Manuela Tola
DONNE, IMPRESA, PROFESSIONI Dopo un secolo dall’entrata in vigore
delle «norme circa la capacità giuridica della donna» (l. 17 luglio 1919, n. 1176)
Sommario: 1. Premessa. – 2. La capacità giuridica della donna nel secolo scorso. – 3. Gli effetti della l. 17 luglio 1919, n. 1176. – 4. Un bilancio a distanza di cento anni: a) il contesto normativo. – 5. (Segue): b) le attività economiche. – 6. Libertà di impresa e modelli di emancipazione femminile.
1. Premessa. – Come più o meno a tutti noto, quest’anno ricorre il centenario dell’entrata in vigore della l. 17 luglio 1919, n. 1176, che aveva introdotto le “Norme circa la capacità giuridica della donna”. Il provvedimento, in particolare, ha abolito l’istituto dell’autorizza- zione maritale la cui previsione, per lungo tempo, ha condizionato la vita economica e professionale delle donne1.
L’evento merita di essere menzionato non solo – e non tanto – per la significatività della ricorrenza ma anche, e soprattutto, in rap- porto all’evoluzione attraversata dai fenomeni economici e dai co- stumi sociali nell’ultimo secolo e le cui manifestazioni sul piano del diritto non possono sfuggire alla sensibilità del giurista, chiamato a vagliarne l’ascrivibilità o meno all’accadimento di cui si celebra l’an- niversario. Nel tentativo di comprendere in che misura l’abolita au- torizzazione maritale abbia contribuito ad ostacolare l’accesso delle donne all’esercizio dell’impresa e delle professioni non può trascu- rarsi come la sua introduzione nel Codice civile del 1865, e di ri- 1Si fa, infatti, spesso riferimento allo «squilibrio riconducibile sia al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese». Cfr. Corte cost. 13 febbraio 2003, n. 49, in Foro it., 2003, I, c. 1318, in materia di parità di accesso alla rappresentanza elettiva.
flesso nel Codice di Commercio, avvenne, non senza accese discus- sioni, sulla falsariga di una disposizione ben più rigorosa contenuta in quella che, all’epoca, doveva apparire come la legislazione liberale per eccellenza: il codice di commercio napoleonico2.
Ispirati ad una concezione di famiglia incentrata sull’autorità ma- schile, gli artt. 215 e ss. del Codice francese, così come l’art. 134 del Codice civile italiano impedivano alla donna maritata sia il compi- mento di atti dispositivi del patrimonio sia la possibilità di stare in giudizio, relativamente a quegli atti, «senza l’autorizzazione del ma- rito», così ponendola in uno stato di incapacità giuridica assimilabile a quella dei minori di età. Tuttavia, diversamente dal Codice francese che concepiva l’autorizzazione maritale come mezzo di affermazione dell’autorità maschile e di salvaguardia del patrimonio familiare, il Codice italiano assegnava all’istituto un’ipocrita funzione di garanzia dell’ordine e dell’unità della famiglia.
Va da sè che in entrambi i casi la previsione normativa scaturiva dalla convinzione, di derivazione antica, dell’incapacità di autonomia della donna legata alla supposta inferiorità fisica e intellettiva, e tra- dottasi in quel postulato dell’infirmitas sexus che ha ispirato innu- merevoli leggi e costituito, per lungo tempo, argomentazione giuri- dica ritenuta idonea a legittimare la discriminazione delle donne sul piano dell’impresa e del libero esercizio delle professioni, perché se è vero «che non tutto ciò che è nei codici vive poi come diritto, in- versamente non tutto ciò che è diritto confluisce nei codici»3.
2. La capacità giuridica della donna nel secolo scorso. – Proprio sull’impedimento dovuto al sesso, infatti, nel 1884 la Cassazione di Torino sentenziò che «l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi», confermando la cancellazione dall’Ordine degli avvocati disposta dalla Corte d’Appello contro Lidia Poët; iscrizione ritenuta «pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di es- sere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia
2L’art. 4, c. com. Napoleone del 1808 che disponeva: «la moglie non può eser- citare mercatura senza il consenso del marito» era stato ripreso dall’art. 7, c. com. 1865, a mente del quale «la donna maritata non può essere commerciante senza il consenso espresso o tacito del marito» e, successivamente, dall’art. 13, c. com. 1882, in cui vi era la previsione che «la moglie non può essere commerciante senza il con- senso espresso o tacito del marito».
ogni qual volta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra»4.
