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riNDICF

• D E I L I B R I D E L

M E S EB B

N . 11, P A G . 4 7

Letture

Una voce dal crepaccio

di Dragan Velikic

[...]

2. E un film strano la Jugoslavia. Tutto è iniziato con l'amore e la fratellanza e il racconto sembrava dunque appartenere al ge-nere del melodramma. Nessuno si aspettava un tale colpo di sce-na, tipico di un racconto dell'orrore. E questo orrore "diverte" oggi l'Europa e il mondo. Il pubblico è numeroso, ozioso e su-perficiale, anche quando compatisce sinceramente i protagoni-sti del film Jugoslavia. Ma in ogni momento si può spegnere lo schermo su cui si proietta la tragedia dei popoli jugoslavi. Sfo-glio quotidianamente i giornali dei popoli in guerra; esistono an-cora le rubriche che hanno scatenato l'odio. A dire il vero, alcu-ni giornalisti tra i più intelligenti cercano di modificare di nuovo il loro punto di vista. Ora sono contro la guerra, dimenticando di aver fatto parte in prima persona del meccanismo esplosivo quando marciarono tre anni orsono dietro il Messia, senza aver il presentimento che questo Messia fosse lo scrupoloso becchino del popolo serbo.

Non scriverei probabilmente questo testo se, in un modo in-spiegabile dal punto di vista "topografico", non appartenessi ad ambedue le parti in conflitto: sono nato a Belgrado dove vivo tuttora, ma sono cresciuto in Croazia, nella città di Pola, sulla penisola verde dell'Istria dove crescono gli ulivi e dove il sangue bollente dei popoli nervosi inizia pian piano a raffreddarsi a contatto con le rovine romane. Il mio racconto sulla Jugoslavia non è e non può essere un racconto sui generis che accontenta i lettori, non importa se si tratti di un cattolico o di un ortodosso, di un barbaro o di un cittadino, dell'amante della torta Sacher oppure della baklava turca. Più di tutto amo la "pinza" istriana nella quale il gusto amarognolo della scorza d'arancia si mescola con la vaniglia. In questo tragico momento l'unica cosa che pos-so fare come scrittore è di rifiutare ogni upos-so della guerra da par-te di coloro ai quali la guerra serve per protrarre ancora le loro menzogne almeno per qualche mese, forse per qualche anno.

Artisti e intellettuali serbi e croati in numero inaspettatamen-te grande (il che conferma come siano pochi quelli verameninaspettatamen-te dotati) hanno tradito l'autonomia dello spirito e come burattini perfettamente mascherati da pagliacci hanno seguito gli slogan paranoici. Non riconosco la frase abusata che recita "in tempo di guerra le Muse tacciono". Saranno forse i clown della guerra a "liberarmi" dalle Muse? Pur non scrivendo — e chissà quando inizierò un nuovo racconto oppure un romanzo — di una cosa sono certo: non servirò mai il dio Marte. L'atmosfera chiusa della mia coscienza non si lascia raggiungere da nessun sosteni-tore della guerra. So che in questo momento, mentre in Croazia la guerra infuria, per gli scrittori e gli intellettuali serbi è molto più facile essere contro la guerra, tanto più che la cattiva strate-gia dell'armata federale jugoslava e il suo matrimonio con Milo-sevic ha reso ancor più omogenea la parte croata. Ma per i mi-gliori scrittori e intellettuali croati questo è un alibi debole, per-ché un autentico artista non accetta mai il mondo in bianco e ne-ro.

Tra gli artisti e gli intellettuali serbi e croati, che hanno così scrupolosamente accettato le visioni di quel satrapo orientale che parla bene l'inglese, di quel pagliaccio con la fascia d'onore, ci sono coloro che fino a qualche anno fa erano uomini di regime, e che hanno giocato la carta della "jugoslavità", ricevendo pre-mi e benefici e conducendo una vita comoda. Costoro scopriva-no e condannavascopriva-no senza compromessi gli "eretici", quelle per-sone cioè che solo dubitavano dei valori di quel sistema che era MENZOGNA perché dalla menzogna era stato creato. Certo, gli eretici non sono i "dissidenti" di Tito, che sono stati creati secondo le ottime ricette della cucina comunista e che l'Europa ha accettato come.esca. Gli eretici sono quei rari individui rima-sti coerenti con la propria coscienza e col proprio, autentico ta-lento. Sono quelli che anche oggi osservano con indignazione gli eroi da operetta da Lubiana a Pristina, via Zagabria e Belgrado. Sta di fatto che in Jugoslavia ci sono sempre meno uomini as-sennati. Questo numero si sta riducendo ad una setta e la loro persecuzione deve ancora iniziare; essi sono l'ultima diga alla guerra totale e sono quindi un virus pericoloso.

