di Salvatore Tedesco
Nella sua introduzione alla recentissima edizione de Il Gusto
nel-l’estetica del Settecento di Guido Morpurgo-Tagliabue, Giuseppe
Ser-toli osserva giustamente 1 come il «ritorno teoretico» della ricerca sto-riografica di Morpurgo-Tagliabue sull’estetica del gusto in Italia sia pressoché nullo. Posto, infatti, spiega Sertoli, che l’indagine storiogra-fica intrapresa da Morpurgo-Tagliabue avesse il fine di «evidenziare quel nesso fra gusto e giudizio che sta al centro dell’esperienza estetica e la cui chiarificazione può, sola, aprire la strada all’integrazione di fenomenologia e assiologia» – ciò che appunto corrisponde agli intenti teorici di Morpurgo-Tagliabue – allora «l’esplorazione del “territorio italiano” si è rivelata quanto di meno proficuo si possa immaginare» 2
in relazione a quei fini teorici. Mi proporrei allora di inserire le con-siderazioni di Morpurgo-Tagliabue in un diverso circuito teorico, che non è più quello generato dalla circolazione fra teoria e storia così ca-ratteristicamente intesa dallo stesso Morpurgo-Tagliabue, ma sarà, questa volta, quello immanente alla sua ricerca storiografica, ossia, nel caso specifico, quello dei rapporti che intercorrono fra l’estetica baroc-ca e quella primo-settecentesbaroc-ca in Italia.
Anticipo subito i risultati che intendo trarne: e cioè in primo luo-go una conferma, quella relativa al carattere “tardo barocco” della ri-flessione di Muratori e Gravina, che di questa prima fase costituisco-no i pensatori più rappresentativi, e dunque ulteriori elementi a cari-co del progressivo “ritardo” della riflessione italiana a paragone cari-con quella degli altri paesi europei; e in secondo luogo l’esigenza di un ripensamento, quello relativo al ruolo della retorica.
Occorre, quanto al primo punto, che io chiarisca subito il senso della mia affermazione: sarebbe persino ovvio osservare che molta acqua è passata sotto i ponti dai tempi dello studio di Morpurgo-Ta-gliabue, e molti approfondimenti sono stati compiuti sia dal punto di vista filologico che da quello interpretativo 3. Uno degli snodi della rilettura di Muratori in atto ormai da decenni consiste proprio in un più attento esame dei rapporti con la cultura del suo tempo per un verso e con il modello tassesco per l’altro, e tale genere di approfon-dimento ha condotto a mettere in questione appunto la prossimità
teo-rica fra Muratori e il “Barocco moderato”, postulata da Morpurgo-Tagliabue. Quel che intendiamo tuttavia verificare, seppure necessaria-mente di scorcio, è se realnecessaria-mente nella riflessione “estetica” di Muratori si trovi un orizzonte di questioni distinto da quello proprio del Baroc-co, o se invece, giusta la supposizione di Morpurgo-Tagliabue, le stes-se domande ritornino, ma francamente stes-senza più la stessa freschezza e le stesse aperture sistematiche.
Mi accontenterò qui di anticipare due aspetti del problema, che auspico possano acquistare la loro giusta collocazione alla luce delle considerazioni che seguiranno. È evidente come Muratori ponga al centro della propria riflessione sulla natura della poesia l’indagine sui rapporti fra retorica e logica: in modo più specifico ricorderemo che Muratori, come ha convincentemente dimostrato Eraldo Bellini 4, ri-prende in funzione polemica le posizioni della Difesa di Dante di Ia-copo Mazzoni, riallacciandosi in modo piuttosto puntuale alle critiche ad esse opposte da Tasso. Questo è per eccellenza un problema dei teorici del Concettismo, e diventa un problema capitale del Settecento solo se investito di una funzione chiarificatrice sul sistema complessivo dell’estetica. Ebbene, laddove il Concettismo si sforzava tramite l’inda-gine dei rapporti fra retorica e dialettica di individuare un nuovo spa-zio teorico per il discorso acuto, svolgendo così un’insostituibile fun-zione propulsiva per la nascente coscienza estetica moderna e per la costruzione di uno spazio teorico-disciplinare inedito 5, Muratori, con-tro gli eccessi del Barocco, si prefigge di determinare la natura della poesia distinguendola dalla «facoltà sofistica» e affermando che essa invece «dee più giustamente collocarsi colla dialettica e colla retorica», avendo poi come proprio fine specifico quello di arrecare insieme
uti-lità e diletto 6. In che senso si potrebbe attribuire una funzione inno-vativa a un simile impianto e riconoscere in esso un’apertura ai proble-mi del nuovo secolo? Connesso a tale questione è però, ed è addirit-tura preventivo, un accertamento relativo alle funzioni e agli indirizzi di fondo che si intendono riconoscere al pensiero concettista: allorché Muratori afferma che «sempre la meraviglia è congiunta coll’impara-re», così ponendo la poesia «su di un fondamento conoscitivo» 7, ciò contraddice quella estetica barocca della meraviglia che trae origine dalla «forza dell’ingegno del poeta che riusciva con associazioni meta-foriche a disorientare il lettore» 8, o piuttosto ne ripete le più tipiche movenze, se è vero che il Barocco rende funzionale anche quel diso-rientamento al piacere e all’apprendimento, in accordo con il motto dell’imparare godendo 9?
