• Non ci sono risultati.

L’«ECCESSO» NEL CINEMA DI PAUL THOMAS ANDERSON: MAGNOLIA

1. Il contesto familiare, la formazione e i primi lavori dietro la macchina da presa.

Paul Thomas Anderson nasce il 26 giugno 1970 a Studio City, un quartiere della vallata urbanizzata situata nella parte nord-occidentale di Los Angeles: la San Fernando Valley.

Il padre Ernie Anderson, originario del Massachusetts, ha lavorato per tutta la vita nello show-business come presentatore radiofonico e televisivo. Nel 1963 crea «Ghoulardi», un personaggio di finzione da lui stesso interpretato – e divenuto celebre in pochi anni nei circuiti televisivi della zona circostante Cleveland – che presentava il film horror del venerdì notte sull’emittente locale «WJW-TV». Proprio in onore di questo personaggio, il figlio chiamerà qualche decennio più tardi la sua compagnia di produzione cinematografica «Ghoulardi Films». A partire dal 1966, anno in cui si trasferisce nella San Fernando Valley, Ernie Anderson raggiunge un grande successo come voce promozionale della emittente televisiva «ABC». Dopo aver divorziato dalla prima moglie Marguerite, con la quale ha avuto cinque figli, si sposa di nuovo con Edwina Gough, conosciuta a Cleveland e dalla quale avrà altri quattro figli: tre femmine e Paul, secondogenito.

Nella grande casa della «North Hollywood» in cui il regista californiano è cresciuto, gravitavano spesso figure appartenenti al mondo dello spettacolo, e con ogni probabilità fu grazie al padre e alle sue abituali frequentazioni che nel piccolo Anderson nacque fin da subito una fortissima passione per il cinema. Egli ha sempre dichiarato di aver avuto un ottimo rapporto con la figura paterna (che gli regalò una telecamera Betamax quando

104

aveva dodici anni, con la quale iniziò a sperimentare il linguaggio delle immagini in

movimento), tanto da ricordarlo come «un uomo favoloso, creativo ed amabile»1. La

madre, invece, è descritta dagli amici del cineasta come una persona molto fredda, che tendeva a sminuire il precoce talento del figlio. In una delle rarissime dichiarazioni inerenti alla relazione con lei, Paul Thomas Anderson ha asserito: «Ebbe un’educazione rigida. Era irlandese. Abbiamo avuto le nostre liti, ma è stato molto tempo fa. Ora ce la

caviamo bene»2.

La figura materna è chiaramente richiamata in Boogie Nights (1997), del quale si parlerà brevemente più avanti, dal personaggio nevrotico e sprezzante della madre del protagonista diciassettenne Eddie Adams/Dirk Diggler, che in una delle prime sequenze contesta al figlio la possibilità di poter fare qualcosa di importante nella vita.

Lo scambio dialogico, particolarmente aspro e che anticipa la fuga definitiva del ragazzo da casa, già ci segnala in maniera inequivocabile la natura intimamente personale dei primi lavori di Anderson, nei quali egli tende molto spesso ad animare i personaggi conferendo loro caratterizzazioni di figure, in particolar modo familiari, che hanno ricoperto un ruolo importante nella sua vita – questa tendenza si attenuerà decisamente nelle ultime tre opere: Il petroliere (There Will Be Blood, 2007), The

Master (2012) e Vizio di forma (Inherent Vice, 2014).

Ciò sarà particolarmente evidente in Magnolia (1999), dove, ad esempio, il cancro che nel febbraio del 1997 condusse il padre alla morte diviene un elemento drammaturgico fondamentale. Ma lo stesso Eddie/Dirk è in qualche modo una sua declinazione. Quando la madre urla al protagonista che non è riuscito nemmeno a finire la scuola a causa della sua stupidità, il riferimento alla vita reale del cineasta losangelino è piuttosto chiaro. Egli infatti ha avuto da ragazzo un rapporto decisamente travagliato con l’istituzione scolastica, essendo stato espulso da diverse scuole, tra gli otto e i diciotto anni, a causa di numerose assenze ingiustificate e di risse con compagni di classe.

Dopo l’allontanamento dalla «Buckley School» fu mandato dai genitori alla «Campbell Hall», una scuola per ragazzi con problemi comportamentali. Neanche qui le cose andarono per il meglio e così il giovane Anderson si ritrovò a frequentare la

1 Sharon Waxman, Rebels on the Backlot: Six Mavericks Directors and How They Conquered the

Hollywood Studio System, New York, Harper Perennial, 2006, p. 85 (traduzione mia).

