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Due modelli di autonomismo socialista (1976-1977)

Si delineano due modelli di autonomismo socialista

(1976-1977)

Craxi e la linea Benvenuto

La comprensione dello «scenario italiano» serviva ai socialisti spagnoli per evidenziare gli errori politici negli ultimi anni dal PSI. L’eccessivo frazionismo di quest’ultimo era considerato dagli spagnoli come il fattore determinante la subalternità a sinistra dal PCI. L’interesse sul tema dell’accentramento dei poteri era reciproco, dato che da parte italiana si guardava al rinnovamento di González seguendone i passi che dal 1976 questi aveva avviato per far fuoriuscire il PSOE dal principio della collegialità. Lo stesso Craxi avrebbe sottolineato in un editoriale per l’Avanti! del giugno 1977 il pregevole sforzo di accentramento dei poteri realizzato dal PSOE, interpretato come esempio virtuoso da emulare100. Oltre che a livello organizzativo, anche a livello strategico i punti in comune tra i due partiti erano più che interessanti. La presenza in entrambi i paesi di affermate culture cattoliche e comuniste imponeva ai socialisti di rivendicare una certa autonomia, che Craxi avrebbe cercato di rivendicare e che lo stesso González avrebbe seguito. Si trattava nello specifico di condurre una lotta politica su entrambi i fronti, all’interno di uno schema di autonomismo socialista che aveva in Riccardo Lombardi e Pietro Nenni due ispiratori101, e in Craxi un convinto

esecutore in questa seconda metà degli anni Settanta. Così facendo, infatti, Craxi pensava fosse possibile affermare il PSI come «terzo polo» dello schieramento politico, facendolo fuoriuscire dalla morsa dell’emarginazione.

In questo comune sforzo di “emancipazione” restavano, però, forti le differenze tra i due partiti rispetto alle loro relazioni con i sindacati. Una relazione che, se nel caso del PSI si era rivelata difficoltosa già dalla fase postbellica, quando il PCI aveva stabilito la sua egemonia sulla CGIL102, nel caso del PSOE si era andata strutturando attorno al vincolo diretto con la UGT. L’assenza di una forte influenza sindacale del PSI era stata alla base del fallimento dei piani riformistici dei governi di centro-sinistra e rischiava ora di permettere al PCI di sfruttare il suo controllo sulla CGIL per accordi di governo con la DC. Ciò nonostante erano ancora vive le voci

100 PSOE e PSI, in «Avanti!», 18-6-1977; B. Craxi, Madrid, Lisbona, Parigi e noi?, in «Avanti!», 19-6-1977. 101 L. Cafagna, Una strana disfatta. La parabola dell’autonomismo socialista, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 22-29. 102 I congressi della CGIL, vol. I, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1973, p. 171.

all’interno del sindacato che non guardavano di buon occhio a scenario di coalizione tra DC e PCI, e Craxi avrebbe cercato dal luglio del 1976 di rilanciare la presenza socialista nel sindacato proprio sfruttando contatti diretti con queste aree. A livello tattico si sarebbe trattato di dar vita ad un approccio duale, fondato da un lato da un confronto politico con il PCI giocato sui temi ideologici, fomentando al contempo queste correnti sindacali contrarie ad un connubio cattocomunista. L’obiettivo politico sarebbe stato quello di impedire che il PCI potesse proporsi come il partito garante della stabilità e della pace sociale, lasciando al PSI l’ingrato compito di ammettere una volta per tutta la sua marginalità.

L’analisi della politica sindacale socialista del biennio 1976-1977 obbliga, tuttavia, a fornire alcune premesse essenziali circa l’evoluzione delle relazioni industriali in Italia. Queste erano andate modificandosi nel corso della seconda metà del Novecento passando da un modello debole e a forte esposizione politica, a cui aveva corrisposto una contrattazione centralizzata, precaria e statica, ad un modello di tipo conflittuale, emerso a seguito dell’«autunno caldo» del 1969103. Il lungo ciclo di proteste dell’«autunno caldo» aveva avuto come obiettivo specifico la rinegoziazione degli accordi sulle prestazioni e sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Il mutamento sociale derivato dai flussi migratori campagna-città, dalla crescita dei redditi medi e delle aspettative di vita realizzatisi negli anni del boom economico, aveva finito per spingere i lavoratori a sollecitare miglioramenti non solo delle condizioni del lavoro ma anche delle retribuzioni. Dal Sessantotto in avanti si era così diffusa una cultura sindacale rivendicativa e ugualitaria, dedita a utilizzare lo sciopero come strumento di pressione nelle vertenze con il padronato. I passi in avanti sul terreno delle garanzie dei diritti sindacali contarono con la legge n. 300 del 20 maggio 1970, detta dello «Statuto dei lavoratori»104, e più tardi con la fissazione di una banda fissa di aumento salariale rispetto all’inflazione, conosciuta come «scala mobile», firmata nel gennaio del 1975. L’Italia degli