Venendo poi a sfiorare la gigantesca questione del ruolo della re-torica nel sistema dell’estetica 10, è noto che Morpurgo-Tagliabue, a conclusione del suo studio sull’aristotelismo barocco, afferma che la retorica finisce insieme con il Barocco nel momento in cui si
conclu-de quella stagione conclu-determinata, dal Rinascimento europeo in avanti, dalla crisi degli endoxa; con l’Illuminismo, con l’estetica del gusto, «fa-coltà dell’uomo in generale» 11, si effettua, se così vogliamo dire, il passaggio dal pensiero topico a quello utopico; con ciò uscirebbero definitivamente di scena quelle connessioni determinate dalla retorica che per l’ultima volta nel Seicento sarebbero chiamate a svolgere un ruolo strutturale forte per il pensiero europeo: appunto l’aristotelismo barocco come stagione estrema, come “pagina che si chiude” nella storia europea. Crediamo, al contrario, che proprio nel giro di autori e di questioni poste al centro dell’indagine storiografica di Morpurgo-Tagliabue si trovino spunti interessanti che permettono di verificare il ruolo che la retorica svolge nella costituzione del sistema dell’estetica. Partirei da una osservazione di Morpurgo-Tagliabue su Muratori: «Nel formulare il concetto di gusto riducendolo a giudizio vi è […] almeno un momento in cui il Muratori ha un sospetto della gravità della questione e intravede anche, se non una soluzione, almeno l’apertura del problema in una direzione originale. Proprietà del giu-dizio è di applicare norme generali a casi individuali secondo le circo-stanze, e perciò trovare le norme adatte» 12. Siamo, palesemente, di fronte a un problema centrale, non solo per l’estetica del Settecento – poco dopo non a caso Morpurgo-Tagliabue rinvia a quegli snodi fra la terza Critica e l’uso regolativo dei concetti nella Critica della ragion
pura, questioni che quantomeno da Scaravelli in avanti, e soprattutto
con Garroni, leggiamo proprio in questa direzione – ma anche per le stesse dinamiche teoriche che interessano a Morpurgo-Tagliabue, i bi-lanciamenti, appunto, fra gusto e giudizio, la cui esplicita tematizzazio-ne (si tratta di un saggio del 1962) molto opportunamente è ripropo-sta nell’appendice al volume ricordato in apertura.