105

«Cardinal Cushing», un’altra scuola per ragazzi con problemi situata però lontano da casa, appena fuori Boston, nel Massachusetts. Poco dopo si trasferì in un altro istituto ancora, seguendo gli ultimi due anni di liceo al «Montclair College Prep», nel quartiere losangelino di Reseda.

Finito il liceo, studiò inglese per due semestri a Boston all’«Emerson College», per poi abbandonare e iscriversi l’anno successivo alla celebre «New York University Film School», dove rimase per soli due giorni prima di lasciare definitivamente gli studi. A proposito dell’insolitamente breve esperienza all’università newyorchese, Anderson ha ricordato:

Il problema è che crebbi in un momento in cui gente come George Lucas, Steven Spielberg e Martin Scorsese, che aveva frequentato scuole di cinema, predicava in loro favore. Questo portò molti ragazzi a pensare che l’unico modo per poter veramente realizzare un film fosse iscriversi ad una scuola di cinema. Ciò però, a mio avviso, non ha affatto senso. Infatti, nelle scuole di cinema fondamentalmente si prendono ragazzi che amano il cinema e si fa vedere loro molti film. Questa tuttavia è l’ultima cosa che dovrebbe essere fatta, dal momento che essi guarderebbero una gran quantità di film in ogni caso. Non so dire se sarebbe stato differente nel caso in cui ci fossero stati degli ottimi professori lì. La mia esperienza con i professori che ho avuto non è stata molto piacevole […]3.

Come si può facilmente notare, il background di Paul Thomas Anderson si discosta tangibilmente da quello di Kathryn Bigelow, di cui si è scritto in apertura del precedente capitolo (vedi cap. II, paragrafo 1).

Lo sceneggiatore/regista racconta di aver cominciato a desiderare fortemente di realizzare film per il cinema fin dall’età di cinque anni, età in cui vide per la prima volta

Il mago di Oz di Victor Fleming (1939). Era letteralmente incantato dalle pellicole che

guardava. A dodici anni, dopo aver visto E.T. l’extra-terrestre (1982), cominciò a vestirsi come il piccolo protagonista Elliott e fu estremamente colpito, come molti bambini della sua età, dall’immagine del protagonista che riesce a guidare la propria bicicletta fino al cielo stellato. Più tardi vide Rocky (1976) e iniziò per un periodo a

3 La dichiarazione di Anderson è contenuta in James Mottram, The Sundance Kids: How the Mavericks

106

mangiare cinque uova per colazione e a correre tutte le mattine. Non stupisce, perciò, che abbia affermato: «Non ho mai avuto un piano di riserva al di fuori di quello di dirigere film. Ogni volta che mangio purè di patate penso ancora a Incontri ravvicinati

del terzo tipo»4.

La maggior parte della sua vita ruotava attorno ai film che guardava, amava e dai quali era ossessionato: viveva nutrendosi di cinema. Il fatto di acquisire una notevole e trasversale cultura cinematografica esclusivamente guardando migliaia di pellicole al cinema o a casa in videocassetta (siamo negli anni ottanta, il decennio della grande diffusione del VHS) è una delle caratteristiche principali che contraddistingue diversi esponenti della new wave statunitense degli anni novanta. Se infatti la generazione dei cineasti impostisi negli anni settanta si era formata accademicamente nelle università di cinema (si pensi appunto ai vari Spielberg, Scorsese, Lucas e Coppola), registi come ad esempio Quentin Tarantino e David Fincher, per quanto possano essere diverse le loro poetiche e ascendenze, sono accomunati dal non avere una formazione universitaria.

Ma torniamo all’Anderson ventenne. Avendo abbandonato la «New York University Film School» dopo soli due giorni, come detto poc’anzi, egli poté riscattare i soldi della tassa d’iscrizione, con i quali decise di tornare in California per iniziare a lavorare. Si affacciò nel mondo dello show-business, con ogni probabilità grazie alle numerose conoscenze del padre nel campo, prima come fattorino e poi come assistente di produzione in alcuni show televisivi (tra cui il «Quiz Kid Challenge», al quale qualche anno più tardi si ispirerà per l’ideazione del programma televisivo a quiz presente in

Magnolia).

