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Donne vittime di tratta

Nel documento REPORT FINALE (pagine 80-83)

La voce delle donne immigrate

9. Donne vittime di tratta

Il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale nel territorio veneto risulta complesso ed eterogeneo. Secondo quanto riferito dagli operatori del Progetto Nave, nella nostra regione, circa il 50% di donne in strada sono di origine nigeriana, esse rappresentano anche l’80% dell’utenza che si rivolge o, più frequentemente, viene segnalata alle unità di crisi e valutazione dello stesso Progetto, presenti in ogni provincia, che hanno il compito di rilevare se vi siano le condizioni di tratta e se le persone vittime di sfruttamento desiderino intraprendere un percorso di fuori uscita aderendo al programma di protezione sociale. Le altre provenienze delle donne vittime di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale sono Est Europa (Bulgaria, Romania, Ungheria e Albania) e Cina; inoltre vi è un 7% di transessuali provenienti principalmente dall’America meridionale.

Nelle province della regione vi sono caratteristiche peculiari rispetto alla presenza di donne vittime di sfruttamento sessuale, “ad esempio la provincia di Treviso nel 2017 è stato l’unico territorio del Veneto dove il numero di presenze dell’Est Europa, in particolar modo romene era più del doppio delle nigeriane” (Operatore Progetto Nave), mentre per quanto concerne la provincia di Verona, l’operatrice di riferimento afferma:

Farei un piccolo inciso su Verona, Verona si discosta un po’ dagli altri territori perché abbiamo una netta prevalenza di nigeriane, diciamo… su 120 teste contate in un mese, 90 sono le nigeriane, 20 l’Est Europa e il resto tutti target minori, abbiamo solo 2 cinesi, molto in là con l’età. (Operatrice Progetto Nave)

Le donne vittime di tratta intervistate ai fini della presente ricerca sono tutte di nazionalità nigeriana, essendo state le uniche a rendersi disponibili per l’intervista, nonostante la facilitazione da parte degli operatori del progetto Nave sia avvenuta con tutti i gruppi nazionali.

Le donne nigeriane intervistate sono giunte in Italia via mare e hanno presentato richiesta di protezione internazionale, per questa ragione le due tipologie “donne vittime di tratta” e “donne richiedenti protezione internazionale” sovente si sovrappongono. Tuttavia, la specificità delle donne nigeriane vittime di tratta consiste nell’essere uscite dalle strutture di accoglienza per richiedenti protezione internazionale, attenendosi a quanto viene richiesto loro dalle reti di sfruttamento che le hanno fatte arrivare in Italia. Una volta uscite dai centri di accoglienza le donne dovranno ripagare il debito contratto con le organizzazioni criminali transnazionali che le tengono vincolate attraverso una menzogna fondata su rituali voodoo (juju), realizzati in Nigeria o in Libia, che hanno l’obiettivo di imporre lealtà e su metodi coercitivi e violenti tipici dello sfruttamento (Maluccelli 2010).

In questo quadro la sessualità femminile è quindi inserita in una struttura

di dominazione e domesticazione che si realizza attraverso un potente connubio di violenza e di ricompensa-valorizzazione per fare accettare la norma sessuale imposta (Tabet, 2004, 68)

Sono quindi le reti criminali a definire in quale territorio la donna dovrà lavorare e ad occuparsi dell’individuazione di una sistemazione alloggiativa. L’alloggio, generalmente un posto letto in

appartamenti condivisi, rappresenta la prima criticità evidenziata dalle donne intervistate. Le donne vittime di tratta non sono mai titolari del contratto di affitto dell’abitazione in cui vivono e nemmeno riescono ad ottenere la dichiarazione di ospitalità da parte dei locatari, questo impedisce loro di iscriversi all’anagrafe della città e quindi di ottenere la residenza e conseguentemente di potersi iscriversi all’anagrafe sanitaria.

Io ho una tessera sanitaria che dura sei mesi, quando scade il mio permesso posso rinnovarla. Molti non sanno che dopo la scadenza dei sei mesi possono rinnovarla. Io sono andata a chiedere la tessera sanitaria e loro mi hanno chiesto l’ospitalità, questo è il mio problema. (Donna di origine nigeriana)

Anch’io ho il problema che mi è appena scaduta la tessera sanitaria e ancora non ho potuto rinnovarla. (Donna di origine nigeriana)

Questa situazione, che coinvolge gran parte delle intervistate, costringe le donne ad accedere ai servizi sanitari con tessere Stp trascorsi i primi sei mesi di durata del permesso per richiesta asilo, data l’impossibilità di rinnovare il documento in assenza di una residenza o un domicilio, e conseguentemente a non poter beneficiare del livello di tutela sanitaria a cui quel titolo di soggiorno darebbe accesso.

Un’ulteriore criticità esplicitata dalle donne intervistate riguarda la non conoscenza dei servizi presenti nel territorio, in particolare le donne hanno affermato di non sapere la differenza tra medico di base, guardia medica, consultorio e pronto soccorso:

Non sappiamo dove andare. Si va al pronto soccorso. Quando vai al pronto soccorso, il medico ti chiede cosa hai, tu rispondi e quello ti dice vai di là o vai di là. (Donna di origine nigeriana). Io non conosco il mio dottore, se non vengo qui da voi (uffici del progetto Nave) vado al pronto soccorso. (Donna di origine nigeriana).

Per me è difficile. Quando sono andata al pronto soccorso e mi hanno detto dove dovevo andare, ho dovuto chiamare qualcuno che con google maps mi ha spiegato dove dovevo andare. Ci ho messo un giorno per trovare quel posto. (Donna di origine nigeriana).

