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Egli, onorando gentiluomo, mi pare peccare nella ingratitudine, se io non pagassi con le lodi una parte di quel che son tenuto a la divinità del sito,

do-ve è fondata la vostra casa, la quale habito con sommo piacere della mia

vi-ta, per ciò che ella è posta in luogo che né ’l più giuso né ’l più suso, né ’l

più qua né ’l più là ci trova menda. Onde temo entrando nei suoi meriti,

co-1

Lettere, I, 18; e Lett. all’A., I, 57 e 68.

2

Lettere, I, 169. — Di là godeva quello stupendo panorama sull’ora del tramonto, che ha

descritto nella famosa lettera a Tiziano (III, 48).

me si teme a entrare in quegli dello Imperadore. Certo, chi la fabricò le diede

la perminenza del più degno lato ch’habbia il Canal grande. E per esser egli

il Patriarca d’ogni altro rio, e Venezia la papessa d’ogni altra cittade, posso

dir con verità ch’io godo della più bella strada e della più gioconda veduta

del mondo. Io non mi faccio mai a le finestre, ch’io non vegga mille persone

et altre tante gondole su l’hora dei mercatanti. Le piazze del mio occhio

di-ritto sono le beccarie e la pescaria, et il Campo del Mancino, il ponte et il

fondaco dei Tedeschi: a l’incontro di tutti e due ho il Rialto calcato

d’huomini da faccende. Hocci le vigne nei burchi, le caccie e le uccellagioni

nelle botteghe, gli horti nello spazzo; né mi curo di veder rivi che irrighino

prati, quando all’alba miro l’acqua coperta d’ogni ragion di cosa, che si

tro-va nelle sue stagioni. È bel trastullo mentre i conduttori della gran copia dei

frutti e de l’herbe le dispensano in quegli che le portano ai luoghi deputati.

Ma tutto è burla eccetto lo spettacolo de le venti e venticinque barche con le

vele, piene di melloni, le quali ristrette insieme si fanno quasi isola a la

mol-titudine corsa a calculare e col fiutargli e col pesargli la perfettione loro. De

le belle spose relucenti di seta, d’oro e di gioie superbamente poste nei trasti,

per non iscemar la reputatone di cotanta pompa non parlo; dirò ben, io mi

smascello de le risa, mentre i gridi, i fischi e lo strepito dei barcaiuoli

fulmi-na dietro a quelle che si fan vogare da famigli senza le calze di scarlatto. E

chi non s’haveria pisciato sotto vedendo nel cuor del freddo rovesciarsi una

barca calcata di Thedeschi, pur allhora scappati de la taverna, come

vedem-mo il favedem-moso Giulio Camillo et io; la cui piacevolezza mi[43] suol dire che

l’entrata per terra di sì fatta habitatione per essere oscura, mal destra, e di

scala bestiale simiglia a la terribilità del nome acquistatomi ne lo sciorinar

del vero, e poi soggiugne che chi mi pratica punto trova ne la mia pura,

schietta e naturale amicitia quella tranquilla contentezza che si sente nel

comparire nel portico e ne l’affacciarsi ai balconi sopradetti. Ma perché

niente manchi a le delitie visive, ecco ch’io vagheggio da un lato gli aranci

che indorano i piedi al palazzo dei Camerlinghi, e da l’altro il rio et il ponte

di San Giovan Grisostomo, né il sol del verno ardisce mai di levarsi se prima

non dà motto al mio letto, al mio studio, a la mia cocina, a le mie camere et a

la mia sala. E quel che più stimo è la nobiltà dei vicini. Io ho al dirimpetto

l’eloquente magnificenza de l’honorato Maffio Lioni, le cui supreme vertù

hanno instituito la dottrina, la scienza, et i costumi nel sublime intelletto di

Girolamo, di Piero e di Luigi suoi mirabili figliuoli. Hovvi ancho la Sirena,

vita et anima dei miei studi. Hovvi il magnifico Francesco Moccinico, la

splendidezza del quale è continua mensa dei cavalieri e di gentilhuomini;

veggomi acanto il buon M. Giambattista Spinelli, nella cui paterna casa si

stanno i miei Cavorlini, che Iddio perdoni a la fortuna il torto fattogli dalla

sorte. Né mi tengo piccola ventura la cara e costumata vicinanza de la

signo-ra Jacopa. In somma, s’io pascessi così il tatto e gli altri sensi, come pasco il

viso, la stanza che io laudo mi saria un paradiso, per ciò che io lo contento di

tutti gli spassi che gli ponno dare i suoi obietti. Né mi si scordano i gran

ma-estri forestieri e della terra, che frequentano di passarmi dintorno a l’uscio,

ne l’alterezza che mi solleva al cielo nell’andar giù e su del Bucentoro, né

del corso de le barche, né de le feste per cui di continuo triompha il canale

signoreggiato da la mia vista. Ma dove si rimangono i lumi che doppo la sera

paiono stelle sparse u’ si vende la robba necessaria ai nostri desinari et a le

nostre cene? Dove le musiche che la notte poi mi grattano l’orecchie con la

concordia de le lor consonanze? Prima si esprimerebbe il giuditio profondo

che voi havete nelle lettere e nel governo publico, ch’io potessi venire al fine

dei diletti ch’io provo nelle commodità del vedere. Per ciò se qualche spirto

nelle ciancie da me scritte respira con fiato d’ingegno, vien dal favore che

mi fanno non l’aura, non l’ombre, non le viole e non il verde, ma le gratie

ch’io ricevo da la felicità ariosa di questa vostra magione, nella qual

consen-ta Iddio ch’io annoveri con sanità et vigore gli anni che deverebbe vivere un

huomo da bene.[44]