La formazione andersoniana, dunque, è stata eminentemente pratica, basata sull’esperienza sul campo piuttosto che sull’apprendimento teorico. Nel suo cinema non vedremo mai, come nel caso dell’opera della Bigelow, sequenze che rimandano apertamente a concetti filosofici o psicoanalitici, oppure a paradigmi sorti nell’ambito degli studi cinematografici: si pensi alla sequenza dello «stadio dello specchio» lacaniano (vedi cap. II, paragrafo 2.1) o al modo in cui viene tratteggiato il rapporto

4

Le parole dell’autore nordamericano si trovano all’interno dell’articolo del critico cinematografico statunitense Patrick Goldstein intitolato The New New Wave, pubblicato il 12 dicembre 1999 sul «Los Angeles Times» (traduzione mia). Il testo è disponibile anche online all’indirizzo: http://articles.latimes.com/1999/dec/12/entertainment/ca-42968 (11 marzo 2015).

107

dialettico tra Mace e Lenny in Strange Days, che sembra consciamente ribaltare la teoria sul cinema classico proposta da Laura Mulvey in Piacere visivo e cinema

narrativo (vedi cap. II, paragrafo 2.2).

Nel tempo libero tra un impegno televisivo e l’altro, Anderson scrisse e diresse

Cigarettes and Coffee (1993)5, un cortometraggio di ventiquattro minuti in cui si intrecciano brevemente le vite di cinque persone che si trovano casualmente a mangiare nello stesso ristorante economico. Girato con una macchina da presa noleggiata per 23.000 dollari, il corto ebbe un notevole successo al suo debutto nel 1993 al «Sundance Film Festival», divenendo un vero e proprio cult tra gli appassionati di cortometraggi e gli addetti ai lavori6.

Da Cigarettes and Coffee Anderson trasse l’ispirazione per il suo primo vero lungometraggio, Sydney (Hard Eight, 1996), che può esserne considerato una sorta di espansione. La pellicola è ambientata a Reno nel Nevada, dove John Finnegan (John C. Reilly, che collaborerà con Anderson in maniera continuativa fino a Magnolia) viene tanto improvvisamente quanto misteriosamente preso sotto l’ala protettiva del veterano giocatore d’azzardo Sydney (Philip Baker Hall), il quale gli insegna come guadagnare facilmente denaro in un casinò mostrandogli i suoi vecchi trucchi del mestiere, con l’intenzione di farlo uscire dalla difficile situazione economica ed esistenziale in cui versa. Soltanto oltre i tre quarti del film, in un esempio di quella che David Bordwell

definisce «restricted narration»7, scopriamo il motivo di questo atteggiamento

dell’uomo nei confronti del giovane: quando era un killer professionista, infatti, aveva ucciso suo padre. Dunque, desideroso di riparare per quanto possibile il delitto, Sydney si era posto come unico obiettivo quello di rendere la sfortunata vita dell’orfano John, che all’inizio della pellicola si viene a sapere che ha da poco perso anche la madre, meno dolorosa e greve possibile.

Il film, interpretato anche da Samuel L. Jackson e da Gwyneth Paltrow, affronta già alcuni dei temi che si riveleranno dominanti nella cinematografia andersoniana e che

5

Il cortometraggio in questione è visionabile su Youtube, in bassa qualità, all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=lfk1b65lb-M (23 marzo 2015).

6 Le informazioni biografiche sinora riportate sono in gran parte tratte dal già citato Sharon Waxman,

Rebels on the Backlot: Six Mavericks Directors and How They Conquered the Hollywood Studio System.

7 La «restricted narration», opposta a quella «unrestricted» o onnisciente, è per Bordwell quel tipo di

narrazione che, privilegiando il punto di vista di un personaggio in particolare, porta a un tardivo svelamento di un’informazione diegetica fondamentale che concerne i rapporti tra i personaggi principali. Vedi David Bordwell, Principles of Narration, in Id., Narration in the Fiction Film, Madison, The University of Wisconsin Press, 1985, pp. 48-62.

108

verranno approfonditi con particolare efficacia e maestria soprattutto in Magnolia,

come si vedrà in seguito nella estesa analisi del film: il rapporto tra genitori e figli; il

fondamentale ruolo (positivo o negativo) che ha una figura familiare, naturale oppure acquisita, nella vita dell’uomo e nello sviluppo della sua personalità; il passato delle persone che, se non debitamente elaborato, tende inesorabilmente a riemergere proprio quando si è convinti di averlo definitivamente lasciato alle spalle – si pensi ai numerosi

personaggi ostaggi del loro passato, e in particolare della profonda frattura creatasi nella relazione con i genitori, che abitano quel caleidoscopio che è l’universo diegetico di

Magnolia; il ruolo del caso, il grande burattinaio che tesse ineluttabilmente le fila di tutte le vicende umane (in Ubriaco d’amore, 2002, la materializzazione di questo tema

viene affidata allegoricamente a un harmonium dal carattere quasi magico, ma è

Magnolia a riflettere ampiamente sull’incidenza della casualità nell’esperienza

quotidiana degli uomini).