Nonostante le donne intervistate riconoscano nel progetto Nave un punto di riferimento importante,9 l’assenza di orientamento tra i servizi sanitari del territorio si configura come un disincentivo nell’accesso agli stessi. Sovente non viene prestata attenzione a disturbi o dolori che un intervento tempestivo potrebbe ridurre o risolvere, limitando l’aggravarsi o il cronicizzarsi di patologie. Il pronto soccorso viene descritto dalle donne intervistate come la modalità di accesso principale alle cure sanitarie, l’unica alternativa è costituita dagli uffici del Progetto Nave che, seppur non offrano cure mediche, possono facilitare l’orientamento delle donne ai servizi territoriali. La facilità che potrebbe rappresentare un polo unico centralizzato di presa in carico delle problematicità sanitarie non urgenti viene enfatizzata da molte donne, questo emerge con maggiore forza anche in relazione alle gravidanza, poiché anche in questi casi le donne affermano di recarsi al pronto soccorso una volta appurato lo stato interessante:

Una donna incinta va comunque in ospedale, poi li le chiedono se vuole abortire o lo vuole tenere. Bisogna comunque andare in ospedale. (Donna di origine nigeriana )

Un ulteriore nodo critico è costituito dalle difficoltà linguistiche che le donne incontrano nell’accesso ai servizi sanitari. La presenza della mediatrice, operatrice del Progetto Nave, durante gli

9 Le donne prese in carico dagli operatori del Progetto Nave vengono accompagnate alle visite, monitorate nelle vaccinazioni, ricevono formazione sanitaria rispetto alla contraccezione e alle malattie sessualmente trasmissibili.

accompagnamenti genera posizioni controverse tra le donne intervistate: c’è chi ritiene questa presenza fondamentale per poter interagire con i sanitari, un’altra donna afferma invece

quando c’è la mediatrice facciamo prima, quando vado da sola mi fanno aspettare tanto tempo prima di farmi entrare o di visitarmi (Donna nigeriana)

Secondo questa donna la presenza della mediatrice riuscirebbe quindi a garantire una maggiore efficienza nell’erogazione della prestazione e viceversa la sua assenza avvallasse un trattamento discriminatorio da parte dei sanitari. Tutte le intervistate convergono in una posizione:

Per me, si tratta più di lasciarmi imparare l’italiano. Per me non è sempre necessario, magari una volta. Poi vorrei poter andare da sola. Solo nei casi in cui non capisco mi piacerebbe ci fosse la mediatrice. (Donna di origine nigeriana)

Per quello che riesco a fare da sola, preferisco andare da sola. (Donna di origine nigeriana) Se riesco da sola non ho bisogno della mediatrice. (Donna di origine nigeriana)

La presenza della mediatrice appare funzionale quando la conoscenza dell’italiano è ancora limitata, ma diventa superflua appena le competenze linguistiche si sono rafforzate. Il desiderio di autonomia e di indipendenza al fine di esercitare la propria agency s’impone quindi nei discorsi delle donne intervistate come fulcro della propria lotta per il riconoscimento, intesa come quel processo centrale nell’esperienza soggettiva, orientato al benessere, all’autoaffermazione e alla realizzazione di sé nelle dimensioni che ognuno ritiene importanti (Honneth 2002, Toffanin 2015).

Infine, un’ultima dimensione rilevante emersa durante le interviste riguarda la definizione di cosa è prioritario per questo gruppo di donne:

Sorella [riferendosi alla mediatrice] dì a loro [le ricercatrici] che per noi il sistema sanitario va bene e che abbiamo bisogno di altro. Da quel punto di vista siamo OK! Il nostro problema è come possiamo cambiare la nostra vita, i documenti e lavoro. (Donna di origine nigeriana)

Lasciami parlare, specialmente io ho bisogno di lavorare. Non mi piace il lavoro che faccio! Vogliamo andare in un campo, in un centro di accoglienza e aspettare lì i nostri documenti. (Donna di origine nigeriana)

Le erogazioni dei servizi sanitari sono quindi ritenute soddisfacenti dalle donne intervistate. Ciò che viene definito come prioritario risulta essere da un lato, la conclusione della procedura volta a valutare la richiesta di protezione internazionale e il conseguente ottenimento di un titolo di soggiorno che permetta una stabilizzazione della propria esistenza e dall’altro lato, il reperimento di un lavoro che consenta loro di non essere più costrette a prostituirsi. La possibilità di rientrare in un centro d’accoglienza è esplicitata da una donna come possibile soluzione, in questo modo potrebbe beneficiare di un posto letto, del vitto, di corsi d’italiano, corsi professionalizzanti ed eventualmente di tirocini. Purtroppo, come chiarito da un’operatrice del Progetto Nave, la normativa esclude la possibilità di far rientrare in un centro di accoglienza persone che si sono allontanate volontariamente. Questa dimensione evidenzia la miopia della legislazione italiana nel non prevedere soluzioni adeguate per quelle situazioni, come nel caso delle donne vittime di tratta, in cui l’allontanamento dalle strutture sia stato imposto da reti criminali transnazionali. La possibilità di valutazione di ciascuna situazione potrebbe costituire una forma di tutela rivolta a questo gruppo di donne, dato che, come evidenza Lo Iacono (2014, 126), ogni situazione e ogni donna vittima di tratta dovrebbero essere considerate individualmente, considerata l’unicità di ciascun esperienza in cui differenti attori, ruoli e modelli di comportamento, concorrono nella definizione del progetto criminale.

Nel documento REPORT FINALE (pagine 80-83)