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Come osserva Anders nelle prime righe del secondo volume de L’uomo è

antiquato, ci troviamo oggi a vivere «nell’era della tecnocrazia», dove per

tecnocrazia non si intende «il dominio dei tecnocrati (come, ad esempio, un gruppo di quegli specialisti che dominano oggi la politica), ma il fatto che il mondo, nel quale oggi viviamo e in cui tutto si decide sopra le nostre teste, è un mondo tecnico»227. In termini heideggeriani, esso non è che l’espressione della nietzschana volontà di potenza intesa come tecnica che calcola, misura, pianifica, organizza, esercitando così il proprio incontrastato dominio.

Il secolo scorso ha visto scontrarsi due grandi sistemi politico-economici, il capitalismo e il comunismo, intenti nell’affermare la propria supremazia sull’avversario e sul mondo intero; tuttavia, l’unica forza che sembra dominare il mondo è la tecnica: viviamo infatti oggi nell’epoca del «tecnototalitarismo»228

. L’unica vera rivoluzione che ha caratterizzato il Novecento e che continua, in quanto ‘rivoluzione permanente’, è dal punto di vista di Anders la «rivoluzione tecnica»229

, la quale è neutrale rispetto ad ogni sistema politico ed economico e afferma la sua 224 Ivi, p. 83. 225 Ivi, p. 84. 226 Ibidem. 227

G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 3.

228

Ivi, p. 157. Cfr. anche G. Anders, Noi figli di Eichmann, trad. it. A.G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 2003, p. 58: «E il mondo come macchina è veramente la condizione tecno totalitaria verso cui stiamo andando».

229

65 dittatura in maniera indifferenziata nei diversi contesti sociali, indipendentemente dal loro orientamento politico. Anzi, secondo Anders, è plausibile che le rivoluzioni a cui abbiamo assistito nel secolo scorso siano state causate proprio dalla tecnica, che agisce nascostamente provocando cambiamenti laddove il sistema politico non è più adeguato allo sviluppo tecnico raggiunto. Tuttavia, nonostante la dittatura della tecnica, i programmi politici della maggior parte dei paesi, almeno di quelli industrializzati, anche laddove si differenzino tra loro, come avvenuto nello scontro tra comunismo e democrazia, dipenderebbero solamente dalle diverse situazioni sociali ed economiche in cui si inserisce la tecnica: infatti, nel mondo odierno, la politica non è che «ideologia» e i programmi economici semplici «sovrastrutture costruite su ‘technological requirements’»230

. Sistema capitalista e comunismo sono quindi equiparati, in quanto entrambi ubbidiscono alle leggi della tecnica; solo i paesi sottosviluppati si sottraggono a questa logica, anzi in queste parti del mondo, dal punto di vista di Anders, «la mancanza della tecnica […] è un pericolo incomparabilmente maggiore della sua esistenza»231.

Heidegger riprende Nietzsche che annuncia l’avvicinarsi del «tempo in cui sarà ingaggiata la lotta per il dominio della terra»232, e tale scontro vede effettivamente fronteggiarsi le principali forze politiche ed economiche del secolo scorso, il nazifascismo, il comunismo e l’americanismo; tale scontro, conclusosi con il trionfo del capitalismo occidentale, altro non è stato che lo scontro tra «gradi e forme diverse di una medesima volontà di potenza che, attraverso la tecnica, intende imporre il proprio dominio sull’intero pianeta»233

. Dunque, anche Heidegger, non vede alcuna differenza fra i diversi sistemi politici, che altro non sono che imperi della tecnica: «Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato»234

. La dimensione che in esse predomina è quella di un desolante livellamento, causato dalla riduzione di ogni cosa all’estensione e al numero.

La tecnica ha finito per prendere il sopravvento, dominando ogni ambito umano, così che anche ogni accadimento politico finisce per svolgersi nel suo ambito, non 230 Ibidem. 231 Ivi, p. 114. 232

M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 807.