La decisione, assunta pur in assenza di un espresso divieto nor- mativo che fungesse da limite al principio di uguaglianza professato, dall’allora vigente, art. 24 dello Statuto Albertino5, non impedì alle
donne di dedicarsi al diritto mediante la frequentazione degli studi legali pur senza poter esercitare la professione.
Sul piano civile, la supposta inferiorità dovuta al sesso impediva alle donne non solo di occuparsi delle questioni patrimoniali, ma an- che «di transigere o stare in giudizio» relativamente ad esse «senza l’autorizzazione del marito». In tal modo, l’ordinamento istituiva una vera e propria incapacità sostanziale e processuale “di genere” alla quale, però, si sottraevano le donne maritate dedite all’esercizio della mercatura che, dal «consenso generale del marito a questa speciale professione»6, traevano piena capacità.
Solo nel contesto di un «diritto di classe»7 permeato sulla natura
e sulle necessità del commercio, l’autorizzazione maritale a stare in giudizio perdeva, dunque, la sua ragion d’essere, così sottraendo la donna alle rigidità del codice civile8. In questo senso, l’esercizio del-
l’impresa come professione abituale determinava un diritto non uguale o, per meglio dire usando le parole di Galgano, «profondamente di- suguale»9: garantiva, cioè, alla donna maritata piena capacità proces-
suale nel disporre del patrimonio, nell’agire e difendersi in giudizio
4Cass. Torino 18 aprile 1884, in Foro it., 1884, I, c. 341. Richiamandosi al me- desimo principio, nel 1906 la Corte di Appello di Firenze escluse l’iscrizione delle donne nelle liste elettorali, osservando che «la donna ob infirmitatem sexus non ha né può avere la robustezza di carattere, quella energia fisica e mentale necessaria per disimpegnare come l’uomo le pubbliche cariche».
5«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla Legge. Tutti godono egualmente dei diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi». Tale articolo può ritenersi antesignano dell’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana.
6Cfr. B. Mozzoni, voce Donna maritata, in Dizionario pratico del diritto pri- vato, diretto da V. Scialoja, vol. II, Milano s.d., p. 731.
7C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, I, Milano 1935, p. 15.
8B. Mozzoni, op. cit., p. 732; A. Costa, La capacità contrattuale della donna e la donna maritata commerciante nella legislazione statutaria, in Riv. dir. comm., 1914, I, p. 43.
9 F. Galgano, Pubblico e privato nella regolazione dei rapporti economici, in Aa.Vv., La costituzione economica, Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec., diretto da F. Galgano, vol. I, Padova 1977, p. 74.
per tutte le questioni inerenti al suo commercio, così influenzandone la condizione giuridica10. Sicché nella valutazione del sistema, la sup-
posta inferiorità femminile o la salvaguardia dell’unità della famiglia – dalle quali si riteneva che l’autorizzazione maritale traesse varia- mente la sua ratio11– incontravano il limite delle attività economiche
che, contrariamente a quel che avveniva in altri campi professionali – segnatamente l’avvocatura e la magistratura – risultavano immuni da ogni pregiudizio.
3. Gli effetti della l. 17 luglio 1919, n. 1176. – Tale orientamento del sistema ha subito un cambio di rotta con l’introduzione, ad opera della l. 17 luglio 1919, n. 1176, delle “Norme circa la capacità giuri- dica della donna”12.
Tale provvedimento ammetteva le donne «a pari titolo degli uo- mini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici» ma, soprattutto, provvedeva ad abrogare l’odioso istituto dell’autorizzazione maritale che, secondo alcuni, sanzionava «una no- tevole inferiorità della donna maritata», ponendola «in uno stato di quasi assoluta incapacità giuridica»13.