In questa casa l’Aretino restò per oltre vent’anni,

1

e sin da’ primi tempi

la fece convegno a liete e chiassose brigate d’artisti, di avventurieri, di

cor-tigiane. Nel novembre del 1529, scrivendo al mantovano Girolomo Agnello

che gli aveva mandato del vino squisito, l’Aretino diceva di essersi veduta

«tanta turba all’uscio» che pareva o ch’egli facesse miracoli o là ci fosse il

giubileo. I suoi servitori erano tutti in faccende per riempire de’ grandi

fia-schi di quel vino da regalarne quanti ambasciatori erano a Venezia –

comin-ciando dal francese – e, aggiungeva, «ciascun buon compagno si fa venir

sete a posta per «venire a tracannarne due o tre bicchieri... E parmi un bel

1

Nel sesto delle Lettere, p. 37, abbiamo il curioso congedo dell’A. al suo padrone di casa,

che viceversa l’aveva dato prima lui all’inquilino poco esatto ne’ pagamenti. La lettera è

in-titolata «Allo ecc.» ma che si tratti del Bolani si comprende subito dalle prime linee:

«Si-gnore prestantissimo et honorando, io vi restituisco le chiavi di quella casa da me XXII anni

habitata, con lo istesso riguardo che havrei usato se fusse suta la mia; né mi s’alleghi niuna

ragione contra al pioverci per tutto et l’esser da ciascuna parte in rovina...» Ma egli

l’amava egualmente, perché là eran nate le sue figlie, là aveva composto i suoi migliori

la-vori; ed aveva fatto tutto il possibile per abbellirla. «Si guardi la camera, dove mi pensavo

di tuttavia godermela, et vedrassi nelle figure del soffitto, nella politezza del terrazzo et

nel-le altre cose del sopranel-letto et del camino che anco delnel-le discortesie con la cortesia mi

vendi-co.» Si lagna amaramente di tanta villania del padrone che mette alla porta un inquilino,

ga-rantito dall’Imperatore in persona; e soggiunge in aria di trionfo: «intanto me ne vado...

con doppia somma di fitto alla stanza signorilmente commoda, all’habitatione che ho tolta

in su la riva del Carbone...» Era la casa in parrocchia di S. Luca, dove morì nel 1556 (cfr.

T

ASSINI

, Curiosità veneziane, Venezia 1882, p. 131; e un articolo del medesimo, nell’Arch.

veneto, t. XXXI, fasc. 61, Delle abitazioni in Venezia di P. A.). Quella lettera al Bolani ha

la data del gennaio 1551, onde è chiaro che l’Aretino andò ad abitarne la casa nel 1529.

che, sendo in bocca fin de le p... e de le taverne per amor de la sua

dolcez-za che bascia e morde: e la lagrimetta che pone in su gli occhi di chi ne bee,

mi fa lagrimare mentre ch’io ne ragiono con la penna. Hor pensate ciò che

mi faria vedendolo saltare nel suo color brillante in una tazza di vetro puro

ben lavata». Davvero, conchiudeva, che diventerò divino, se potrò spesso

farmi onore di vino così fatto da dispensare, e da levarne il grido per tutta

Venezia.

1

[45]— Che importava a lui se in un brutto momento – come gli

avvenne nell’ottobre 1530

2

– si trovava svaligiata la casa da infedeli

servito-ri e cinedi che lo lasciavano al verde? Egli aveva ormai ben il modo di servito-

rifor-nirla ad altrui spese, e passata la spiacevole avventura ritornava come prima

spensierato e gaudente fra’ suoi degni compagni di gozzoviglie e di

maldi-cenza.

Uno di questi, Lorenzo Veniero, appena ventenne, era sopra tutti

caris-simo all’Aretino, che ne aveva fatto il suo scudiero, il suo allievo migliore:

3

e il giovane patrizio, prostituendo il proprio ingegno, esordì, appunto nel

1530, sotto gli auspici dell’Aretino con la P. Errante, a cui l’anno appresso

faceva seguito col Trentuno o la Zaffetta. La data del primo di questi

osce-nissimi poemetti – su cui i bibliografi danno così scarse e arruffate notizie

4

– si può, a me pare, stabilire con sicurezza dal capitolo dell’Aretino al Duca

di Mantova, che si legge nella raccolta delle opere burlesche.

5

— Tutto

oc-cupato nel far gli onori di casa all’Imperatore, che reduce da Bologna si

trat-1

Lettere, I, 17. — E nel dicembre del 1530, G. Rovero gli faceva avere del vino d’Asti:

«senza alcun suo carigo — scriveva — glielo lo darò condutto in sua casa, per non farla

li-tigar col dazio, crudele troppo, de Venetia, e farò ogni estremo per dar buona guardia al

burchio, acciò che li traditori barcaroli non glie lo adaquino.» Lett. all’A., I, 59.

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