3. L'autore di questo testo non è stato mai comunista e perciò non ha la necessità nevrotica di dichiararsi anticomunista. Non appartiene a nessun partito politico, è di nazionalità serba, nato

e cresciuto in Jugoslavia, però non rimpiange nemmeno un po' la Jugoslavia, perché crede che con la sua scomparsa sarà final-mente "liberato" da quella micidiale demagogia che ha prodot-to la professione, redditizia, di "patriota". Anche oggi molti uomini di cultura serbi e croati vivono l'appartenenza alla na-zione come una qualità di per sé.

Rispetterò le leggi e le culture di tutti gli stati che si creeranno sul territorio dell'attuale Jugoslavia, profondamente convinto che essi non saranno i capricci di governanti da operetta. Altri-menti un'altra Jugoslavia a me non serve, se non è una tavolozza sfarzosa delle diverse culture: comunque sia, questi spazi doma-ni divisi rimarranno nella mia coscienza come indivisibili. Pur-troppo, l'idea della Jugoslavia è consumata per sempre da parte dei comunisti, che prolungano la loro agonia attraverso i loro eredi: i "socialisti" serbi e i "democratici" croati. Tra l'altro, sono loro che conducono questa guerra insensata che non avrà vincitori. Ma è ancora più micidiale produrre odio tra popoli co-sì simili, sebbene non compatibili. In questa guerra le vittime sono gli individui in nome di un NOI collettivo. Un NOI che comprende coloro che hanno vissuto sulla menzogna quasi per mezzo secolo e all'ultimo momento sono sfuggiti alla punizione, dividendosi e rifugiandosi nelle proprie nazioni, mettendosi an-che là a capo della "rinascita". Dunque, come nel film II ballo dei vampiri di Roman Polanski, il MALE si è allargato nel mon-do, nella Slovenia, nella Croazia, nella Serbia... Gli eredi della Jugoslavia di Tito possono creare solo un unico sistema

possibi-le...

[...]

5. All'inizio di questo testo ho detto che il mio racconto non appartiene a nessun genere, e così non soddisferà coloro che cer-cano il terreno per la verità nella demonizzazione dell 'altra par-te La caratpar-teristica che apprezzo di più è la tolleranza, la com-prensione per altre culture, costumi e abitudini. Forse me l'han-no insegnato quei l'han-nomi nel cimitero di Monte Ghiro a Pola. Purtroppo la Jugoslavia è stata costruita da uomini a una sola di-mensione e soltanto l'intolleranza poteva creare il mostro che oggi si sta dissolvendo.

Nel momento in cui il comandante partigiano Tito si era pro-clamato Maresciallo e aveva riunito in sé il potere secolare e quello militare, la Jugoslavia si è avviata sulla strada del totalita-rismo. È stata sempre una società semimilitare e l'aria av-velenata che si diffondeva per anni dalle amministrazioni di-strettuali, dai comitati cittadini e dalle circoscrizioni militari, creava nelle persone giovani e intelligenti una strana ribellione. Questa ribellione è stata sempre più forte al nordest del paese che a sudest, se si esclude la galassia Belgrado, il "covo" del co-smopolitismo per il quale i tiranni possiedono la ricetta della di-struzione.