233

C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in AA. VV., Heidegger e gli orizzonti della

filosofia pratica., a cura di A. Ardovino, Guerini studio, Milano 2003, p. 173. 234

66 potendo prescindere da essa e dal suo immenso potere. Dominando la produzione e il produrre umano essa influenza inevitabilmente l’economia e di conseguenza anche la politica, al punto che «sarebbe stolto sperare che le illibertà scompariranno con la fine del capitalismo che forse un giorno avverrà, dato che queste illibertà sono conseguenze della tecnica assai più che dei rapporti di proprietà», infatti la tecnica non si muove nella direzione della «libertà dell’uomo, bensì nella direzione del

totalitarismo degli apparecchi»235.

Come visto dunque, i sistemi politici altro non sono che l’adeguazione ai sistemi tecnici di produzione vigenti, per questo motivo Anders parla di ‘taylorismo politico’, riferendosi al fatto che i capi politici fanno di tutto per mantenersi in linea con i ritmi della storia dettati dalla tecnica, in quanto temono di rimanere indietro, risultando così arretrati:

essi considerano confortanti e persino vincolanti i ritmi e gli effetti dello sviluppo tecnico, per quanto questi siano ormai divenuti da tempo insostenibili. E come loro siamo naturalmente noi tutti: al pari dei governanti anche i governati, diventano fiancheggiatori ed epigoni dell’attuale tecnica.236

E così ci rendiamo tutti vittime del totalitarismo della tecnica, che si impone tanto nei sistemi politici dittatoriali che in quelli considerati liberi: infatti, il totalitarismo politico non è che un effetto ed una variante del totalitarismo tecnico.

L’epoca del totale dominio tecnico planetario dunque non solo sancisce la fine della filosofia, come Heidegger ha più volte affermato, ma anche della politica, costretta a servire gli interessi tecnici che ormai impongono il loro dominio. La politica serve solo più da propaganda e apologetica, una sorta di ‘copertura’ rispetto agli interessi della tecnica moderna, vero motore degli avvenimenti tanto politici quanto economici. Oggi, più che mai, siamo convinti che il sistema politico, ma più ancora l’economia, determinino la potenza e il primato di una o più nazioni sulle altre. Tuttavia, a mio parere, è piuttosto evidente il fatto che alla base tanto dell’economia quanto della politica di un paese, e soprattutto della sua potenza, vi sia lo sviluppo tecnico raggiunto. La Guerra fredda è forse l’esempio più lampante: un conflitto

235

G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 98.

236

67 combattuto a distanza attraverso la corsa agli armamenti, dove la potenza di una delle due parti era misurata sulla base della supremazia tecnica. E ai giorni nostri stiamo assistendo alla crescita imponente di nazioni un tempo arretrate, le quali, puntando sullo sviluppo scientifico-tecnologico, in pochi decenni sono arrivate a competere con le più potenti economie mondiali, dimostrando così, ancora una volta, quanto la tecnica oggi sia la misura della potenza di una nazione e come la politica e l’economia, non siano in realtà, altro che ‘sovrastrutture’.

2.2.1 Heidegger e il nazionalsocialismo

E’ nota la controversa adesione di Heidegger al nazionalsocialismo con l’assunzione della carica di rettore dell’Università di Friburgo, sancita dal famoso discorso di rettorato su L’autoaffermazione dell’Università tedesca, avvenuta nel 1933, quando Hitler aveva da poco preso il potere, o perlomeno la fiducia nella «nobiltà e grandezza di questa riscossa»237 che questo movimento sembrava auspicare. Nonostante il discorso di rettorato sia incentrato sulla rifondazione e riorganizzazione dell’università, emergono alcuni elementi dai quali traspaiono le aspettative che Heidegger nutriva nei confronti di quella che sembrava preannunciarsi come una promessa di rinnovamento, «la sensazione che qui c’era qualcosa di nuovo»238

. Heidegger auspicava infatti il recupero della scienza in quanto tale, nella sua vera essenza, e della techne intesa come sapere, aletheia, così come era stata intesa all’inizio della filosofia: quel sapere che avrebbe condotto il popolo tedesco alla grandezza e al recupero di quella verità che il pensiero metafisico aveva oscurato.

