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1.1 – Nascita dell’alpinismo: il modo nuovo di salire le montagne

Le ascensioni sono vecchie come le montagne, ma le ascensioni volontarie sono di origine recente.

Claire Eliane Engel1 E, fatta la scoperta che non si moriva soffocati, che non c‟erano draghi e il freddo poteva essere sopportabile, ecco esplodere l‟alpinismo, attività umana consistente nel salire le montagne perché sono alte, lontane e, soprattutto, “sono là”.

Emanuele Cassarà2 È stato per me difficile stabilire una data di nascita dell‟alpinismo. Da quando esistono le montagne gli uomini le hanno sempre salite, ma solo in tempi piuttosto recenti le ascensioni hanno perso il loro carattere strumentale per far spazio all‟alpinismo “inutile” (Terray, 1977). Fin dall‟antichità le vette sono state conquistate per motivi religiosi – si pensi all‟Ararat o al Kailasa –, i passi e le forcelle scavalcati per ragioni militari – da Annibale fino alla contemporanea guerra in Afghanistan –, le creste presidiate obbedendo a logiche politiche – pensiamo alle trincee dolomitiche delle guerre mondiali. Diversi storici si sono cimentati col problema di stabilire chi sia stato il primo alpinista, il primo uomo, cioè, a salire su una montagna senza alcun motivo, in un gesto fine a se stesso, per la sola gioia della ascesa.

Alcuni ricordano la salita del Petrarca sul Mont Ventoux (1920 m), nel Delfinato, risalente al 1336. Michel Aimé fa risalire la nascita dell‟alpinismo al «I° settembre 1358. È infatti a questa data, che, per la prima volta nella storia, un uomo scala un‟alta montagna sotto il solo impulso del suo animo disinteressato»3, riferendosi a Bonifacio Rotario, che scalò il Rocciamelone (3537 m). Molti sono però in disaccordo perché l‟intento del suddetto era quello di portare in vetta un ex voto in bronzo, e la salita non era quindi da considerarsi disinteressata. Secondo George Livanos4 e secondo Claire-Eliane

1 Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, 1969, Milano, Mondadori, (ed.or. 1950), cit.p. 17.

2 Emanuele Cassarà, La morte del chiodo. Fine del sesto grado sulle pareti alpine, 2002, Chiari (BS), Nordpress, cit.p. 19.

3

Michel Aimé, Storia eroica dell’alpinismo. Dal Monte Bianco al K2, 1955, Milano, Massimo, cit.p. 21. 4 George Livanos, Cassin. C’era una volta il sesto grado, 1983, Varese, Dall‟Oglio.

Engel5 il primo alpinista fu Antoine de Ville, che nel 1492 scalò il Mont Aiguille (2097 m), nel Vercors, per ordine dell‟allora Re di Francia, Carlo VIII. La salita dell‟Aiguille è ormai canonizzata come la prima salita alpinistica, soprattutto perché si tratta di una torre rocciosa, verticale su tutti i suoi versanti, che richiese l‟impegno di sette portatori, scale, corde e varî ausilî artificiali per la conquista della cima. La scalata di de Ville e compagni rimase però un caso isolato. Per veder nascere l‟alpinismo come disciplina bisognerà aspettare l‟illuminismo.

Le montagne, specialmente gli alti massicci delle Alpi Occidentali, avevano la fama di essere abitati da varie specie di draghi e creature demoniache (specialmente dopo il Concilio di Trento, che esiliava sulle cime queste figure), e i valligiani non osavano spingersi oltre una certa quota; solo i cacciatori di camosci e i cercatori di cristalli percorrevano le alte valli, ma sempre con timore6.