Il punto massimo del mio "tradimento", a cui aggiungo in modo infantile una goccia della mia resistenza, è quel giuramen-to militare "solenne" nel cortile di una caserma di Cuprija, nel febbraio del 1978, quando, facendo inorridire mio padre che stava in piedi insieme con gli altri genitori, non pronunciai le pa-role di giuramento alla patria. Ma, dal momento che più tardi firmai diligentemente il giuramento, questa mia oscura eresia — non accettare cioè di pronunciare quelle parole insensate — si-gnificava qualcosa solo per me e per mio padre. Tuttavia mi pa-reva di avere almeno un po' incrinato quest'armata ideologica, più preoccupata dei rituali fasulli di fratellanza e di unità che della professionalità. Non mi stupiscono per nulla oggi le scon-fitte dell'armata federale jugoslava. Non sono antimilitarista, allo stesso modo come non sono anticomunista, rifiuto soltanto di partecipare, alla fine del X X secolo, al carnevale preparato da un satrapo orientale che, nello stato di coma in cui versa, sogna delirando una Serbia privata, mentre dall'altra parte la Croazia, l'altra "metà" della stessa anima, sogna di diventare un paese democratico, vestito da capostazione di qualche film cecoslo-vacco, con la fascia sul petto, con i guanti bianchi, tentando di fare trucchi da prestigiatore come un generale di Tito. Intorno a questi fantasmi, a queste guide anacronistiche, si è raccolto un seguito di criminali, ma anche di intellettuali. Ma

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non dobbiamo ingannarci: se non ci fossero loro, se ne trovereb-bero degli altri. La tragedia dei popoli jugoslavi sta nel fatto che la casta comunista si è dissolta verticalmente e dopo quarant'an-ni di potere è scappata nelle proprie nazioquarant'an-ni e si è messa di nuo-vo a capo della nuova "palingenesi", trascinando le masse nella guerra nel nome di valori discutibili. Perché, non dovremmo di-menticare, che questi stessi croati e serbi che oggi "salvano" le proprie nazioni — i primi dalla tirannia bolscevica serba, gli al-tri dalla congiura del Vaticano — fino a ieri governavano frater-namente, misurando l'inizio del mondo dall'anno 1941.

La casta governativa è scappata all'ultimo momento davanti ai movimenti nell'Europa orientale che avrebbero potuto porta-re un po' di democrazia in più. Ora aprono i dossier segporta-reti, av-velenano i propri popoli con false verità e demonizzano Tito, dal cui cappotto di Maresciallo sono usciti tutti assieme. Sono penetrati nella coscienza dei loro popoli come un cancro, non avendo nulla da offrire loro se non l'odio: l'odio è così facile, non impegna, di esso si può addirittura vivere per un certo tem-po.

6. Sono cresciuto in Istria, sul litorale croato, là dove cresce l'ulivo e sappiamo che l'ulivo segna il confine del Mediterraneo. Le male lingue dicono che là dove finisce l'ulivo finisce anche il mondo civilizzato. Sbagliato, ma spiritoso. Ho vissuto quindici giorni a Pola e per amici ho avuto gente di tutte le nazionalità, che vivono in questa magica città in fondo alla penisola del-l'Istria. Mi entusiasma da sempre la mescolanza di culture. Sol-tanto dalla molteplicità della mescolanza nasce una nuova quali-tà, e non nelle provette sterili dell'Uno.

Oggi la coscienza primitiva perseguita in tutta la Jugoslavia le persone intelligenti e tolleranti, che sono l'unico impedimento alla guerra totale. E un errore vedere i primitivi solo nei barbari, perché in questo momento in tutta l'Europa libera, ricca e asse-stata, camminano per strada uomini tranquilli e ubbidienti, i quali già domani possono essere infestati dal virus della guerra. Allora essi si metteranno a uccidere in massa, come lo hanno fat-to mezzo secolo fa. Moriranno sui fronti molte persone inno-centi, e tra loro anche qualche Bach, Mozart o Kafka. A Du-brovnik poco tempo fa è morto il poeta Milan Milisic, di nazio-nalità serba, ucciso da una granata dell'armata federale jugosla-va. Dunque anche chi non accetta la guerra, chi non si è votato ma che ha come unica ossessione qualche meta spirituale, perde la vita in guerra. È impossibile fare oggi la pace in Jugoslavia, perché la micidiale preoccupazione di "conservare" la naziona-lità ha unito i primitivi verticalmente. Tutti dimenticano in pra-tica che la mobilitazione è iniziata con i primi meeting a soste-gno di Slobodan Milosevic e con l'avvio trionfale del partito de-mocratico croato (Hdz) verso la "democrazia". La rivolta del popolo serbo in Croazia non è iniziata sicuramente senza ragio-ne, ma a causa degli estremisti dello Hdz. Ci si poteva dunque anche aspettare che i serbi ribelli in Croazia sarebbero stati strumentalizzati dalla politica di Slobodan Milosevic. Ogni cosa accaduta successivamente è soltanto la continuazione della fu-sione.