Si pensi, infatti, che solo con la citata legge del 1919 vennero a cadere gli impedimenti alla legittima iscrizione delle donne agli albi forensi ma non all’esercizio della giustizia, atteso che dall’idoneità «a coprire tutti gli impieghi pubblici», riconosciuta dall’art. 7, si sot- traevano quelli implicanti «poteri pubblici giurisdizionali o l’eserci- zio di diritti e di potestà politiche», segno inconfutabile, questo, della 10 Ma incideva anche sulla società coniugale a, prescindere dal fatto che la pro- fessione fosse esercitata solo dal marito. Nel caso di fallimento di questi, infatti, la moglie era ammessa a provare, con atti aventi data certa, la proprietà e provenienza dei beni mobili, così come poteva dimostrare l’esistenza di crediti verso il marito e insinuarsi al passivo del suo fallimento per il prezzo dei suoi beni alienati dal marito.
11B. Mozzoni, op. cit., p. 731.
12 Il provvedimento, a firma dall’allora Guardasigilli Ludovico Mortara, è noto come legge Sacchi, dal nome di Ettore Sacchi, giurista e ministro della Giustizia del Regno d’Italia.
13 Così, O. Sechi, L’emancipazione della donna e l’autorizzazione maritale, in Scienza del diritto privato, 1894, p. 10. L’abrogazione dell’istituto ritenuta all’epoca «dubbio […] frutto di maturo consiglio» da L. Bolaffio, La moglie commerciante dopo la legge 17 luglio 1919, n. 1176, in Riv. dir. comm., 1920, I, 1, era avvenuta molti anni dopo l’insuccesso del progetto di legge presentato nel 1912 da Vittorio Scialoja, ed ispirato al più liberale sistema austriaco che prevedeva che «la moglie non può essere commerciante se il marito ne abbia fatto divieto espresso».
persistente diffidenza verso la capacità femminile nella percezione della ratio e nella valutazione delle norme14, in campi diversi dal commercio.
Così, a dispetto dell’esigenza, chiaramente manifestata in sede di emanazione della suddetta legge15, di mettersi al passo con i tempi in
cui gli ordinamenti scolastici consentivano «il conseguimento di quei diplomi che sono l’immediato e principale presupposto dell’abilita- zione alle cosiddette professioni liberali», le donne potevano eserci- tare la mercatura, coprire cattedre, giungere alla libera docenza e al- l’assistentato in alcune Università e persino fare l’avvocato ma non erano ammesse alla magistratura.
Ne rimarranno escluse fino all’entrata in vigore della l. 9 febbraio 1963 n. 6, che interviene ad abrogare la disposizione impeditiva del- l’art. 7, l. n. 1776 del 1919, peraltro, dichiarata costituzionalmente il- legittima già ben tre anni prima, in accoglimento della q.l.c. sollevata dal Consiglio di Stato su impulso di una donna (Rosa Oliva)16.
Il provvedimento del 1963 attuava una scelta di campo molto cri- ticata da quanti, sul presupposto che la funzione del giudicare ri- chieda «intelligenza, serietà, serenità, equilibrio […] fermezza di ca- rattere, alta coscienza […], senso del diritto, conoscenza della legge e della ragione di essa, […] ed, ancora, animo aperto ai sentimenti di umanità e di umana comprensione, […] coscienza della gravità del giudizio, e della gravissima responsabilità del “giudicare», ritenevano tali caratteristiche ben lungi dall’appartenere alle donne17. Considera-
14 E, in effetti, come si legge nella relazione, il provvedimento normativo era stato determinato più dall’esigenza dell’ordinamento mettersi al passo coi tempi, che dalla volontà di superare una stortura del sistema non sorretta da una valida giusti- ficazione.
15Così la relazione sul progetto di legge della Commissione del Senato. 16Corte cost., sent. 13 maggio 1960, n. 33, che, in accoglimento della q.l.c. sol- levata dal consiglio di Stato, precisava: «la diversità di sesso, in sé e per sé conside- rata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Co- stituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma».
17E. Ranelletti, La donna giudice ovverossia la grazia contro la giustizia, Mi- lano 1957, pp. 5 e 6. Tali considerazioni rispecchiavano la concezione, all’epoca dif- fusa, secondo cui «la donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa», ed espressa
zioni, queste, che dovevano stonare al giurista, non foss’altro in rap- porto a quel principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costi- tuzione, all’epoca in vigore ormai da anni, e nel quale, grazie alla ca- parbietà di Elena Merlin, fu aggiunta la parola “sesso” quale baluardo del divieto di discriminazione dei cittadini davanti alla legge; parola che gli altri membri della Costituente ritenevano superflua perché consustanziale allo spirito della norma, così ignorando la scarsa inci- sività del precedente di cui all’art. 24 dello Statuto Albertino, che do- veva implicitamente contenerla ma che, nei fatti, non aveva impedito il perpetrarsi di innumerevoli discriminazioni.
