È ancora molto diffusa l’idea che la diagnosi dei DSA sia di facile e rapida esecu-zione, da elargire ad ogni alunno o studente che afferisce ai servizi specializzati, pubblici o privati, per il solo motivo che va male a scuola.
Sergio Messina*
Dalla introduzione della Legge 170 (ottobre 2010) sono passati quasi otto anni.
Da allora sono state redatte dal MIUR le “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento” (luglio 2011), che, ricordiamo sempre, sono parte integrante della stessa Legge; molte Regioni italiane si sono attivate producendo appositi Decreti Legge regionali e di-rettive, a testimonianza del grande lavoro che in tutto questo tempo si è fatto e si continua a fare. Sul piano scientifico poi in Italia si è sviluppato un grande movi-mento di ricerca che sta consentendo anche di superare quel divario che la lettera-tura italiana subiva nei confronti di quella anglosassone, che fino a qualche anno fa sembrava incolmabile. Era il 2006 quando si conclusero i primi lavori della Con-sensus Conference con la stesura del documento con il quale venivano delineate le prime raccomandazioni per una buona pratica clinica, diagnostica e di presa in carico dei DSA. A questa hanno fatto seguito i Panel di aggiornamento e revisione della Consensus Conference in risposta a quesiti sui DSA (2010, 2011). Nel marzo 2016 un nuovo tavolo di lavoro è stato avviato al fine di rivedere ulteriormente alcuni aspetti clinici relativi ai DSA. Senza considerare poi che nel 2013 il DSM5 ha ridefinito i criteri diagnostici e l’espressività clinica che caratterizzano i DSA.
Eppure, nonostante tutto questo è ancora molto diffusa l’idea che la diagnosi dei DSA sia di facile e rapida esecuzione, da elargire ad ogni alunno o studente che afferisce ai servizi specializzati, pubblici o privati, per il solo motivo che “va male a scuola”. Il primo e grande scoglio da affrontare è fare una netta distinzione tra difficoltà e disturbo. Le statistiche ci dicono che circa il 20% degli alunni italiani mostra discrete difficoltà in più di una materia, un dato certamente allarmante.
Ma, come ci ricordano le ricerche in questo settore, solo il 3-5% degli alunni ha un disturbo specifico di apprendimento. In un interessante articolo pubblicato sul sito di AID, Carlo Di Pietrantonj, statistico presso il servizio di Epidemiologia della ASL di Alessandria, fa un’analisi degli studi che in questi anni sono stati realizzati in Italia, e conclude dicendo che “affermare che la prevalenza dei DSA si aggira fra il 3-5% non appare irragionevole ma prudente, perché i dati sembrano suggerire che la frazione di alunni con DSA sia oltre il 5%”. Ma sottolinea anche che “l’incremento percentuale (assoluto) dei valori di prevalenza rilevati tra l’anno scolastico 2014/15 e l’anno scolastico 2015/16, è contenuto, in media al di sotto del 1%, giustificato con la progressiva crescita della sensibilità del sistema scolastico e della capacità di
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re correttamente i soggetti da inviare alla certificazione.” Il DSM5 ci dice che “la prevalenza dei DSA tra gli ambiti scolastici di lettura, scrittura e calcolo è di 5-15%
tra i bambini in età scolare trasversalmente tra linguaggi e culture differenti. La preva-lenza negli adulti è sconosciuta ma sembra essere approssimativamente del 4%.” Que-sti dati ci dicono tante cose che penso sia bene andare a discutere. Da un lato si sottolinea che il numero di diagnosi in Italia negli ultimi anni fino ad ora ha assun-to conassun-torni regolari e non esagerati, frutassun-to di un lavoro interistituzionale che vede quotidianamente impegnati famiglia, scuola e sanità, che consente anche indivi-duazioni di soggetti a rischio sin dalla scuola primaria, cosa che fino a qualche anno fa era molto meno frequente. E questo ci porta ad un altro punto importante:
l’individuazione precoce di un soggetto con DSA consente un intervento anch’esso precoce in un momento in cui ancora i processi di apprendimento sono in grande evoluzione, così come lo sono anche le aree e le vie neuro funzionali coinvolte. Un precoce ed adeguato intervento può garantire una maggiore possibilità di compen-sazione del disturbo funzionale e l’attivazione e il consolidamento di strategie di apprendimento adatte alle specifiche potenzialità e difficoltà dell’alunno stesso. Il dato messo in evidenza dal DSM5 va letto da diverse angolature: la prima è che in gran parte gli studi a cui si riferiscono e che poi conducono ad un tasso di preva-lenza del 5-15% sono effettuati in zone dove è maggiormente diffusa la lingua anglosassone, notoriamente meno “trasparente” della nostra e che quindi necessita di livelli più alti di automatizzazione dei processi di apprendimento. La lingua italiana è di per se, in confronto a quella anglosassone, un buon sistema compen-sativo perché garantisce da un lato uno stabile rapporto grafema-fonema e dall’al-tro un accesso al lessico e alla parola bersaglio con pochi indizi (un normo-lettore anche non troppo allenato può nella maggior parte dei casi accedere alla parola da leggere già dopo aver letto 1/3 della parola stessa). L’alunno con DSA utilizza mol-to questa strategia che molti definisco (sbagliando!) del “tirare ad indovinare”. Suc-cede spesso che un alunno delle ultime classi della primaria o delle prime della se-condaria faccia errori di “anticipazione” cioè tentare di dare una risposta basandosi su una o massimo due sillabe. Faccio un esempio: la parola da leggere è “castagna”, il bambino inizia a leggere con tanta fatica “cas” e accedendo al suo vocabolario la parola che trova, perché per lui è maggiormente frequente, è “castello”, e questa dice, suscitando spesso le ire o le risate di chi ascolta. Come si fa a dire “castello”
invece di “castagna”. I commenti spesso sono “ecco, lo fai per attirare l’attenzione e fare ridere i compagni”, oppure “ma dove hai la testa, certo se leggi senza stare attento sbagli come sempre”, senza pensare ai commenti dei compagni e ai loro sbuffi ogni volta che lo sentono leggere. Ma non tralascio il senso di frustrazione e di sconforto che può provare chi deve subire tutto questo, perché il disturbo di apprendimento è soprattutto questo. In realtà questo “grave errore di insubordina-zione” altro non è che la dimostrazione di quanto bene funziona il sistema cerebra-le di questo alunno. Quando si cerebra-legge, il cervello utilizza due strategie: una cerebra-lenta che inizia ad analizzare a parola “letteraxlettera”, mentre l’altra rapida contempora-neamente cerca le parole dal suo “vocabolario lessicale”. Se io leggo rapidamente
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(un alunno di V primaria già legge più di 3-4 sillabe al secondo) le due vie cammi-nano quasi parallele e la percentuale che possa “indovinare” la parola è elevata, quindi il suo “sparare la risposta” ha buone probabilità di successo, anche perché la memoria verbale non troppo affaticata (perché legge in maniera automatizzata e quindi con poca fatica esecutiva) gli consente anche di seguire il contesto del brano e, in questo caso si parla di autunno e di caldarroste, e quindi la parola è “castagna”.
Ma se io leggo lentamente (un alunno con DSA in V spesso raggiunge a malapena 1 sillaba al secondo) mentre analizzo con una fatica attentiva ed esecutiva enorme (altro che distratto, mentre legge è costretto ad essere “iper-attento”) la prima silla-ba “ca” e mi trovo uno scoglio insormontabile come la sillasilla-ba “sta” che mi blocca alla prima lettera “s”, ecco che il sistema lessicale che funziona benissimo (perché è parte integrante della cosiddetta “intelligenza” di cui un alunno con DSA è ben dotato) accede al suo vocabolario rapidamente (come quello del suo alunno bravo) e dice “castello”. Ora se io tutto questo lo etichetto come errore e mancanza di ri-spetto, ho perso una grande occasione per “educare” l’alunno con DSA verso una strategia di lettura a lui più funzionale. Qui entra in gioco la Pedagogia che dice che non mi devo fermare a segnare l’errore ma devo capire perché un ragazzo così brillante in altre occasioni quando legge o scrive o fa di conto commette errori così evidenti. Non è pigrizia, perché per fare errori del genere deve metterci molto più attenzione, il pigro magari legge svogliatamente, senza alcun entusiasmo ma con la sola voglia di finire presto. Non è neppure scarso allenamento alla lettura, perché chi sente leggere un alunno con DSA (anche adulto) si accorge spesso che il primo rigo prova a leggerlo anche con una certa velocità e coraggio, ma dopo circa un minuto incomincia a perdere il controllo, “sbanda”, inizia a sbagliare, rallenta, ri-pete parole, cerca soluzioni alternative, salta righe, insomma disperde le sue poten-zialità, perché