Oggi non esiste nessuna bandiera, nessuno stemma in questa terra martoriata all'ombra della quale io mi possa mettere. Vi-vendo e crescendo nella Pola mediterranea sono diventato "cor-rotto" dalle proporzioni del tempio di Augusto, dell'anfiteatro (la cui statica è stata studiata anche da Michelangelo), dalla por-ta d'oro, dalla presenza di Joyce, di Ivan Cankar e di tutti gli al-tri uomini famosi e di quelli sconosciuti che sono passati per quella città. I miei sentimenti infantili hanno capito il grido dei disperati che lasciarono l'Istria da profughi dopo il 1945. Da scrittore, più tardi, mi sono identificato con quella gente che non era soltanto italiana, ma anche croata. Nei "liberatori" di Trieste ho visto anche l'altra faccia della medaglia. Soltanto die-ci anni più tardi questi "liberatori" tornavano mansueti nella Trieste commerciale e comperavano ogni cosa che il paradiso comunista non offriva loro. Distruggere è sempre molto più fa-cile. Lavorando al romanzo Via Pola ho inseguito anche le sfu-mature di una coscienza tribale, che domava con forza il mondo mediterraneo. Ci è noto che l'ulivo non deve essere abbattuto. Non so se prima di Via Pola sia stato scritto sullo spazio del-l'Istria dalla prospettiva della coscienza cittadina. Si magnifica-va soltanto la ruralità. Lavorando a questo romanzo non mi so-no identificato soltanto con coloro che eraso-no costretti ad andar-sene davanti a un potere nuovo, davanti ai "liberatori ' parti-giani, bensì ho voluto soprattutto richiamare la quiete mediterranea, consapevole che la mia letteratura in qualche mo-do indiretto distruggeva le "eredità" del primitivismo. Per me non è importante la nazione, bensì l'individuo, il cittadino, che

rispetta determinate leggi. Continuo a credere che un croato e un serbo urbanizzati potrebbero trovare un comune modo di vi-vere. Tuttavia, esistiamo più orizzontalmente che verticalmen-te.

Trascorrendo quest'estate in Istria mi è parso che la gente colta nutra l'illusione che ogni problema può scomparire con il ritiro di QUESTI ufficiali serbi o dell'armata: non fa differen-za, purché li lascino nella loro quiete. Molto presto l'armata la-scerà l'Istria. Dalla Slovenia se ne è già andata, se ne andrà an-che dalla Croazia. Allora sarà scomparso il militarismo? Assolu-tamente no, sarà ancora peggiore. Tutti dimenticano che questo spirito velenoso delle "circoscrizioni militari", questa coscienza primitiva rimane SEMPRE, soprattutto, un prodotto casalingo! Con la dissoluzione della casta governante il MALE si è rifugia-to nelle nazionalità e per quesrifugia-to tutti i popoli jugoslavi saranno contagiati per lungo, lungo tempo dal virus del primitivismo coltivato per quarant'anni come la pianta più preziosa della Ju-goslavia socialista. So che le previsioni non appagano, ma io non faccio previsioni, io constato soltanto come una coscienza pri-mitiva sia alla base di questa guerra insensata.

7. Unica patria dell'artista è l'infanzia; non può farci ritorno. Gli rimane soltanto il continuo ritorno con la mente.

Accanto al sostantivo "scrittore", che è la mia unica profes-sione, non mi serye alcun aggettivo, perché so che gli aggettivi arrivano quando muore il sostantivo "scrittore". Anche oggi al vertice del potere serbo e croato ci sono molti scrittori morti. Tutti insieme formano la fratellanza dei cadaveri che in questa guerra gioca con gli uomini vivi. I mass media ufficiali sono nel-le loro mani, ma credo che non siano morte nel-le voci dal crepaccio.