Da allora, la storia registra un diritto che in larga parte «vive, si forma, evolve e si impone»18 attraverso le donne, bisognose destina-
tarie di provvedimenti di tutela sul piano professionale: l’accesso ai settori economici e alle stesse professioni, non può ridursi ad una mera eliminazione di ostacoli giuridici ma, al contrario, implica la concreta affermazione dei diritti fondamentali «che non debbono re- stare al livello di dichiarazioni meramente teoriche, ma debbono ef- fettivamente incidere sulla situazione economica-sociale dei membri della società»19.
Si tratta allora di realizzare materialmente questi diritti proprio at- traverso l’eliminazione degli ostacoli che ne impediscono la piena af- fermazione nei confronti di tutti gli individui: questo si è tentato (e si tenta ancora oggi) di fare sul piano del lavoro e dell’impresa ove ancora si manifestano le forme più insidiose di ingiustizia economica e sociale perché, nonostante il mutamento del sistema, la storia non sembra essere cambiata.
4. Un bilancio a distanza di cento anni: a) il contesto normativo. – L’antica autorizzazione maritale, che fino al 1919 era necessaria per consentire alla donna l’esercizio della mercatura o la partecipazione in società commerciali, sembrerebbe aver lasciato nell’ordinamento un’impronta culturale difficile da superare. E nonostante l’elimina- zione degli ostacoli giuridici che ne limitavano l’accesso alle attività
dal deputato Antonio Romano nel discorso pronunciato nel 1947 durante i lavori dell’Assemblea costituente.
18 M. Cappelletti, Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, Bo- logna 1994, p. 77.
economiche, sembra ancora oggi persistere una certa diffidenza verso la presenza femminile nel mondo dell’impresa.
Questo dato non può non suscitare stupore se si tiene conto del tempo passato dall’affermazione dei princìpi costituzionali di ugua- glianza dei sessi di fronte alla legge e sul piano del lavoro predicati dagli artt. 3 e 37 Cost., nella cui cornice si sono inseriti numerosi provvedimenti normativi intesi a garantire, con maggiore o minore efficacia, all’iniziativa economica femminile una dignità pari a quella maschile.
A tanto si è rivolta la l. 9 dicembre 1977, n. 903, istitutiva della “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, che ha affermato il divieto di discriminazioni fondate sul sesso nell’ac- cesso al lavoro, nel trattamento retributivo e nella progressione di carriera ed il cui art. 14 – stranamente ancora in vigore in un sistema in cui la parità di genere appare oramai principio immanente e indi- scutibile – stabilisce che «alle lavoratrici autonome che prestino la- voro continuativo nell’impresa familiare è riconosciuto il diritto di rappresentare l’impresa negli organi statutari delle cooperative, dei consorzi e di ogni altra forma associativa»20; legge, questa sicuramente
importante ma inidonea a garantire tutela alle donne perché nei fatti elusa o poco applicata dalle imprese e comunque perché non si può affermare un divieto di discriminazione non sostenendolo con speci- fiche politiche sociali, economiche e giuridiche che garantiscano l’u- guaglianza sostanziale21 ma, soprattutto, non si può inserire nel si-
stema una norma destinata ad essere elusa dalle imprese e, spesso, dalle stesse donne.
Queste politiche si sono successivamente attuate con le cd. azioni positive volte a garantire il riequilibrio delle posizioni sostanziali at- traverso meccanismi di promozione di un maggior ruolo delle donne nelle professioni, spesso ostacolato dalle difficoltà connesse alle re- sponsabilità familiari, alla perdita di competenze legate al reinseri- 20Per l’interpretazione della norma, si rinvia a V. Colussi, Impresa e famiglia, Padova 1985, pp. 88 ss.; G. Cian, sub art. 14, in Nuove leggi civ. comm., 1978, p. 826; G. Tamburrino, Considerazioni sul lavoro della donna nella impresa familiare e nella famiglia dopo la legge n. 903 del 1977, in Giur. agr. it., 1978, I, p. 135; F. Corsi, Impresa familiare. Rappresentanza e disparità dei sessi, in Legisl. econ., sett. 1977-ag. 1978, pp. 38 ss.
