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3. Università del Tōhoku, internazionalizzazione e mobilità

3.2. Education first o tourism first: i presupposti per un contesto di marginalizzazione

Questa breve contestualizzazione dell’internazionalizzazione dell’Università del Tōhoku è fondamentale per identificare le somiglianze con le problematiche riportate da altri autori impegnati nello studio del fenomeno a livello globale; i dubbi e le preoccupazioni da loro espressi sono del tutto in linea non solo con i risultati della mia precedente esperienza di mobilità nel campus Kawauchi di Sendai, ma anche con le lamentele emerse dalle conversazioni con gli interlocutori durante questa ricerca. Uno dei primi elementi a comparire da queste conversazioni, infatti, è stato proprio quello delle aspettative tenute prima dell’arrivo in Giappone – incontro con la comunità locale, amicizie con i colleghi del posto e immersione nella “cultura” giapponese – e della profonda insoddisfazione causata dalla loro mancata concretizzazione. I recenti studi sull’educational tourism permettono di comprendere più nel dettaglio questi desideri e la delusione causata dall’incontro con l’effettivo ambiente del campus, mettendo in luce lo scarto tra il desiderio di un’esperienza

25 https://www.tohoku.ac.jp/en/about/history.html

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education first e l’offerta di uno scambio tourism first. Nel già citato studio di Llewellyn-Smith (2008), ad

esempio, la rielaborazione che gli studenti fanno della propria esperienza di mobilità nell’ateneo australiano è chiaramente in linea con la prospettiva tourism first, proprio per gli specifici riferimenti ad attrazioni turistiche, escursioni e paesaggi; le aspettative degli studenti sarebbero quindi in linea con le specifiche politiche di internazionalizzazione, mantenendo al minimo l’attrito tra studenti e destinazione. L’incontro con la popolazione locale, tuttavia, non è così facilmente classificabile all’interno dello spettro che divide le prospettive education first e tourism first, un fattore che richiede un’analisi più approfondita.

Le considerazioni di McGladdery (2017) sulle specifiche interpretazioni che gli attori fanno della propria esperienza all’estero aiutano in questo caso a definire meglio il contesto della mobilità nell’ateneo di Sendai. Gli studenti conosciuti durante questa ricerca, per quanto saltuariamente impegnati in viaggi e gite fuori porta, si sono sempre dimostrati consci della propria posizione di studente o lavoratore, enfatizzando in particolare l’impegno quotidiano nelle proprie ricerche e nei propri studi; questo fattore in particolare permette di definire i desideri degli interlocutori in una prospettiva education first, per quanto decisamente sfumata. L’esperienza degli studenti internazionali, nonostante l’enfasi posta su ricerca e crescita accademica, sembra sempre essere inquadrata in un’ottica turistica o perlomeno temporanea; la risposta dell’Università del Tōhoku a questo tipo di desideri e aspettative è in questo senso del tutto insufficiente. Offerte lavorative, materiale informativo e guide per studenti, infatti, rimarcano sempre la temporaneità delle esperienze in Giappone, suggerendo agli studenti di viaggiare, visitare le principali attrazioni della regione e ricercare una qualche “autenticità” che il Giappone può offrire.

Nel precedente capitolo ho affermato la necessità di non ignorare il potere descrittivo del concetto di “comunità internazionale”, un concetto che permette di contestualizzare le narrazioni e i discorsi prodotti dagli studenti internazionali all’interno di una comunità a loro preesistente. Considerare le esperienze di mobilità in termini di capitale simbolico permette di comprendere le motivazioni che in primo luogo spingono gli studenti a partecipare ai progetti di mobilità internazionale e di situare, di conseguenza, le singole esperienze in un’ottica education/tourism first; non tenendo in considerazione il contesto delle destinazioni, tuttavia, questa prospettiva non permette di analizzare le situazioni di marginalità che si manifestano durante le esperienze, specialmente quando queste circostanze sono narrate utilizzando termini che fanno parte dei discorsi identitari propri delle destinazioni. Le narrazioni che gli studenti internazionali fanno della propria posizione rappresentano, come afferma la già citata Hayes (2018:293), una delle lenti attraverso cui analizzare il contesto di marginalizzazione nel quale essi sono inseriti.

Queste narrazioni non solo offrono punti di vista e spunti di riflessione sull’inefficace risposta che l’istituzione universitaria offre alle loro lamentele, ma permettono anche di comprendere a fondo il

41 sentimento di coesione che sembra unire una parte delle esperienze di mobilità nel campus di Kawauchi. Contrariamente alle speranze di Tran (2017) in merito alla formazione, in situazioni di marginalità condivisa, di collettivi studenteschi in grado di fare leva su un maggiore potere negoziativo, le circostanze presenti nell’Università del Tōhoku non sembrano in alcun modo spingere verso un cambiamento di questo tipo. Gli interlocutori conosciuti durante questa ricerca hanno infatti spesso rimarcato la propria appartenenza ad una comunità, quella dei gaijin (stranieri), un’identificazione causata dalla condivisione della medesima situazione di marginalità. Gli effetti di questa identificazione sembrano limitarsi, tuttavia, alla convinzione che gli ostacoli incontrati durante l’esperienza di mobilità siano semplicemente il frutto della convivenza in Giappone di due categorie essenzializzate, “giapponesi” e “stranieri”, una situazione che spesso viene presentata come una verità incontrovertibile.