L'appartenenza a un popolo forma certamente l'individuali-tà, ma questa non è mai una qualità di per sé. Io posso dichiarar-mi soltanto un mediterraneo, nato a Belgrado e cresciuto a Pola. L'intreccio delle circostanze ha fatto che io sia serbo, come po-tevo essere ucraino, italiano o greco. Dante mi è più vicino di quei serbi (qui penso soprattutto ai poeti-sciamani) che hanno declassato il popolo cui appartengo, impedendogli di entrare nella comunità dei moderni popoli europei. Hanno trovato ispi-razione nella politica nazionalista e anacronistica. Molti "sag-gi" cervelli accademici non sono nient'altro che vecchiume, che trova nell'odore della giubba di pelle e nel tendere l'unica corda dello strumento la forza primigenia della poesia. Il mito e il fa-scino dell'origine sono una cosa, ma l'uomo del X X secolo non può camminare per il mondo sventolando il poppatoio che suc-chiava un tempo e formare il mondo sul modello di questo pop-patoio.

La sfera etica di un artista poggia su quella estetica, e pereto per me è logico che gli scrittori serbi ufficialmente riconosciuti come massimi, membri delle diverse organizzazioni del tipo Svi Srbi Sveta (Tutti i Serbi del Mondo), siano autori di opere che sono dei feuilleton romanzati. Non potrò mai vedere l'arte nella celebrazione della tribù e nel culto falsato della vittima. La men-talità montana, come una tenda scura, è piombata su quei demo-cratici che sono riusciti a formarsi negli anni in quella galassia detta Belgrado. Ma l'Europa e il mondo sanno poco, forse nulla di ciò.

C'è una poesia del poeta greco Kostantin Kavafi, dedicata ai barbari che forse non verranno. Purtroppo, nel paese in cui vivo i barbari arrivano sempre, scendono dal terreno brullo dopo le scosse telluriche, portando nelle vene sangue sano e un carattere nervoso. Nel corso della seconda guerra mondiale la nervosa gen-te dinarica costituiva l'asse dell'armata di Tito, ma era ugual-mente presente nelle armate nazionali che combattevano contro Tito. So che nella mia città natale, Belgrado, governa sempre una coscienza tribale che tenta di domare il nocciolo cosmopoli-ta della Serbia. Come nel romanzo Via Pola mi sono richiamato a tutta quella gente mediterranea che ha dovuto andarsene dopo il 1947, così nell'ultimo romanzo Astragan mi sono richiamato a tutti i belgradesi che sono stati liberati della vita dopo la "libera-zione" di Belgrado da parte dei partigiani di Tito. Più tardi, per quarant'anni hanno continuato a sterminare la coscienza citta-dina in nome dell'uguaglianza tribale...

8. Il matrimonio che Slobodan Milosevic ha contratto con l'armata federale jugoslava è fondato su ben noti interessi. Ma il coniuge non poteva prevedere la malattia inguaribile della sua consorte e così la grande dote ora sta nel risanamento. Il feno-meno più allarmante è che decine di migliaia di ufficiali del-l'armata confluiscono nella repubblica che li usa maggiormente, cioè la Serbia. Quando la guerra sarà finita, migliaia e migliaia di giovani ufficiali maturi rimarranno senza posto di lavoro e

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inizierà l'onda del pensionamento. Posso solo immaginare que-sti vigorosi uomini, nel pieno della maturità ma con una coscien-za già definita molto chiaramente, insinuarsi come la muffa nel-le diverse fabbriche, scuonel-le, redazioni giornalistiche, facoltà, nell'editoria e nella sanità e creare una sensibilità micidiale, che trasformerà la Serbia in una grande circoscrizione militare. E magra consolazione prevedere che anche le altre repubbliche re-spireranno un'aria simile. Forse finalmente si sarà avverato il sogno delle canute teste accademiche serbe. Certo, ciò non acca-drà senza resistenza, perché in Serbia, soprattutto a Belgrado e in Vojvodina si è formata negli ultimi decenni una moderna sen-sibilità europea, aperta al mondo, che negli europei non vede soltanto scaltri commercianti che vogliono distruggere il nostro etnos. Dunque, ci troviamo di fronte a quella stessa strada attra-versata a partire dal 1945. La mobilitazione permanente con-dotta in Serbia si convertirà nella coscienza dei "distretti mili-tari". Penso che la variante del fronte dello Srem sia già in atto: questo è il punto più vergognoso della storia comunista, di cui il mondo purtroppo sa poco. Dunque si potrebbe dire qualcosa

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