21M.V. Ballestriero, La legislazione italiana sul lavoro femminile. Evoluzione e prospettive, reperibile all’indirizzo http://efferivistafemminista.it/2014/11/la-legisla- zione-italiana-sul-lavoro-femminile-evoluzione-e-prospettive/.
mento nel lavoro dopo la maternità e alla perdurante diffidenza per l’affidamento di incarichi di responsabilità. La strada verso questo nuovo approccio, che talvolta pone maggiore fiducia nel mutamento culturale piuttosto che nella coercizione, viene tracciata dalla l. 10 aprile 1991, n. 125, sulla realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, alla quale hanno fatto seguito la l. 25 febbraio 1992, n. 215, di incentivazione dell’imprenditoria femminile come rimedio alla di- soccupazione ma anche come strumento di flessibilità atto coniugare lavoro e famiglia, e la discussa l. 12 luglio 2011, n. 120, che ha in- trodotto le quote di genere nelle società quotate e pubbliche, nel ten- tativo (a mio avviso non pienamente raggiunto) di sfondare il fami- gerato “tetto di cristallo” che, di fatto, impedisce alle donne l’accesso alle cariche apicali dei più importanti organismi produttivi22.
5. (Segue): b) le attività economiche. – Al contrario delle profes- sioni giuridiche in cui la presenza delle donne rappresenta circa la metà (avvocatura) o, addirittura supera la presenza degli uomini (ma- gistratura), nel settore dell’impresa, a dispetto dei numerosi provve- dimenti normativi, si registra ancora oggi una preponderante presenza maschile. Le attività economiche gestite da donne rappresentano, in- fatti, solo il 22% del mercato italiano: risultato sicuramente non ecla- tante ma silenziosamente e faticosamente conquistato, come la storia dell’imprenditoria femminile dimostra.
Nel corso degli anni, infatti, sono state numerose le donne che a diverso titolo, e in contesti in cui il garantismo del legislatore era ben lungi dal venire, si sono impegnate per superare ogni pregiudizio fon- dato sul genere, ponendo al centro del proprio impegno l’effettività dei diritti, la libertà della persona, la dignità. In particolare, meritano di essere ricordate le tante imprenditrici che, anche nella vigenza del- l’autorizzazione maritale, sono riuscite a realizzare con successo ini- ziative economiche facendo dell’impresa un mezzo privilegiato di per- seguimento di finalità solidaristiche, sociali e di giustizia economica. Tra queste Luisa Spagnoli che nel 1907 fondò insieme al marito la storica fabbrica del cioccolato Perugina (si deve proprio a lei il 22 In arg., sia consentito rinviare al mio Impresa e «discriminazione rovesciata»: le quote di genere in mezzo al guado, in Foro it., 2018, V, c. 159 ss. Da ultimo, si segnala la più recente l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1 co. 465 e 466, che ricono- sce il diritto della donna avvocato di opporre lo stato interessante e la maternità come legittimo impedimento a comparire in udienza.
famoso cioccolatino “bacio”!), ed amministrandola dedicò una par- ticolare attenzione alle condizioni di lavoro dei dipendenti agevo- landone il contemporaneo impegno nella sfera familiare attraverso l’istituzione di asili nido aziendali; Rosa Piantanida che, rimasta ve- dova, gestì la nota impresa tessile Bassetti, fondata dal marito, per poi passarla ai figli una volta che ebbero raggiunta la maggiore età e completato un’adeguata formazione professionale; Cora Slocomb, cittadina americana che, una volta stabilitasi in Friuli Venezia Giu- lia diede vita a sette scuole cooperative femminili di produzione di merletti, che dalle Regioni del nord Italia e fino alla Sicilia e alla Sar- degna procuravano lavoro a giovani donne indigenti, sottraendole alle (allora consentite) brutali forme di sfruttamento del lavoro do- mestico con compensi più adeguati, al contempo, offrendo loro un’im- portante occasione di riscatto sociale; Lina Cavazza che, sempre nel campo della produzione dei merletti, con un’organizzazione del- l’impresa improntata a valori etici offriva lavoro a donne prive di