Con l‟avvento dell‟età dei lumi, la passione scientifica risvegliò la curiosità degli studiosi rispetto al mondo dei ghiacciai e delle alte quote, allora meno conosciuto di quanto non lo sia il pianeta Marte oggi (Engel, 1969). È questo che spinge Michel Aimé a scrivere che «Il vero responsabile, colui che, involontariamente, diede la spinta alla corsa verso le cime, fu Pascal. Nel 1645 Torricelli aveva inventato il barometro. E Pascal si disse: se l‟altezza del mercurio nel barometro equilibra davvero la colonna d‟aria al di sopra dell‟apparecchio, l‟altezza del mercurio deve diminuire man mano che si va in alto»7. Così ebbe inizio la stagione di barometri e termometri sulle cime, che vide un particolare impegno da parte di studiosi e accademici svizzeri:

Fra i primi studiosi che si occuparono della montagna troviamo i fratelli Deluc, Jean André e Guillaume-Antoine […]. I Deluc avevano come il padre la passione per la politica di Ginevra, ma godevano anche di una certa notorietà come fisici, e concepirono l‟idea di portare il barometro sulla vetta di un‟alta montagna per studiare le variazioni della pressione atmosferica e del punto di ebollizione dell‟acqua8

.

Al terzo tentativo, nel 1770, i fratelli Deluc raggiunsero la cima del Buet, e fu dai loro racconti che Rousseau trasse le descrizioni della Nouvelle Heloïse.

5 Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit.

6 Su questo tema si vedano: Schama, S., 1995, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, pp. 420-433, e MacFarlane, R., 2008, Mountains of the mind, London, Granta (ed.or. 2003), cit.pp. 14-18.

7

Michel Aimé, Storia eroica dell’alpinismo., op.cit., cit.p. 43. 8 Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit., cit.p. 29.

La maggior parte di questi studiosi si trovava quindi a fare alpinismo per necessità: essi miravano alle vette per poter fare esperimenti. Un gruppo di studiosi di Neuchâtel arrivò persino a stabilirsi sul ghiacciaio di Unteraar per tre estati consecutive dal 1840, per studiare i ghiacciai. La situazione non cambiò «fino al giorno in cui alcuni di quegli studiosi, lasciato il barometro e il termometro nello studio, cominciarono a rivolgere le loro attenzioni alla montagna per il piacere di superarne le difficoltà e ammirarne le bellezze»9. La svolta è così raccontata da Engel:

Seconda a essere conquistata fu la cima del Vélan, sopra il ghiacciaio di Valsorey, nella Val des Bagnes […]. Con l‟equipaggiamento in uso nel XVIII secolo, si trattava di una ascensione pericolosa: le scarpe avevano troppo pochi chiodi, i ramponi, quando venivano adoperati, erano quanto di più primitivo si potesse immaginare e, per appoggiarsi, non c‟erano che gli alpenstock. Le guide si servivano qualche volta di accette dal manico corto. Le corde erano poco usate, e sempre male. Il vincitore del Vélan è un religioso dell‟ospizio del Gran San Bernardo, l‟abate Murith10.

malgrado il barometro e l‟elenco delle piante che aveva trovato cammin facendo, Murith aveva scalato il Vélan soprattutto perché si sentiva affascinato dalla montagna. L‟interesse scientifico non basta a spiegare questa spedizione; è indiscutibile che la bellezza del Vélan lo aveva stregato. Ma c‟è un altro aspetto dell‟alpinismo moderno che, invece, manca completamente in Murith: il fascino del pericolo11.

Quello che viene comunemente chiamato “alpinismo classico” nacque però in un momento ben preciso. Nel 1760 e poi nel 1761 Horace-Bénédict de Saussure, studioso ginevrino e padre della geologia, offrì una ricompensa a chi avesse trovato una via per salire il Monte Bianco. Partiti il 7 agosto 1786, Michel-Gabriel Paccard – medico di Chamonix – e Jacques Balmat des Baux – cacciatore di camosci e cercatore di cristalli – raggiunsero la vetta del Monte Bianco (4810 m) il giorno seguente, dopo una estenuante marcia (ovviamente con barometro al seguito) tra neve molle e crepacci, con attrezzature assolutamente inadeguate. La storia dell‟alpinismo inizia da qui.

