interessato a un terzo prodotto fatto da qualcuno che è interessato a imparare l’inglese, e così l’insegnante d’inglese otterrebbe il pane triangolando. I popoli si rendevano conto che era conveniente fissare una merce quantificabile, gestibile e durevole che servisse sia come mezzo per gli scambi, sia come misura del valore di altre merci e come mezzo per conservare la ricchezza ottenuta. Finì in oro, argento e qualche altro metallo di minor valore, e così nacque il denaro.

Anche se non è il momento di soffermarsi su questo, non bisogna di-menticare che il denaro reale è fondamentalmente una merce che viene scambiata con un’altra merce. In un libero mercato, una persona dovreb-be dare tanti grammi d’oro per tanti litri di latte, e il lattaio dovrebdovreb-be dare tanti litri di latte per acquisire tanti grammi d’oro. Oggi non trat-tiamo oro o argento sul mercato, ma banconote e monete metalliche a circolazione obbligatoria prodotte e distribuite dallo Stato. Per molti an-ni, lo stato ha garantito che ad ogni banconota corrispondesse una certa quantità d’oro. Dopo la seconda guerra mondiale, in seguito agli accordi

di Bretton Woods, tutte le valute erano considerate convertibili in dollari secondo il rapporto del loro valore, e il dollaro americano era convertibile in oro. Il 15 agosto 1971, il presidente Nixon abrogò questi accordi, la convertibilità diretta del dollaro in oro finì, e con essa si perse una certa garanzia di stabilità monetaria. Gli Stati sono in linea di principio liberi di stampare tutte le banconote che vogliono, specialmente per l’autofinanzia-mento. Ma il mercato ha delle leggi naturali che sono difficili da superare:

se si stampano più banconote del necessario, le banconote valgono meno, cioè dobbiamo dare più moneta di prima per ottenere un litro di latte, e dobbiamo dare meno latte per ottenere la stessa quantità di moneta. La moneta perde potere d’acquisto, si produce inflazione, che è un’arma nelle mani dello Stato interventista.

Tutti lo sanno, ed è per questo che gli stati controllano l’inflazione in modo che non diventi troppo alta. Ma quando si entra nel delirio inter-ventista, spesso con il pretesto di promuovere la giustizia sociale, si arriva a cose assurde. Nel 2019 la moneta del Venezuela ha avuto un’inflazione del 7.374,4%; quella dello Zimbabwe del 161,8%; quella dell’Argentina del 53,8%. Le conseguenze di una tale inflazione per la popolazione sono disa-strose. Basti pensare che una famiglia che aveva i suoi risparmi in valuta nazionale argentina, nell’anno 2019 il potere d’acquisto di ciò che aveva risparmiato è diminuito del 53,8%. Se con quello che quella famiglia aveva risparmiato era possibile comprare un appartamento per quando il figlio maggiore si sposa, dopo il 2019 non si può più comprare, perché siccome la moneta nazionale vale meno, il prezzo degli appartamenti aumenta pro-porzionalmente. Il valore economico non può essere carta (banconote). Le valute di questi paesi non sono accettate da nessuno. Non possono essere utilizzate per l’importazione di merci. Sono accettati solo all’interno del paese, perché lo Stato impone la loro circolazione, ma appena è possibile

sfuggire al controllo statale, i venditori chiedono ai compratori dollari o euro (mercato nero), e chi risparmia cerca di risparmiare in dollari, euro o in beni di valore stabile.