103 Su queste vicende si rimanda a G. Bianchi, Le relazioni industriali tra cooperazione conflitto, Milano, Franco

Angeli, 2003, pp. 42 e sg.; L. Bordogna, Le relazioni industriali in Italia dall’accordo Lama-Agnelli alla riforma della

scala mobile, in F. Malgeri, L. Paggi (a cura di), L’Itala Repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Vol. III, Partiti e organizzazioni di massa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 189 e sg. Per ulteriori riferimenti bibliografici cfr. G.

P. Cella, T. Treu, Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Bologna, Il Mulino, 2009; S. Turone, Storia del

sindacato in Italia. Dal 1943 al crollo del comunismo, Roma-Bari, Laterza, 1992; F. Peschiera (a cura di), Sindacato industria e Stato negli anni del centro-sinistra. Storia delle relazioni industriali in Italia dal 1958 al 1971, Firenze, Le

Monnier, III Vol., 1983; F. Peschiera (a cura di), Sindacato industria e Stato negli anni del centrismo. Storia delle

relazioni industriali in Italia dal 1948 al 1958, Firenze, Le Monnier, II Vol., 1979; P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1977.

104 Lo Statuto ampliò la regolamentazione relativa ai diritti sindacali, disciplinando le materie inerenti alla costituzione e

adesione agli organismi di rappresentanza sindacale, alla convocazione delle assemblee nel luogo di lavoro e alla costituzione di nuove rappresentanze sindacali. Si veda, V. Foa, Sindacati e lotte operaie (1943-1973), Torino, Loescher, 1980, pp. 193-195.

anni Settanta iniziò ad essere considerata dagli osservatori internazionali come il «paese più socialista tra quelli dotati di un’economia di mercato»105.

L’accordo firmato nel gennaio del 1975 dalla Confindustria italiana e la confederazione sindacale CGIL-CISL-UIL consacrò l’indicizzazione automatica del salario all’inflazione attesa non più secondo uno schema diversificato per categoria, ma attraverso un calcolo equivalente a tutti i livelli di reddito. Si realizzava, così, una dinamica di crescita salariale inversamente proporzionale al salario, per cui le retribuzioni aumentavano a prescindere dal grado di qualifica professionale o di retribuzione del lavoro106. L’accordo sulla scala mobile, che aveva trovato la sua motivazione nella necessità di ridiscutere i contratti collettivi nel clima di crescita inflattiva, concluse una vertenza iniziata nel 1974 per la quale i sindacati aveva utilizzato sovente lo sciopero come arma di pressione politica107. La logica della scala mobile dipendeva, come evidente, da una lettura egualitaria della società era di derivazione sessantottina e che aveva ora trovato concreta traduzione normativa108. Questi accordi furono ottenuti grazie all’azione coordinata delle tre centrali sindacali nella federazione unitaria CGIL-CISL-UIL, che aveva trasformato il sindacato da mero difensore degli interessi dei lavoratori in interlocutore per la concertazione nazionale. Il processo di “istituzionalizzazione” del sindacato implicò altresì un grado maggiore di verticalizzazione della decisionalità, imponendo alla base una certa distanza dalle scelte di politica sindacale prese al vertice. Questa dinamica si realizzava in contemporanea con la richiesta da parte imprenditoriale di riscontrare nel sindacato un grado maggiore di responsabilità e autorevolezza, che si accresceva in proporzione al grado di guida e controllo del vertice sulla base109. Da questa capacità dipendeva la capacità per i sindacati di negoziare con le imprese da una posizione di vantaggio, che si manifestò nella crescita degli industriali di cercare il dialogo con i rappresentanti dei lavoratori nel tentativo di

105 Cfr. S. Rogari, Sindacati e imprenditori. Le relazioni industriali in Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Firenze,

Le Monnier, 2000, p. 220.

106 L’unificazione del punto di contingenza, divenuto ora universale, venne calcolato secondo una stima “per eccesso”,

tenendo cioè in conto l’aumento retributivo della categoria professionale più favorita del vecchio modello (quella impiegatizia) moltiplicandolo per un coefficiente pari a 2,52 punti. Si veda, L. Di Vezza, Le modifiche al sistema di

calcolo della scala mobile, in T. Treu (a cura di), Il patto contro l’inflazione. Contenuti e documenti delle intese Governo-sindacati, Roma, Ed. Lavoro, 1984, p. 107.