Il 4 luglio 1787 Balmat aprì una variante alla via seguita durante la prima salita, e il 3 agosto dello stesso anno Saussure riuscì a realizzare il suo sogno, raggiungendo la vetta con 18 guide assunte per portare quintali di cibo, decine di bottiglie di champagne, attrezzature scientifiche e persino due materassi. Una spedizione che può essere considerata l‟antenata di quelle himalayane del XX secolo. L‟anno seguente de Saussure

9 George Livanos, Cassin, op.cit., cit.p. 21. 10

Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit., cit.p. 33. 11 Ivi, p. 34.

partì addirittura con l‟intenzione di trascorrere due settimane sul Colle del Gigante, e nel 1792 conquistò il Piccolo Cervino.

Sono anni di fermento nelle Alpi Occidentali, e le conquiste sul Bianco sono soltanto agli inizî. Il nipote dei fratelli Montgolfier, Elie-Ascension (sic!), fu il primo alpinista solitario, anche se dovette rinunciare alla vetta. Nel 1820 la prima catastrofe dovuta a una valanga diede la spinta per trovare una variante più sicura alla via normale. Marie Paradis, una cameriera di Chamonix, fu la prima donna sulla vetta (Engel, 1969)12.

A partire dagli inizî dell‟800 l‟Illuminismo perse parte della sua influenza, e l‟avvento del Romanticismo scatenò la corsa alle cime: «In pochi anni, dopo il 1850, la conquista delle Alpi assume una ampiezza ed un carattere nuovi: cioè è compiuta in maniera sistematica, notoriamente per opera di inglesi»13. Il 28 luglio 1800 il conte Frantz Altgraf von Salm-Reifferscheidt-Krautheim vescovo di Gurk, conquistò il Gross Glockner (3798 m). Solo nel 1855 la vetta più alta del Monte Rosa (punta Doufur: 4633 m) venne conquistata, da una cordata inglese (fratelli Smyth, Stevenson, Hudson, Birkbeck). Del 1860 è la conquista del Gran Paradiso (4061 m) da parte di Cowell, Dundas, Payot e Tairraz. Nel 1864 Moore, Walker, Whymper, Almer e Croz vinsero la Barre des Ecrins (4103 m). Nel 1865 Whymper, Croz, Almer e Biner salirono sulla Punta Whymper alle Grandes Jorasses (4122 m). E la lista è lunghissima.

Sono gli anni del turismo alpino: la nobiltà e l‟alta borghesia inglese e tedesca si fanno accompagnare dai montanari alla conquista delle cime inviolate: «Per tutto il XVIII secolo e all‟inizio del XIX i cacciatori di camosci hanno una parte di primo piano in tutte le opere dedicate alla montagna. Furono essi le prime guide»14. Nel 1821 fu fondata la compagnia delle guide di Chamonix: non si trattava più ormai di cacciatori di camosci, ma non si trattava ancora di vere guide.

L‟epoca vittoriana dell‟alpinismo fu anche l‟epoca delle prime innovazioni nell‟organizzazione delle spedizioni e nelle tecniche di salita: negli anni ‟20 dell‟800 nacquero ufficialmente i ramponi; nel 1830 nacque il concetto di cordata, quando Couttet,

12 A proposito dell‟alpinismo femminile di questi anni, Claire-Eliane Engel scrive: «Fu necessario molto tempo perché le donne riuscissero a far riconoscere i proprî diritti negli ambienti alpinistici. In linea generale, il grande pubblico non contestava l‟importanza dei loro successi – quando li capiva – ma si continuava a insistere sul particolare che imprese del genere non erano molto indicate per le donne, le quali non facevano altro che rovinarsi la pelle, guastarsi la reputazione, scheggiarsi le unghie e contrarre l‟abitudine di camminare con passo pesante e con la schiena un poco curva», cfr: Claire-Eliane Engel,

Storia dell’alpinismo, op.cit., cit.p. 175.