il sistema non riesce ad automatizzarsi. Un normo-lettore poco alle-nato, all’inizio legge lentamente ma presto inizia a prendere il ritmo giusto, magari legge con poca convinzione e scarso senso della lettura, ma il suo sistema dopo poco ha trovato come per magia una automatizzazione che il non allenamen-to non ha potuallenamen-to disintegrare. È questa la differenza tra difficoltà e disturbo! Ed è una differenza che il docente può apprezzare perché a differenza del clinico ha per questo un grande alleato che è l’andamento quotidiano, quasi punto per punto dello sviluppo degli apprendimenti. Vede quanta fatica deve fare un alunno con DSA per raggiungere livelli di lettura che i suoi compagni neppure “vedono” e quanto disagio crea in lui tutto questo. Molti insegnanti questo la sanno ed educa-no al meglio l’aluneduca-no con DSA ma anche i suoi compagni che spesso trovaeduca-no nelle strategie di apprendimento utilizzate dal loro compagno un valido strumento an-che per loro. L’OCSE sostiene in un dossier 2015, an-che a scuola, l’inclusione dei soggetti in difficoltà, oltre a costituire un’occasione per questi ultimi, fa addirittura migliorare le performance degli alunni ‘più bravi’ o fortunati. Il nostro obiettivo con gli alunni con DSA è rendere il suo apprendimento il più funzionale possibile attraverso l’attivazione di strategie (di insegnamento e di apprendimento) adeguate e per quanto possibile un migliore sistema di compensazione funzionale. Perché
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dal Disturbo di Apprendimento non si guarisce ma è possibile raggiungere un di-screto livello di compensazione. E qui voglio tornare al dato statistico emerso dal DSM5. Come mai in età scolare il tasso di prevalenza è intorno al 5-15% ed in età adulta è solo al 4%. Ricordo che i dati sono in rapporto al numero di diagnosi e che quindi solo nel 4% della popolazione adulta si sono riscontrati elementi clinici tali da indurre a porre diagnosi di DSA. E gli altri che fine hanno fatto? Forse non erano dei veri DSA? Diagnosi errate? Ognuno può pensarla come ritiene opportu-no. Dal canto mio penso che in gran parte appunto “compensano” da un punto di vista funzionale e quindi in età adulta il DSA è rimasto una caratteristica che gli rende dispendioso ed a volte difficoltoso leggere o scrive ma senza causargli troppi problemi (il DSM5 -sempre lui- definisce queste forme di gradi sufficientemente lieve “da rendere l’individuo in grado di compensare o di funzionare bene se forni-to di facilitazioni appropriate”). È possibile quindi che pur avvertendo la fatica nel compiere tali operazioni riconosce che questa non è più tale da costringerlo ad una vista specialistica. Altri magari scelgono lavori che meno necessitano di letto-scrit-tura e che invece stimolano creatività e senso pratico di cui spesso sono ben dotati.
Anche questa è una strategia di apprendimento. In realtà il DSA è ben al di là delle statistiche perché per molti è una vera e propria caratteristica funzionale che più o meno incide sul loro percorso scolastico e talvolta socio-lavorativo, in termi-ni più di fatica, magari di scelta di vita (per esempio scegliere un indirizzo scolasti-co, universitario o lavorativo rispetto ad altri perché meno impegnativo ma che poi spesso dopo si rileva anche meno attinente alle sue aspirazioni e reali attitudini).
Solo pochi di questi accedono ai servizi per un accertamento diagnostico (sarà un bene o sarà un male questo è difficile da dirsi). Ma per altri è un Disturbo che può incidere pesantemente sul rendimento scolastico, ma anche personale, motivazio-nale, sociale e lavorativo (e purtroppo non è una esagerazione) e per loro, come dice un Documento redatto da AID nel novembre 2015, “la certificazione ai sensi dalla 170 deve essere certa, perché da diritto ad usufruire dei benefici della legge, e deve essere esaustiva, cioè contenere tutti gli elementi descrittivi del disturbo che permettano alle scuole di attivare una didattica realmente personalizzata. Deve essere eseguita se-condo i criteri delle Consensus Conference e delle linee guida redatte dall’Istituto Supe-riore di Sanità”.
*Neuropsichiatra Infantile, Dirigente Medico presso la UONPIA di Caltagirone (ASP3 Catania).
Docente in alcuni Master sui DSA. Presidente Associazione Italiana Dislessia
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