107 Nel 1974 si persero 136.267 ore per sciopero e nel 1975 se ne persero 181.381. Dati espressi in migliaia. Fonte:

ISTAT. Cfr., I. Regalia, M. Regini, Sindacato e relazioni industriali, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia

repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, Torino, Einaudi, 1996, p. 783. Si veda anche, I.

Regalia, M. Regini, E. Reyneri, Conflitti di lavoro e relazioni industriali in Italia, 1968-1975, in C. Crouch, A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa. Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, Milano, Etas, 1977, pp. 1-73.

108 Pierre Carniti, segretario aggiunto della CISL, affermò che l’accordo sulla scala mobile aveva il significato di ridurre

«l’odiosa disuguaglianza del vecchio sistema», poiché, aggiungeva il sindacalista, «si può concepire una differenza di livelli di retribuzione in rapporto alla qualità delle prestazioni professionali, ma non si può accettare una differenza del punto di contingenza che punisce i redditi più bassi». In, Agnelli e Carniti favorevoli giudizi sull’accordo salariale, in «La Stampa», 26-1-1975.

109 Rogari parla di «potenzialità negative» dell’egualitarismo salariale per i sindacati: «il sindacato, con questo accordo,

consolidava e rafforzava la tendenza all’egualitarismo senza percepire i rischi di perdita di rappresentatività che ciò avrebbe potuto comportare nelle categorie a maggiore qualificazione professionale e che ne avrebbe minato le aspirazioni universalistiche». S. Rogari, Sindacati e imprenditori, cit., p. 220.

ridurre conflittualità e assenteismo. Il presidente della Confindustria, Gianni Agnelli, parlò a riguardo di un «capitolo nuovo» nelle relazioni industriali110.

L’impostazione egualitaria di livellamento salariale ebbe, però, conseguenze macroeconomiche notevoli nel bilancio dello Stato. Il primo effetto fu quello della perdita di efficacia del meccanismo della svalutazione monetaria competitiva. In questo modo, infatti, veniva meno quello strumento di politica monetaria che era stato alla base del boom economico degli anni Cinquanta, che contando con bassi costi di produzione poteva immettere sul mercato merci a prezzi competitivi111. Si realizzava, invece, una dinamica a spirale nella quale l’aumento dei salari generava l’aumento dei costi di produzione a carico dell’industria, che riversandoli sui prezzi faceva aumentare nuovamente l’inflazione. L’aumento costante dell’inflazione rappresentò il segnale visibile degli effetti negativi di questo strumento di livellamento automatico dei salari ai prezzi sulla bilancia dei pagamenti dello Stato, che iniziò a soffrire indici negativi generati dalla crescita dei prezzi del greggio e dal costo crescente dello Stato sociale112. Il tutto in un contesto di instabilità politica, che limitava la capacità di attrazione italiana di investimenti esteri. Il sistema politico italiano era, infatti, ancora bloccato da quel «vincolo esterno» del PCI che non permetteva di avviare, attraverso il principio di accountability, ipotesi di sostituzione della DC dal governo113. I

socialisti più degli altri avevano chiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’incapacità del sistema politico di attuare una piena alternanza di governo, cercando così di rilanciare la loro immagine di possibile soluzione alla soluzione di impasse. Soluzione che, però, ancora al 1976 non poteva passare da accordi di governo con la DC, ma attraverso la costruzione di una piattaforma di alternativa in grado di sostituire la classe politica democristiana dal governo. Seppur guidato da un autonomista come Craxi, l’accordo di collegialità del Midas del 1976 non chiudeva ipotesi di accordi a sinistra con il PCI, rispetto al quale, però, prima era necessario riequilibrare i rapporti di forza. A livello strategico la proiezione socialista contò ancora con il quadro demartiniano del

110 Agnelli dichiarò che l’evoluzione del sistema industriale avrebbe previsto, a cambio di una «maggiore produttività»

e della riduzione dell’assenteismo e della conflittualità, il crescente «coinvolgimento della base» nelle modalità di «cogestione» delle imprese. In, Agnelli e Carniti favorevoli giudizi sull’accordo salariale, in «La Stampa», 26-1-1975. Si veda anche, G. Fiocca (a cura di), Quarant’anni di Confindustria. Economia e società nei discorsi dei presidenti, Milano, Il Sole 24 Ore libri, vol. II, 1989, pp. 456-457.