13 Pierre Mazeaud - „Evoluzione storica e tecnica dell‟alpinismo‟, in: Giancarlo del Zotto (a cura di),

Alpinismo moderno, 1970, Milano, Il Castellon, cit. p. 14.

una guida di Chamonix, legò i clienti per una salita al Breithorn; nel 1853 venne costruito il primo rifugio, sul pianoro dei Grand Mulets (Monte Bianco); nel 1857 venne fondato l‟Alpine Club, che stampò la prima rivista di montagna, l‟Alpine Journal.

I progressi materiali dell‟era vittoriana non solo trasmisero all‟uomo il desiderio di provarsi nelle più dure attività, ma anche lo resero capace di raggiungere e salire le Alpi con una facilità e con una velocità incredibili. I Vittoriani erano sempre alla ricerca del perché delle cose e fondamentalmente essi arrampicavano perché volevano vedere risolti i loro interrogativi15.

Sull‟esempio dell‟Alpine Club, nel 1863 Quintino Sella (allora Ministro delle Finanze) fondò il Club Alpino Italiano. Nello stesso anno fu fondato anche il Club Alpine Suisse, mentre del 1869 è la fondazione del Deutcher Alpenverain, e del 1874 quella del Club Alpin Français.

Nonostante il numero crescente di appassionati nei paesi alpini, si capisce il perché del dominio assoluto degli inglesi in questi anni: «è facile capire quanto poco vantaggio venisse agli alpinisti della cerchia di Quintino Sella dal fatto di vivere “sul posto”, quando questo voleva dire impiegare circa due giorni di carrozza e di mulo per raggiungere da Torino la Valtournanche, e altrettanti per tornare a casa: sicché per fare il Breithorn o la Becca di Cian bisognava bilanciare su per giù una settimana. Invece i ricchi inglesi che alla fine della primavera abbandonavano le loro case e il loro lavoro, supposto che l‟avessero, per trascorrere nelle Alpi tutta l‟estate, loro s‟insediavano stabilmente in alta montagna […] e mettevano ben più proficuamente a frutto il loro tempo che i nostri bravi professionisti»16. Non mancarono comunque le salite importanti da parte degli italiani: Alessandro Sella, il figlio di Quintino, fece la prima scalata del Dente del Gigante nel 1882. Nel 1890 il futuro papa Pio XI, con la guida Gadin, aprì una via normale al Monte Bianco per il versante italiano.

A cavallo tra „800 e „900 aumentarono gli interventi sulle montagne: «Quando le montagne cominciarono a diventare sempre più celebri, si pensò che sarebbe stato possibile rendere le ascensioni meno spossanti installando qualche bivacco fisso»17, si costruirono rifugi, si sistemarono corde fisse, si costruirono addirittura osservatorî.

Nel 1875 tutte le cime dolomitiche più importanti, tranne il Brenta, erano state salite. L‟alpinismo classico si avviava verso la fine.

15 Ronald Clark, citato in: Emanuele Cassarà, La morte del chiodo, op.cit., cit. p. 28. 16

Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit., cit. p. 313. 17 Ivi, p.75.

1.2 – La stagione degli eroi. L’epica dell’alpinismo

L‟uso della guida, intanto, si andava sviluppando soprattutto da parte inglese. Ma le guide – e Lammer indicò le nuove frontiere – non furono più necessarie allorché: 1) si seppe da che parte cominciare; 2) si comprese che esse non intendevano esporre la propria vita a rischi ritenuti estranei alla visione montanara dei problemi e alla paga ricevuta…

Emanuele Cassarà18 Poco dopo la nascita del grande alpinismo, comincia ad apparire una nuova tendenza: quella di scalare per vie nuove montagne già note.