Se però nel ‘33 Heidegger sperava che il movimento nazionalsocialista potesse essere davvero in grado di sottrarla al suo destino nichilistico, questa speranza durò neppure lo spazio del suo brevissimo rettorato. Già alla fine degli anni Trenta tutta l’umanità appariva ormai minacciata da quell’uniformazione tecnica che divenne agli occhi di Heidegger il ‘supremo pericolo’. Essa è infatti un fenomeno dal carattere «planetario che nella sua forma essenziale presenta senz’altro gli stessi tratti in America e in Russia, in Giappone e in Italia, in Inghilterra e in Germania, e che

237

M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’Università tedesca. Il rettorato 1933/34, trad. it. C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1988, p. 30.

238

M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo ‘Spiegel’, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, p. 114.

68 curiosamente è indipendente dalla volontà dei singoli, dalla specie dei popoli, degli stati, delle civiltà»239.

E’ proprio guardando al tratto totalitario del nazionalsocialismo e al suo carattere intrinsecamente violento e aggressivo che Heidegger riconosce il carattere smisuratamente violento della tecnica moderna. Ecco allora che l’«incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno» che gli era sembrato costituire «l’intima verità e la grandezza di questo movimento»240 gli è sfuggita di mano, così che essi hanno fallito il loro compito storico, di permettere all’uomo di conquistare un rapporto con l’essenza della techne. Il nazionalsocialismo andava in questa direzione, e da questo dipendeva l’iniziale fiducia di Heidegger verso questo movimento, tuttavia «questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero, per ottenere un effettivo esplicito rapporto con ciò che oggi accade e da tre secoli è in cammino»241.

Ecco allora che il Führer, inizialmente esaltato quale unica «realtà effettuale tedesca dell’oggi e del domani e la sua legge»242 per la grandezza del popolo tedesco, si dimostra essere null’altro che un funzionario del sistema dell’organizzazione totale; nessun capo politico sembra infatti essere in grado di guidare le sorti del mondo senza obbedire egli stesso per primo agli imperativi provenienti dalla tecnica. Heidegger è arrivato a comprendere, nelle riflessioni successive alla rinuncia alla carica di rettore, avvenuta nel ‘34, il processo di spoliticizzazione causato dal dominio tecnico del mondo e la logica al contempo nichilistica e totalitaria che governa questo processo. Così, la sconfitta del nazifascismo non poteva certo segnare la fine dell’era del totalitarismo, e l’avvento salvifico degli americani e dei sovietici non poteva essere salutato con entusiasmo poiché non rappresentava altro che l’avvento di altre forme, altrettanto nichilistiche, orientate al dominio tecnico del mondo. Così come la finale affermazione del capitalismo, nella forma dell’americanismo, è risultata dalla capacità di camuffare il totalitarismo tecnico nel suo contrario «sostituendo l’edonismo consumistico al terrore, la pubblicità alla propaganda, il regno della libertà e della libera realizzazione degli interessi di ciascuno all’assoggettamento delle masse», così che essa «essendo oggi la padrona della Tecnica, è diventata la padrona del mondo»243.

239

M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 394 .

240

M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 130.

241

M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, cit., p. 146.

242

Ivi, p. 113.

243

69 Heidegger non ha mai espresso un giudizio politico, né morale sul nazionalsocialismo, ne ha però preso le distanze e ne ha dato una lettura che si colloca nella più generale lettura della storia dell’essere. Tuttavia, esso ha sicuramente favorito la sua riflessione sulla tecnica e sul suo totalitarismo alla base di ogni forma politica oggi esistente, infatti come scrisse in una lettera inviata a Jaspers nel 1950, la causa del male non è finita con la fine del nazionalsocialismo ma, anzi, è appena «entrata in un vero e proprio stadio universale» che si colloca al di là di ogni sfera politica, in quanto questa non è ormai altro che una semplice «parvenza di esistenza» che rinvia ad «altri rapporti con l’essere»244

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