Ciò detto, all’urgenza del tema non corrisponde in Muratori una teorizzazione adeguata, e Morpurgo-Tagliabue mostra come in sostanza Muratori non esca dai limiti di un’impostazione tradizionale, di stampo precettistico, che gravita sul concetto di “convenevole”: «“Convene-vole” è che si usino immagini magnifiche per argomenti eroici, e im-magini semplici per argomenti umili, ecc. Ma questo convenevole non è già più un principio, è una regola retorica» 13. Con ciò, appunto, il problema verrebbe eliminato, piuttosto che risolto, nel momento stesso in cui viene posto. Qui senz’altro si manifesta la fondatezza del discor-so di Morpurgo-Tagliabue, il “ritardo” della riflessione italiana rispetto ai problemi agitati in quegli anni in Europa; basterebbe pensare alla presenza di questo stesso tema in un autore come Christian Wolff, a sua volta solitamente accusato di costituire una sorta di retroguardia rispetto al pensiero leibniziano, ma in effetti portatore di alcune istanze decisive. E vediamo infatti che nella teorizzazione dell’analogon
“em-pirica” e l’attesa di casi simili, Wolff giunge a mettere in questione il rapporto fra generale e particolare nel campo delle verità contingenti. Giudicare, secondo il dettato della Psychologia empirica 14, «quid fie-ri debeat in casu singulafie-ri dato» (§ 501) significa infatti attfie-ribuire sotto determinate condizioni un certo predicato (che si dirà ipotetico) a un certo individuo, riportando quest’ultimo alla specie cui appartiene (§ 361). E ciò appunto, nello specifico, non è possibile se non si conosce già un caso simile. Conoscere è infatti possibile a priori, per via di ragionamento, oppure a posteriori, per via d’esperienza. In mancanza però di scienze che forniscano «la teoria degli avvenimenti più usua-li» (ancora § 501) non rimane che giudicare sulla base dell’esperienza,
a posteriori. Se io (per riprendere un altro esempio wolffiano, Psycho-logia empirica § 361) so che in autunno cadono le foglie, mi aspetto
che, essendo autunno, questa foglia cada, perché riporto questo indi-viduo di cui ho intuizione immediata al suo genere (le foglie) e giudico che si diano le stesse condizioni d’ipotesi (che sia autunno). Gli uomini (sto ancora parafrasando il fondamentale § 501) sono tenuti a giudicare per via d’esperienza quando mancano di proposizioni determinate se-condo cui giudicare nei casi singoli determinati.
Ancor più significativo per il punto di vista che intenderei qui pro-porre è però l’arretramento di Muratori nei confronti del dibattito ba-rocco, che aveva avvertito la questione del rapporto fra “norme gene-rali” e “casi individuali”, aveva in più di una occasione sfiorato o senz’altro messo in luce la questione del gusto, insieme a quella del “non so che”, ma aveva infine coordinato insieme tutti questi elementi per mezzo di una strumentazione retorica e in funzione di una strate-gia che è senz’altro quella, per dirla con le parole di Morpurgo-Taglia-bue, dell’“arguzia sillogistico-retorica”, cioè in vista dei nessi fra reto-rica e dialettica. Alludo al problema del “ritrovamento del mezzo”, che è centrale nella dialettica europea da Pietro Ramo in poi, e funzio-na nel pensiero barocco soprattutto al fine di individuare lo specifico della riflessione acuta: accontentiamoci, anche qui, di un unico esem-pio, quello del trattato Delle acutezze di Matteo Pellegrini, per il quale la virtù logica dell’ingegno consiste, in parallelo con quanto avviene nel caso dell’intelletto, nella capacità di trovare il termine medio che leghi insieme i diversi elementi, in una connessione che, al contrario di quanto avviene nel caso della logica, non è funzionale alla verità del riferimento esterno ma alla “acconcezza” del legamento stesso, alla
bellezza, che costituisce per Matteo Pellegrini l’oggetto della sfera
au-tonoma del discorso retorico. E tuttavia, prosegue Pellegrini, non esi-stono regole specifiche per ottenere quei risultati, e tutto il campo ri-mane affidato «alla virtù dell’ingegno, […] dove per bene operare non ha regola speciale» 15. In parallelo, distinguere le perfezioni proprie dell’operare dell’ingegno non è cosa che si possa ottenere altrimenti
che «in pratica dal giudicio dell’ascoltante», che riscontra nella de-strezza dell’ingegno (sono ancora parole di Matteo Pellegrini) «un non so che di vitale».
Ecco allora una retorica che non si riduce, come per farla breve potremmo dire avviene invece in Muratori, a “precettistica del conve-nevole”, ma elabora complessi nessi argomentativi che mirano a co-struire elaborate strategie di sistema, tessendo insieme retorica e dia-lettica e indicando l’emergere del punto di vista e del luogo epistemico dell’estetico. Giusto dal punto di vista di una simile “sistematica del-l’estetica”, al di là dell’impianto proposto da Morpurgo-Tagliabue, si rivela allora la centralità strategica della retorica per la costruzione dell’estetica moderna, e non è un caso che si possa oggi riscoprire la centralità del pensiero retorico in Baumgarten, proprio nella sua ori-ginalissima riformulazione di questi stessi problemi.
