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146ss: Elettra compie qui i tipici atti autolesionisti che accompagnavano sovente le

espressioni di lamento: il graffiarsi collo e guance con le unghie (146s. ηαηὰ me;n fivlan / o[nuci temnomevna devran), colpirsi il capo (148s.kra`tÆ e[pi kouvrimon / tiqemevna), tirarsi i capelli (150 e] e[, druvpte kavra).

Di essi si fa menzione sin da Omero: Il. XIX 283s. ἀιθ‘ αὐηῶζ ποιέκδ θίβ‘ ἐηχηοε,

πενζὶ δ‘ ἄιοζζε / ζηήεεά η‘ ἞δ‘ ἁπαθὴκ δεζνὴκ ἰδὲ ηαθὰ πνυζςπα, Od. II 153s.

δνοραιέκς δ‘ ὀκφπεζζζ πανεζὰξ ἀιθί ηε δεζνὰξ / δελζὼ ἢσλακ ηηθ. Numerosi anche i passi tragici in cui il Coro o singoli personaggi accompagnano i loro lamenti con tali gesti: per il graffiarsi con le unghie cf. A. Cho. 24s. prevpei paνὴζ~ foivnissÆ ajmugmoi`~ / o[nuco~ a[loki neotovmwi, E. Tro. 280 e{lkÆ ojnuvcessi divptucon pareiavn, Supp. 51rJu- /sa; de; sarkw`n polia`n / katadruvmmata ceirw`n, 76 dia; parh`ido~ o[nuci leuka`~ / aiJmatou`te crw`ta fovnion: e] e[, Or. 961 tiqei`sa leuko;n o[nuca dia; parhiv>dwn; per il colpirsi il capo Tro. 279 a[rasse kra`ta kouvrimon, 794 plhvgmata krato;~ stevrnwn te kovpou~, Andr. 1209s. sparavxomai kovman, / oujk ejmw`i 'piqhvsomai / kavrai ktuvphma ceiro;~ ojloovnÉ Or. 963 ktuvpon te kratov~, 1467 leuko;n dÆ ejmbalou`sa ph`cun stevrnoi~ /ÿktuvphse kra`taÿ mevleon plagavn, il tirarsi i capelli in Andr. 826 spavragma kovma~, 1209 μuj sparavxomai kovman, S. Ai. 634 cerovplaktoi dÆ ejn stevrnoisi pesou`ntai / dou`poi kai; polia`~ a[mugma caivta~(abbinato al gesto di battersi il petto con le mani). Come testimoniano Demostene 43.62 e Plutarco, Sol. 21.4, tali dimostrazioni di dolore durante i riti funebri erano state proibite in Atene dalla legislazione soloniana: di tale proibizione Shapiro 1991 riscontra gli effetti sulla produzione vascolare: nell‘ambito dei vasi che raffigurano scene di prothesis, in quelli del periodo geometrico le donne vengono rappresentate lamentarsi con forte emozione, quasi con violenza, graffiandosi e colpendosi il capo; a partire però dalla metà del quinto secolo tali esternazioni di dolore lasciano spazio ad una forma di compianto più composta: «The conventional gesture of both hands raised to the head still occurs, but is no longer mandatory. It may be modified to a single raised hand. Figure and gestures are perhaps more stylized, yet their grief is effectively

by a mood of detachment, introspection, and quiet dignity».52 Secondo Alexiou 1974, 21ss., tale restrizione fu dovuta non solo alla volontà di ridurre i costi delle cerimonie funebri, che, come testimonia anche Cicerone, Leg. 2.63-64, erano diventate eccessivamente costose, ma anche e soprattutto alla necessità di limitare delle esternazioni che, istigando alla vendetta, potessero costituire una minaccia sociale.53

Sulla gestualità che accompagnava le lamentazioni funebri vd. comunque Garland 1985, 29, Kurtz - Boardman 1971, Sheedy 1985, 32.

Vv. 151ss. οἷα δέ ηιρ κύκνορ ἀσέηαρ κηλ. Nel mesodo α, Elettra paragona il suo pianto per

Agamennone al lamento di un cigno che, sulla riva di un fiume, piange per il padre intrappolato nelle reti di un cacciatore: si instaura dunque un parallelismo tra la sorte del cigno e quella del re, anch‘egli caduto nelle reti di Clitemestra e perito sotto i colpi della scure (vv. 157ss.).

La rappresentazione del canto degli uccelli come un lamento è frequente in tragedia, secondo un topos che fa capo ad Omero, Od. XVI 215ss. ἀιθμηένμζζζ δὲ ημ῔ζζκ ὑθ᾽ ἵιενμξ ὦνημ βόμζμ· / ηθα῔μκ δὲ θζβέςξ, ἁδζκώηενμκ ἢ η᾽ μἰςκμί, / θῆκαζ ἠ αἰβοπζμὶ βαιρώκοπεξ, μἷζί ηε ηέηκα / ἀβνόηαζ ἐλείθμκημ πάνμξ πεηεδκὰ βεκέζεαζ, «Entrambi avevano voglia di piangere, e piangevano forte, gemendo più di uccelli, più delle aquile o degli avvoltoi dagli artigli ricurvi a cui i contadini rubarono i piccoli prima che avessero messo le ali»54A questo paragone omerico risalgono gli innumerevoli luoghi tragici in cui il lamento di un personaggio o del Coro viene paragonato a quello di un uccello a cui sono stati sottratti i piccoli dal nido: si pensi innanzitutto ad A. Ag. 48-58, dove il grido di guerra dei due Atridi a cui è stata sottratta Elena viene paragonato al dolore di due avvoltoi a cui sono stati tolti i piccoli e che svolazzano attorno al nido rimasto vuoto55, o ad E. Tro. 146-149 dove Ecuba paragona il proprio canto a quello di una madre «per gli alati uccelli», ιάηδν δ᾽ ὡζεὶ πηακμ῔ξ ηθαββὰκ / †ὄνκζζζκ ὅπςξ ἐλάνλς ᾽βὼ / ιμθπὰκ μὐ ηὰκ αὐηὰκ† o anche ad E. HF. 1039-1041 dove un Anfitrione che entra in scena a passo lento, prostrato dal dolore per quanto accaduto, viene paragonato ad un uccello che «lamenta i figli implumi»: ὁ δ᾽ ὥξ

52Shapiro 1991, 649s.