111 La Malfa fu particolarmente critico nei confronti dell’accordo sulla scala mobile, che considerava una «fuga dalle

responsabilità» di imprenditori e sindacati al reale stato dell’economia nazionale. Il segretario del PRI sottolineava come l’accordo favorisse la possibilità per gli imprenditori di scaricare sui prezzi i costi di produzione, incrementando il livello di inflazione della lira. Agnelli, dal canto suo, rispose ricordando le responsabilità dei governi nella malagestione della crisi italiana. Cfr. S. Rogari, Sindacati e imprenditori, cit., p. 217.

112 Per una descrizione più puntuale di questo processo si rimanda a, L. Bordogna, Le relazioni industriali in Italia dall’accordo Lama-Agnelli alla riforma della scala mobile, cit., pp. 196-201.

113 Nelle scienze politiche il termine accountability definisce la capacità del cittadino di individuare la responsabilità del

governante per le sue scelte politiche e amministrative, decidendo così in un secondo momento (quello elettorale) se sostituirlo o confermarlo alla gestione del potere. Si veda la voce enciclopedica curata da Gianfranco Pasquino,

Accountability, Electoral, in «International Encyclopedia of Political Science», London, Sage Publications, 2011, pp.

«governo d’emergenza nazionale», che Craxi portò avanti nell’evidente interesse di non lasciare campo libero al PCI senza per questo creare seriamente le condizioni per accordi di governo tra le forze di sinistra114.

Nel novembre del 1976, il socialista Gino Giugni parlò di un’«attenzione tutta nuova» del PSI «alla presenza socialista nel sindacato»115. Con queste parola Giugni faceva riferimento alla nomina avvenuta nel settembre del 1976 di Giorgio Benvenuto alla segreteria della UIL. Quest’ultimo proveniva dalla federazione dei metalmeccanici della UIL ed aveva ottenuto l’incarico grazie alle pressioni di Craxi, che era interessato a collocare al vertice di uno dei tre sindacati confederali una personalità in grado di interpretare e tradurre gli interessi del PSI a livello sindacale116. Sebbene venisse ordinato anche ad Agostino Marianetti e Mario Didò della CGIL si «stringere i ranghi»117, fu soprattutto nei confronti di Benvenuto che si instaurò un rapporti diretto di corrispondenza strategica con Craxi. Benvenuto era, infatti, un sindacalista relativamente giovane e fautore di una linea politica propensa alla mobilitazione. Era quindi contrario ad accordi di vertice che avrebbero favorito il PCI, mentre il suo sindacato si era da sempre proposto come interessato a ridiscutere la supremazia della CGIL sul fronte del lavoro118. Benvenuto era, insomma, un

disinvolto oppositore agli approcci moderati portati avanti da Luciano Lama, storico leader comunista della CGIL119. Lo spirito di attenzione rivolta da Craxi alla UIL è testimoniato da una

lettera che il segretario del PSI inviò ai vertici della UIL con probabilità in questi mesi del 1976, nella quale fece riferimento alla necessità di stabilire un nuovo raccordo fondato sui comuni interessi strategici: «Considero essenziale il ruolo della UIL nel movimento sindacale italiano – scriveva Craxi –. Penso che sia necessario un contributo di crescente influenza della presenza socialista nel pieno rispetto della autonomia della vostra organizzazione. Auspico un rapporto stretto ed operante di collaborazione tanto più necessario in quanto ci avviamo verso una prospettiva politica che esige certamente una capacità di cambiamento e di rinnovamento nel concorso di tutte le sinistre politiche e sindacali e la garanzia che non si affermino posizioni egemoniche»120.

114 Si vedano le conclusioni di Bettino Craxi nel documento, La lezione del 20 giugno, giugno 1976, cit. 115 G. Giugni, I socialisti nel sindacato alla ricerca di una identità, in «La Stampa», 17-11-1977.

116 P. Mieli, La crisi del centro-sinistra, l’alternativa e il nuovo corso socialista (1968-1980), cit., pp. 268-270; G.

Sabbatucci, I socialisti e la solidarietà nazionale, in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia Repubblicana nella

crisi degli anni Settanta, Vol. IV, Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 133. 117 Ibidem.

118 Sull’evoluzione del sindacalismo della UIL, si rimanda a S. Turone, Storia dell’unione Italiana del Lavoro, Milano,

Franco Angeli, 1990 e P. Craveri, I quarant’anni della UIL, in «Prospettive Settanta», n. 3/4 (1990), p. 339 sg.

119 Craxi guardava con attenzione al sindacalismo rivendicativo di Benvenuto, la cui logica egualitaria veniva

incoraggiata ed elogiata perché giudicata in grado di «incanalare» le proteste ufficiali «in forme efficaci ed unitarie e verso obiettivi di lotta graduali e responsabili». Si veda tra gli altri il discorso di Craxi al CC del PSI dell’ottobre del 1977 pubblicato in, La relazione di Craxi al Comitato Centrale, in «Avanti!», 19-10-1977.