Possiamo subito tornare al primo Settecento italiano, a Muratori e Gravina convincentemente indagati da Morpurgo-Tagliabue in quan-to esponenti di un barocco moderaquan-to ormai in ritardo, che non ha più le stesse ragioni teoriche e la stessa funzione storica di quella stagione. Si potrà condividere buona parte dell’analisi di Morpurgo-Tagliabue, e in particolare a proposito del carattere tutto sommato sterile di molte delle ricerche “estetiche” di Muratori, ancora attardato nelle questioni più tipiche del dibattito barocco, ma appunto senza quella luce, senza quelle aperture, e con una più rigida impostazione precet-tistica. E basterà effettuare qualche verifica, quasi ad apertura di pa-gina, nel trattato Della perfetta poesia italiana 16, opera in cui spesso ritornano questioni e atteggiamenti teorici tipici della trattatistica ba-rocca, ma appunto senza quella ampiezza di vedute, senza quella rete di connessioni, infine senza la nettezza di quel progetto sistematico. Così Muratori riprende le considerazioni di Tesauro sui condiziona-menti fisiologici e sulla dotazione psicologica caratteristiche dei poeti (Libro III, 2), polemizza col padre Le Moyne, il rivale di Tesauro, e poi col Tesauro stesso, a proposito dei “sofismi ingegnosi” (Libro II, 4); soprattutto, poi, come ha fatto giustamente notare Morpurgo-Ta-gliabue 17, la definizione di ingegno proposta da Muratori («L’ingegno secondo la mia sentenza altro non è se non quella virtù, e forza attiva, con cui l’Intelletto raccoglie, unisce, e ritruova le simiglianze, le rela-zioni, e le ragioni delle cose» 18) si propone di fatto come una mera ri-proposizione delle definizioni correnti nel pensiero del Seicento.
Effettivamente, quando, poche righe dopo aver letto questa defini-zione, leggiamo che in relazione a essa si danno un ingegno vasto e uno penetrante, sembra proprio di leggere le considerazioni usuali da Bacone a Tesauro, e in particolare proprio la distinzione, da quest’ul-timo proposta, fra perspicacia e versabilità dell’ingegno 19. C’è però anche qui, rispetto alle teorizzazioni secentesche, una caratteristica
chiusura degli orizzonti: è vero infatti che l’inquadramento dell’inge-gno all’interno dell’intelletto è usuale nel Seicento, ed esplicitamente inteso dai nostri teorici concettisti, eppure esso non dà luogo automa-ticamente a una definizione razionalistica dell’ingegno; rimane per così dire uno spazio libero per l’attività della fantasia e per forme di costru-zione e condivisione di orizzonti immaginativi teorizzati dalla tradizio-ne retorica eppure non compatibili con le esigenze dell’intelletto spe-culativo. È quanto si potrebbe facilmente argomentare a proposito di Tesauro a partire proprio dalla sottolineatura della dote della perspi-cacia, e dal raffronto subito proposto da Tesauro fra l’ingegno “reto-rico” e la prudenza.
In Muratori, viceversa, la semplice aggiunta (nel passo poc’anzi ci-tato) del riferimento alla capacità di ritrovare le ragioni delle cose vale a imporre all’ingegno un rigido vincolo razionalistico; in questo modo, l’intero meccanismo dell’inganno prospettico barocco viene riproposto, ma assume la forma di un mero travestimento, di un “gioco a indovi-nello”, che mira a «insegnare alla nostra mente un qualche Vero, o Verisimile reale, travestito col Falso» 20, come del resto si può facil-mente scorgere quando Muratori riprende le giustificazioni a suo tem-po avanzate dai teorici barocchi per spiegare il piacere connesso al-l’acutezza: «l’uditore ha l’obbligazione e il diletto d’intendere quel-lo che non si dice, e di comprendere da se stesso la significazione del Vero a bello studio alquanto celata, affinché gli altri abbiano il piacer di trovarla […] saran sempre più belle queste Immagini, quanto più da oggetti fra lor lontani, e nobili, e belli si prenderanno le simiglian-ze, e quanto più saranno queste nuove, e non aspettate, essendo la novità madre della maraviglia, e del diletto» 21. E altrove leggiamo: «avvegnaché le Immagini Fantastiche non sieno vere a dirittura secon-do l’Intelletto, pure indirettamente servono ad esprimere, e rappresen-tar lo stesso Vero Intellettuale. Tutte le Metafore, le Iperboli, le Para-bole, gli Apologi, e simili altri concetti della Fantasia, sono un vestito, e un’ammanto sensibile di qualche Verità o Istorica, o Morale, o Na-turale, o Astratta, o veramente avvenuta, o possibile ad avvenire» 22. Questa banalizzazione davvero incredibile, benché dottamente soste-nuta da citazioni agostiniane, è la necessaria conseguenza del proposito di Muratori di sfuggire gli eccessi del Barocco, senza tuttavia uscirne, e senza riuscire a valorizzarne gli spunti di maggiore apertura.