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Non a caso in Omero il termine βυμξ è accompagnato due volte dall‘epiteto ἄνδημξ, «che maledice, che chiede vendetta»: Il. XVII 37, XXIV, 741 ἀνδηὸκ δὲ ημηεῦζζ βόμκ ηαὶ πέκεμξ ἔεδηαξ. Nel caso in cui la vittima fosse stata uccisa, tali lamentazioni aveano infatti proprio lo scopo di suscitare, nei parenti che ascoltavano, un sentimento di vendetta. Vd. a tal proposito Garosi 1998. Da questo punto di vista, risulta rilevante la definizione che il Coro delle Coefore dà del lungo kommos intonato assieme ad Oreste ed Elettra, definito, al v. 330, un βυμξ ἔκδζημξ: l‘antico βυμξ ἄνδημξ si fa dunque un «lamento che chiede giustizia» (per quanto, nell‘ottica delle Coefore, «giustizia» equivalga ancora a «vendetta»). Vd.

ηζξ ὄνκζξ ἄπηενμκ ηαηαζηέκςκ / ὠδ῔κα ηέηκςκ πνέζαοξ ὑζηένςζ πμδὶ / πζηνὰκ δζώηςκ ἢθοζζκ πάνεζε᾽ ὅδε. Similmente, in S. Ant. 422-424 i lamenti di Antigone sul cadavere del fratello vengono paragonati a quelli di un uccello quando scorge il nido privato della prole: ἟ πα῔ξ ὁνᾶηαζ ηἀκαηςηύεζ πζηνᾶξ / ὄνκζεμξ ὀλὺκ θεόββμκ, ὡξ ὅηακ ηεκῆξ / εὐκῆξ κεμζζῶκ ὀνθακὸκ αθέρδζ θέπμξ.

Il paragone del lamento di Elettra con il pianto del cigno per il padre morto si configura dunque come una sorta di rovesciamento di questo topos, poiché in questo caso è il piccolo a piangere la perdita del genitore; ad ogni modo, comunque, sembra che un altro locus

communis diffuso fosse proprio quello riguardante la pietà filiale degli uccelli: ad esso si fa

infatti riferimento in S. El. 1058-1062, in un canto in cui il Coro deplora il comportamento di Crisotemi che non tributa affetto e culto al padre, valori che persino tra gli uccelli sono sacri: ηί ημὺξ ἄκςεεκ θνμκζιςηάημοξ μἰς- / κμὺξ ἐζμνώιεκμζ ηνμθᾶξ / ηδδμιέκμοξ ἀθ᾽ ὧκ ηε αθά- / ζηςζζκ ἀθ᾽ ὧκ η᾽ ὄκαζζκ εὕ- / νςζζ, ηάδ᾽ μὐη ἐπ᾽ ἴζαξ ηεθμῦιεκ; «perché, guardando alla saggia razza degli uccelli del cielo, che procura nutrimento a chi la fece sbocciare e da cui attinse ogni cura, non compiamo pari dovere?». Per quanto riguarda il cigno, invece, l‘immagine dell‘uccello che canta sulle rive di un fiume risale ad Alcmane, f

PMG 1, 101 θεέββεηαζ δ᾽ [ἄν᾽] ὥ[η᾽ ἐπὶ] Ξάκεςζ ῥμα῔ζζ ηύηκμξ.

Infine, nell‘antichità l‘immagine del cigno era di solito associata alla leggenda per cui l‘uccello cantasse solo in punto di morte: tale leggenda fa la sua prima comparsa in A. Ag. 1444ss. dove Clitemestra paragona Cassandra appena uccisa ad un cigno che ha intonato il suo ultimo lamento; essa verrà poi ‗consacrata‘ da Platone, che nel Fedone, 84e – 85a, la fa narrare da Socrate. Di qui essa divetò una sorta di luogo comune56. Vd. in merito Arnott 1977 e 1986.

ἀσέηαρ. L‘aggettivo ἞πήηδξ, vd. LSJ9

780 s.v. «clear-sounding, musical, shrill» è impiegato in Hes. Op. 582 come epiteto per la cicala (἞πέηα ηέηηζλ), e, come sostantivo, è spesso impiegato proprio come sinonimo di ηέηηζλ: in Ar. Pax 1059 si parla della cicala che «intona il dolce canto» ἟κίη᾽ ἂκ δ᾽ ἀπέηαξ / ἆζδδζ ηὸκ ἟δὺκ κόιμκ, mentre in Av. 1095 il canto della cicala viene definito ὀλφ «acuto, stridulo»: ἟κίη᾽ ἂκ ὁ εεζπέζζμξ ὀλὺ ιέθμξ ἀπέηαξ / εάθπεζζ ιεζδιανζκμ῔ξ ἟θζμιακὴξ αμᾶζ. Sebbene non esistano altri passi in un l‘aggettivo ἀπέηαξ sia riferito al cigno, esso risulta comunque appropriato al contesto del nostro passo: un canto acuto e stridulo, infatti, si confà perfettamente al dolore del cigno che piange la morte del padre.

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