Sydney viene presentato al Festival di Cannes del 1996 nella sezione «Un Certain

Regard», ottenendo un’ottima accoglienza da parte degli addetti ai lavori. Grazie a questo successo critico, il giovane Anderson si trovò nella invidiabile situazione di poter girare immediatamente il film successivo Boogie Nights (1997), sviluppato da un acerbo cortometraggio di ben trentuno minuti che aveva girato all’età di diciassette anni: una sorta di mockumentary su una giovane pornostar ispirato alla vita reale di John Holmes

(The Dirk Diggler Story, 19888).

Attraverso un arco temporale di dieci anni, a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, Anderson narra le vicende di Eddie Adams (Mark Wahlberg), un ragazzo sessualmente superdotato che viene scritturato dal regista di film pornografici Jack Horner (Burt Reynolds), divenendo nel giro di pochi mesi il divo

assoluto del genere con il nome d’arte di Dirk Diggler. Intornoa Eddie/Dirk gravita una

serie di personaggi legati al mondo del porno losangelino: Amber Waves, una pornodiva dall’atteggiamento materno con problemi familiari (Julianne Moore); Rollergirl, una giovane e ingenua attrice porno così soprannominata in quanto non si separa mai dai suoi pattini (Heather Graham); Little Bill, un aiuto-regista continuamente tradito dalla moglie (William H. Macy); Scotty J., uno spaesato e introverso tecnico del

8 Come nel caso di Cigarettes and Coffee, anche The Dirk Diggler Story può essere visionato su Youtube.

109

suono omosessuale (Philip Seymour Hoffman); Buck Swope, una pornostar di colore con il sogno di aprire un negozio di stereo (Don Cheadle); Reed Rothchild, un altro attore porno che vorrebbe fare il prestigiatore (John C. Reilly); e molti altri ancora.

Anderson, come sempre anche autore unico della sceneggiatura, racconta questo microuniverso con ironia e senza infingimenti, spiazzando chi guarda con un approccio sensibile e senza giudizio, appassionato e a tratti persino affettuoso. Come scrive Antonio Monda in La magnifica illusione: un viaggio nel cinema americano (2007), «il film […] si rivela uno dei più interessanti e innovativi degli ultimi tempi: il regista ama i personaggi che racconta ed è interessato a rappresentarli a tutto tondo». Il notevole virtuosismo registico espresso in alcune sequenze non si rivela mai essere autoreferenziale o fine a se stesso, piuttosto «contribuisce a costruire lo spessore dell’umanità dei personaggi raccontati, il loro disorientamento, il loro vagare

inconsapevole come naufraghi all’interno di un mondo insulso»9.

La peculiare attenzione nei confronti dell’umanità dei personaggi è una caratteristica che accomuna il cinema di Anderson a quello di uno dei suoi più solidi punti di riferimento artistici, Robert Altman. Come lo stesso Anderson ha scritto di sé nella prefazione al volume monografico di David Thompson dedicato al grande regista statunitense deceduto nel novembre del 2006:

Ho rubato da Bob come meglio ho potuto. Quando per la prima volta ho iniziato davvero a pensare al cinema come a qualcosa che avrei voluto provare, l’opera che mi parlava di più era la sua. […] È difficile trovare degli eroi nei film di Bob. La maggior parte dei suoi personaggi è semplicemente gente che tenta di andare avanti nella vita senza troppo scompiglio. I film di Bob mi hanno insegnato ad avere fiducia nel fatto che la cosa più interessante – la sola cosa interessante sullo schermo – sono le persone10.

Se nel capitolo dedicato a Kathryn Bigelow abbiamo approfondito specialmente

Strange Days, considerato il film più rappresentativo della poetica della cineasta

nordamericana, nel caso di Paul Thomas Anderson, dopo questa necessaria introduzione alla formazione e alle prime esperienze di regia, ci concentreremo soprattutto su

9

Antonio Monda, La magnifica illusione: un viaggio nel cinema americano, Roma, Fazi, 2007, p. 335.

10 Paul Thomas Anderson, Foreword, in David Thompson, Altman on Altman, London, Faber and Faber,

2006, pp. XV-XVI (traduzione mia). Esiste anche una pubblicazione italiana di questo volume: Altman racconta Altman, Milano, Kowalski, 2007.