Claire Eliane Engel19 Tra il 1870 e il 1910 «si rivelano nuove tendenze. Alcuni alpinisti pensano di poter benissimo fare a meno delle guide, e una idea del genere appare abbastanza logica, se si considera la competenza piuttosto discutibile di alcuni di questi professionisti»20. L‟alpinismo senza guida si afferma soprattutto a partire dalle Alpi orientali (Mazeaud in: del Zotto, 1970), terreno dominato dai tedeschi. Si scatenarono così polemiche tra inglesi e tedeschi: i primi accusavano i secondi di essere dei fanatici, e questi rispondevano ai primi che essi erano in grado di fare le cime solo con i soldi per pagare le guide. Sono le prime avvisaglie di una spaccatura imminente tra alpinismo occidentalista e alpinismo orientalista nelle Alpi (vedi § 1.2.1 – Occidentalisti e orientalisti: le due scuole delle Alpi). I primi alpinisti senza guida furono i fratelli Zsigmondy, Guido Lammer, Georg Winkler, e Pierre Puiseux. Ma i Bavaresi impararono ad arrampicare da soli, come i dolomitisti, senza guide. Con l‟alpinismo senza guide nacquero anche la scuola inglese di Irving e Mallory, e la scuola francese di Jacquemart, Paimparey, Le Bec, de Lépiney e Damesme.

Dopo la prima guerra mondiale, l‟alpinismo d‟esplorazione lascia il posto all‟alpinismo di difficoltà (scuola tedesca e dolomitisti): ormai tutte le maggiori vette

18 Emanuele Cassarà, La morte del chiodo, op.cit., cit.p. 36. 19

Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit., cit.p. 144. 20 Ivi, p. 114.

europee sono state conquistate, e l‟alpinismo raccoglie una nuova sfida. Non più salire alla vetta dalla via più facile, ma scovare nuovi itinerari, più difficili, per arrivare alla cima. Nasce così un alpinismo caratterizzato dallo sprezzo del pericolo, dall‟amore per il rischio, e a inizio „900 i resoconti di incidenti e tragedie si moltiplicano (Engel, 1969). Questo nuovo alpinismo, cosiddetto “moderno”, si differenzia dall‟alpinismo “classico” anche per un‟altra questione: i materiali. L‟alpinismo moderno era un alpinismo, mi sento di dire, tecnologico. Si basava sulla arrampicata artificiale, era un alpinismo di ingegno. Così Engel, la più grande storica dell‟alpinismo, definisce questi cambiamenti:

nel primo decennio del Novecento l‟invenzione dei chiodi Fiechtl, perfezionata con l‟uso dei moschettoni Herzog e con la manovra del pendolo, a opera di veri e proprî ingegneri dell‟arrampicata come il Dülfer, portava nelle salite su roccia a un progresso rivoluzionario paragonabile a quello che aveva impresso alle salite su ghiaccio l‟uso dei ramponi inventati dall‟Eckenstein, con la riduzione, spesso l‟eliminazione delle estenuanti gradinate per mezzo dell‟“ascia da ghiaccio”21

. Appariva ormai evidente che ogni ascensione doveva essere fatta in cordata, che era pericoloso essere in troppi su roccia e troppo pochi su ghiaccio. La manovra della corda è delicata in quanto esige reazioni rapidissime: è un questione non solo di forza, ma anche di tatto e di intuito. Vennero ad aprirsi possibilità assolutamente nuove quando gli alpinisti scoprirono il sistema di scendere con la corda – con la corda doppia, per la precisione – pareti altrimenti impraticabili. […] In breve l‟uso della corda doppia obbligò le cordate a portare nuovi attrezzi che vennero poi definiti «mezzi artificiali». Dato che non si sapeva se si sarebbe trovato un appiglio adatto per assicurare la corda senza correre il rischio di vederla scivolare via o cadere, si incominciarono a portare cunei di legno che venivano forzati in una fessura con l‟aiuto della piccozza che faceva da martello. Più tardi il cuneo di legno fu sostituito da un chiodo a occhiello d‟acciaio che veniva ribattuto mediante un martello speciale o anche mediante una piccozza che aveva la testa a forma di martello22.