Il fatto che tali categorie siano acriticamente tratte dai discorsi identitari giapponesi non dovrebbe stupire più di tanto. Jones (2017:53), nel discutere i rischi insiti ad un utilizzo del concetto di edutourism in chiave meramente economica, riporta in particolare il pericolo che le esperienze di mobilità si trasformino in “esercizi voyeuristici”, specialmente in assenza di un’adeguata preparazione critica. Il mito della “monoetnicità” giapponese, che ancora oggi caratterizza le rappresentazioni del Giappone e le sue autorappresentazioni e che punta i riflettori sugli stranieri presenti all’interno della società, potrebbe fornire una semplice ed ovvia spiegazione alla marginalizzazione descritta dagli interlocutori: in una società storicamente rappresentata come chiusa, etnicamente omogenea e linguisticamente compatta, una generica posizione di “straniero”, definita in base a ciò che non è “giapponese”, è molto più accentuata rispetto all’effettiva intersezionalità dei singoli individui.

Questa spiegazione non è comunque frutto di un individuale incontro con la società giapponese ma è, al contrario, un’interpretazione costantemente ricostruita nei discorsi, nelle pratiche e nell’incontro quotidiano tra gli studenti internazionali. Questo processo costringe ad analizzare le individuali esperienze di mobilità in un’ottica di continuità temporale con quelle svolte, in passato, da altri individui; gli studenti in mobilità entrano inevitabilmente in contatto, in altre parole, con un particolare habitus che, in parte, ne informa le pratiche quotidiane e i sistemi di significati:

“One of the fundamental effects of the orchestration of habitus is the production of a commonsense world endowed with the objectivity secured by consensus on the meaning (sens) of practices and the world, in other words the harmonization of agents' experiences and the continuous reinforcement that each of them receives from the expression, individual or collective (in festivals, for example), improvised or programmed (commonplaces, sayings),of similar or identical experiences.” (Bourdieu, 1977:80)

42 La somiglianza delle conversazioni e degli incontri registrati durante questa ricerca con quelli che io stesso ho vissuto quattro anni fa è solo uno degli esempi della continuità dei discorsi prodotti e riprodotti nel contesto del campus di Kawauchi. Questa continuità è aiutata dalla presenza, ad esempio, di alcune “figure guida” – studenti, ex-studenti o connazionali che hanno deciso di stabilirsi a Sendai e che si prendono carico dell’accoglienza dei nuovi studenti in mobilità, guidandone i primi passi nel nuovo contesto universitario e “culturale”. Stereotipi, generalizzazioni e razzismo che vengono tramandati di programma in programma contribuiscono indubbiamente al mancato incontro con gli studenti locali, poiché caratterizzano l’intera situazione da un’aura di ineluttabilità. Considerare la “comunità internazionale” in termini di habitus non significa tuttavia negarne l’agency: queste pratiche, che nel lungo termine sono sicuramente controproducenti ad un incontro più significativo, rappresentano nel breve termine una tattica per resistere alle situazioni di disagio (Hayes, 2018) causate proprio dalla percezione di vivere una “vita parallela”.

Il fatto che non esistano particolari forme di bifurcated marketing potrebbe fornire un’ulteriore spiegazione dell’identità relativamente omogenea di gaijin: tutti gli studenti in mobilità sembrerebbero interfacciarsi con un unico e potente immaginario che non lascia spazio a diverse interpretazioni delle realtà presenti nella città di Sendai e che imposta il discorso secondo il paradigma us/them. È proprio in questo senso che il concetto di “comunità internazionale” diventa un’utile strumento di indagine: esso permette, infatti, di cogliere non solo la partecipazione degli studenti in mobilità presso l’Università del Tōhoku al più vasto immaginario che si configura nell’eduscape, ma anche l’intersezione di questo immaginario con le specificità della destinazione. Tra queste specificità assumono una particolare rilevanza l’immaginario turistico del Giappone e le retoriche identitarie giapponesi che, come già affrontato brevemente, sono il frutto del continuo dialogo tra i discorsi orientalizzanti che vedono il Giappone come il più “alieno” tra i Paesi “orientali” e le autorappresentazioni proprie delle “teorie sul popolo giapponese”. La categoria di “studente internazionale”, infine, non è una forma di identificazione omogenea: la partecipazione alla declamata “diversità” del campus richiede in alcuni casi una messa in scena della propria identità nazionale – specialmente, come nel caso degli eventi organizzati da e per gli studenti internazionali, quando la nazionalità diventa l’oggetto delle conversazioni e assume il ruolo di mediatore in questo incontro “multiculturale”.