110

Magnolia. Opera, questa, che può essere senz’altro considerata una delle vette più alte

della sinora ristretta ma eccellente produzione del quarantaquattrenne regista californiano e che ci permetterà di soffermarci ampiamente – e spesso da angolazioni diverse rispetto a quanto fatto nel precedente capitolo – su diversi concetti proposti nel primo capitolo teorico.

2. Premesse teoriche per l’analisi di Magnolia: «network narratives», narrazione

«eccessiva» e legami con il melodramma cinematografico.

Il concetto di «self-consciousness», così fortemente caratterizzante il cinema americano contemporaneo intensificato, in Strange Days e ancor di più in The Hurt

Locker si palesava con notevole forza sul piano stilistico, dando ampio spazio a

dissertazioni su concetti teorici quali quelli di «immersività», «stile intensificato», «hypermediated», «heightened» o «energy realism», «mediated» o «manipulated time». Permettendo così di portare avanti un discorso complessivo sulla peculiare esperienza spettatoriale messa in gioco, legata a doppio filo ai concetti di «dual perspective» e «operational aesthetic» e sinora approfondita in questa sede privilegiando i frammenti filmici costituiti dagli incipit (vedi cap. II, in particolare il paragrafo 2.4, ma anche i paragrafi 3 e 3.1).

Magnolia (1999), come si vedrà in seguito, certamente si presta ad una simile analisi,

esibendo persino quello che può essere definito un doppio incipit intensificato; ma al

contempo consente di indagare a fondo la questione della consapevolezza o dell’auto- coscienza del prodotto filmico tanto dal punto di vista stilistico quanto da quello narrativo.

Per il ricorso a didascalie che suddividono il film in capitoli, a voci narranti (i

narratori nel film sono due: uno interno e uno esterno onnisciente, i quali ci introducono al film per poi congedarci nel finale) e soprattutto per il fatto di essere un film corale che alterna e incrocia con rara sapienza drammaturgica, lungo le sue tesissime tre ore di narrazione, numerose linee diegetiche che si intrecciano, Magnolia in ogni momento e

111

artificiale, alla propria natura di costrutto finzionale. E lo fa prepotentemente anche attraverso espedienti narrativi, a differenza di quanto avviene nei casi analizzati di Strange Days e The Hurt Locker, dove invece la narrazione è pressoché lineare e, da

questo punto di vista, più vicina a quella classica nella sua struttura di base.

Magnolia appartiene chiaramente a quel genere di narrazioni che David Bordwell ha

chiamato «network narratives», vale a dire gli ensemble movies o, appunto, i film corali. Questo peculiare tipo di narrazione – divenuto celebre con Robert Altman, affermatosi negli anni ottanta ed esploso a partire dalla metà degli anni novanta, sino a influenzare con le proprie strategie anche un gran numero di pellicole non direttamente ricollegabili alle «network narratives» – è in tal modo definito dallo studioso nordamericano per la

prima volta in The Way Hollywood Tells It 11.

Due anni dopo, viene poi ampiamente approfondito in Poetics of Cinema (2008), un prezioso volume dove sono raccolti alcuni suoi significativi saggi scritti nel corso di trent’anni di studi accademici, oltre a interventi nuovi tra i quali quello che in questo caso ci interessa direttamente: Mutual Friends and Chronologies of Chance. Qui Bordwell si propone di mettere in luce i peculiari principi costruttivi che regolano tale

genere di narrazione cinematografica12.

Innanzitutto, esso coinvolge più personaggi co-protagonisti, che svolgono un ruolo di eguale peso all’interno del racconto, e rappresenta sicuramente una novità rispetto alle narrazioni tradizionali cui lo spettatore era abituato fino agli anni settanta (Nashville, per Bordwell primo eclatante caso di «network narrative», è del 1975). Coerente con i suoi assunti teorici, tuttavia, lo studioso statunitense, nel suo costante impegno legato alla ricerca di legami tra tendenze contemporanee e tradizioni del passato, è abile nel rintracciare pellicole precedenti ricollegabili alle «network narratives» (cita Grand

Hotel di Edmund Goulding, 1932, L’idolo cinese di Jean Negulesco, 1946, e International Hotel di Anthony Asquith, 1963), che però oggi «sembrano essere per noi

11 David Bordwell, The Way Hollywood Tells It. Story and Style in Modern Movies, Berkeley, University

Documenti correlati