L’analisi di Morpurgo-Tagliabue attribuisce giustamente il più gran-de spazio alla nozione di artificio/artificiale in Muratori, nozione tra-mite cui si evidenziano per un verso i legami persistenti col Barocco (l’artificio che supera la natura in direzione del meraviglioso, del “pe-regrino”; e poi la stilistica, cioè l’artificio stilistico, del meraviglioso), e per l’altro verso si aprono le questioni proprie dell’Arcadia («Il poeta “coll’Artifizio suo […] sa far sì vive, pellegrine e splendide le copie,
che agguaglino la forza degli originali”. In questo caso – commenta Morpurgo-Tagliabue – domina il principio dell’eikos aristotelico, della “natura propria delle cose”. È il problema nuovo dell’Arcadia» 23).
A fronte di questa oggettiva rilevanza del tema dell’artificio in Mu-ratori, vale però come conferma estremamente significativa della lettura di Morpurgo-Tagliabue il fatto che questo stesso tema dell’artificio trovi un’adeguata formulazione teorica solo nelle pagine di Gravina, e non nello stesso Muratori. Tuttavia anche nel caso di Gravina non pos-siamo forse aspettarci, in accordo con la lettura proposta da Morpurgo-Tagliabue, reali aperture alla questione settecentesca del gusto, perché anzi la nozione di artificio si presta particolarmente bene a costituire il centro del modello “precettistico” comune a Muratori e Gravina, per quanto appunto meglio indagato da quest’ultimo. Già nella Dedica del-la Ragion poetica 24 leggiamo che tutte le regole antiche e nuove del-la poesia «rimangono comprese in un’idea comune di propria, naturale e convenevole imitazione e trasporto del vero nel finto, che di tutte l’opere poetiche è la somma, universale e perpetua ragione»: un pas-so davvero emblematico, stretto come è fra l’apertura cartesiana deter-minata dal riferimento alla “universale e perpetua ragione” e la ripro-posizione del concetto di imitazione, dove tuttavia è da notare che si tratterà di una imitazione “propria, naturale e convenevole”, ovvero sarà il frutto di un ripensamento post-barocco dei teorici del Rinasci-mento. Al centro di questo meccanismo sta la proposta cardine del discorso graviniano: il “trasporto del vero nel finto”, ossia appunto la teorizzazione di quel genere d’artificio che consente la “minuta osser-vazione”, per il cui tramite «la mente, astraendosi dal vero, s’immer-ge nel finto e s’ordisce un mirabile incanto di fantasia» 25. In tal modo il poeta, secondo Gravina, non si tiene ai concetti generali, ma pene-tra sino a considerare «tutte le cose minute e particolari» 26 per por-le aristotelicamente dinnanzi agli occhi degli ascoltatori.
«Soltanto il Gravina – osserva Morpurgo-Tagliabue – identifica audacemente la “naturale e minuta espressione” col finto […]. Quanto più evidenti, minuziose, verisimili, credibili le rappresentazioni, tanto più finte» 27.
In questo modo riesce a Gravina quanto non poteva riuscire a Mu-ratori: traghettare nel nuovo secolo qualcosa dell’essenziale del dibat-tito barocco sulla metafora, a partire proprio da quel carattere di fin-zione su cui già l’aristotelismo del tardo Cinquecento, ad esempio Ber-nardino Tomitano e Jacopo Zabarella, e poi i nostri teorici del concet-tismo, con Tesauro in testa, tanto avevano lavorato.
Morpurgo-Tagliabue è particolarmente interessato ai destini che questa concezione avrà nell’estetica settecentesca, con il tema della «emozione immaginaria» 28, da Dubos a Lessing, da Addison a Burke. E tuttavia non meno significativo è proprio il versante che riguarda in
modo specifico la natura della metafora che Gravina (mi riferisco qui, oltre che alla Ragion poetica anche al dialogo De lingua latina) indivi-dua in quel tipo di mediazione che permette di rappresentare una cosa sotto l’immagine linguistica di un’altra, basandosi sull’affinità che due cose, se riguardate sotto una particolare prospettiva, sono in grado di esprimere. In questo senso, per mezzo della metafora non si ha una modificazione del significato originario delle parole; piuttosto, le im-magini linguistiche capaci di esprimere la relazione fra due cose