Nel 1925 Willy Welzenbach, di Monaco, inventò la scala di difficoltà su roccia (allora chiusa) che suddivideva le arrampicate in gradi dal I al VI, dove il VI era considerato “il limite delle possibilità umane”. Più tardi, dopo molte polemiche, la scala è divenuta aperta, ed è tuttora utilizzata per classificare le vie alpinistiche (vedi Appendice 3 – I gradi di difficoltà dell‟arrampicata).

Nei primi anni del „900 gli alpinisti delle Dolomiti (Dibona, Piaz, Dülfer per citare i migliori) raggiunsero il V+ (quinto superiore), grado elevatissimo considerati i mezzi dell‟epoca.

Figura centrale, a parer mio, di quest‟epoca a cavallo fra alpinismo classico e salite sportive, fu Paul Preuss: «Se Angelo Dibona era di sei anni più vecchio di Paul

21

Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, op.cit., cit.p. 357. 22 Ivi, p. 191.

Preuss, Hans Dülfer era invece di sei anni più giovane. Preuss incarna perciò la generazione posta esattamente a cavallo tra il culmine dell‟alpinismo classico, in cui gli elementi sportivi erano pressoché assenti, e l‟alpinismo moderno, che nessun altro meglio di Hans Dülfer seppe esprimere con le sue imprese»23. Preuss divenne famoso per le sue abilità di alpinista e per la sua filosofia. Abilissimo scalatore per quell‟epoca, era capace di arrampicare anche in discesa sul V grado, rifiutava l‟uso dei chiodi di progressione e solo raramente si legava a una corda (vedi § 1.6 – Le polemiche sulla ferraglia. L‟etica dell‟alpinismo), rappresenta la via che l‟alpinismo classico avrebbe potuto prendere invece di sfociare nell‟arrampicata artificiale e nell‟arrampicata sportiva, fu un precursore della svolta americana degli anni ‟70 (vedi § 1.8 – Yosemite: la stagione hippie dell‟arrampicata).

Nel 1925 Solleder aprì la prima via di VI grado sulla parete Nord-Ovest del Civetta. Nel 1933 i fratelli Dimai e Comici aprirono una via sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo piantando 75 chiodi nei primi 225 metri (V+/A1). Le Dolomiti furono il teatro di una rivoluzione: gli occidentali li chiamavano “alpinisti acrobatici”, oggi si chiamano “arrampicatori”. Le Dolomiti, più verticali delle Alpi occidentali, obbligano ad una tecnica di salita diversa, e le nuove attrezzature si rivelano fondamentali:

Le pedule sono state la base (e non trovo altro termine) dei progressi dell‟arrampicata in terreno difficile, soprattutto in calcare, dove con gli scarponi chiodati si superava a fatica il II grado. E poi? Si arrampicava in calzini o a piedi nudi. […] da tempo in casa o per piccoli lavori utilizzavano pantofole che si fabbricavano da sé; una tomaia bassa di stoffa e una suola formata da più strati di tela di lino cuciti a mano, che aderisce bene alla roccia. Non ci mettono molto a migliorarle, con una tomaia alta rinforzata… e non sono più gli stracci (come venivano chiamate) ma delle vere scarpe d‟arrampicata24

.

Dopo il 1910 gli stracci saranno rimpiazzati dall‟innovazione introdotta da Hans Kresz: il manchon, una specie di feltro pressato che dava prestazioni migliori anche sulla roccia bagnata. Nel 1936 Vitale Bramani diede vita alle suole Vibram, adatte ad ogni terreno. Furono inventate per lo scialpinismo, ma si rivelarono «le Land Rover dell‟alpinista per ogni occasione»25

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23 Reinhold Messner (a cura di), L’arrampicata libera di Paul Preuss, 1987, Novara, De Agostini, cit.p.

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