120 Lettera: 83. Craxi ai compagni della Uil, senza data, AFBC, Fondo Craxi, Sezione I, Serie 6, Sottoserie 2,

Nell’autunno del 1976 il governo di Andreotti adottò i primi provvedimenti anti-crisi. Aumentò il prezzo della benzina e dei servizi pubblici, e la scala mobile subì un primo parziale blocco dai sei milioni di lire in su (una riduzione di due punti sul totale). I sindacati, pur avendo criticato le scelte del governo, decisero di mantenersi fedeli ad un principio di polemica responsabile, dichiarandosi disponibili a discutere con il governo una serie di misure anticrisi, pretendendo in cambio l’inclusione del PCI nell’area di governo121. Di fronte a questa ipotesi di chiusura del «compromesso storico», Bettino Craxi iniziò un’attività frenetica finalizzata a bloccare questa ipotesi, appoggiando dapprima le proteste dei sindacati e di Benvenuto sulla modifica della scala mobile122, poi dando vita ad una lunga serie di incontri tra i rappresentanti dei partiti per la definizione di un programma di governo per garantire la sopravvivenza all’esecutivo di Andreotti. Si parlò di «accordo programmatico», che Craxi propose ai partiti destando le prime dure critiche di Lombardi sulla conduzione poco collegiale della sua segreteria123. Registrato il richiamo degli alternativisti, del cui consenso Craxi aveva bisogno per mantenersi in sella alla guida del partito, riemersero i toni di critica alla DC. Quest’ultima venne accusata dal segretario di «immobilismo» rispetto alla situazione economico-sociale del paese, assieme alla riedizione della linea dell’«unità nazionale» e del «governo d’emergenza», unica soluzione secondo Craxi ad «una crisi di proporzioni gravi che non è solo economica, ma investe anche le strutture di uno Stato non voglio dire in disfacimento, certo in una grave disfunzione»124.

Proseguì nel frattempo l’avvicinamento a Benvenuto, mentre d’accordo con la UIL il PSI spinse per la definizione di un programma di rilancio economico fondato sull’«espansione dell’offerta», che avrebbe mantenuto alti i salari, favorito l’occupazione, garantito un numero maggiore di ore di lavoro e abbattuto l’assenteismo125. Il piano di rilancio dell’economia proposto dai sindacati prevedeva, oltre agli strumenti di stampo keynesiano, l’adozione di misure come il congelamento della indicizzazione dell’indennità di anzianità e delle scale mobili anomale, la trasformazione in giorni lavorativi di sette festività, il netto contenimento della voce salariale della contrattazione articolata, a cambio del mantenimento della scala mobile. Queste misure furono sottoscritte da Craxi in un editoriale per l’Avanti! del gennaio 1977, nel quale il massimo dirigente socialista si dichiarò disposto ad «affrontare le cause reali del processo inflazionistico, e cioè: la

121 In rotta di collisione, in «Corriere della Sera», 7-1-1977; L’economia italiana è giunta ad un punto cruciale, in

«l’Unità», 7-1-1977.

122 M. Riva, Le conseguenze economiche del Signor Benvenuto, in «Corriere della Sera», 16-1-1977; G. Benvenuto, Deve cambiare la politica economica, in «Avanti!», 9-1-1977.

123 Dibattito tra i partiti sulle prospettive politiche e sui temi programmatici, in «Avanti!», 1-2-1977; Una programmazione rigorosa per uscire dalla crisi, in «Avanti!», 13-2-1977; Un accordo programmatico al centro degli incontri tra il PSI e gli altri partiti, in «Avanti!», 20-2-1977; La ricerca di un più saldo equilibrio politico non può essere ulteriormente rinviata, in «Avanti!», 18-3-1977.

124 Intervista di Craxi al GR1 trascritta in, I socialisti contro ogni immobilismo, in «Avanti!», 27-9-1977; Uno sforzo di unità nazionale contro la crisi, in «Avanti!», 28-1-1977.

crescita dei costi di produzione superiore in molti casi a quella dei paesi concorrenti; la scarsa utilizzazione delle risorse reali disponibili; la eccessiva espansione della spesa pubblica (rispetto alla qualità dei servizi prodotti)», attraverso una politica di stimolo all’«espansione dell’offerta e l’allargamento della base produttiva», allontanando i «pericoli recessivi inevitabilmente connessi al taglio indiscriminato della domanda delle classi lavoratrici e delle imprese»126. Questa posizione

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