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Le epifanie e il silenzio interiore

Un altro tema che offre un ricco campo d’indagine sulle affinità tra Joyce e Pirandello, e che nonostante il suo grande sviluppo nella critica merita ancora di essere approfondito, è l’epifania o, come la descrive Pirandello nel saggio L’Umorismo, l’attimo del “silenzio interiore”. In questo capitolo parto dalla motivazione anateologica che permette a questi scrittori di creare nuovi metodi narrativi ispirati a schemi religiosi, come appunto l’epifania e una denudazione del personaggio che più avanti definirò come relativa alla sua anachenosi. In secondo luogo, bisogna vedere cosa significa per Joyce e per Pirandello il momento dell’epifania e, nel caso di Pirandello, il momento della sua assenza. In seguito presenterò le principali tipologie dell’epifania descritte nella critica joyciana e pirandelliana che ritengo utili per capire le affinità tra due sistemi epifanici, specialmente i motivi della memoria e del tempo. Seguirà l’analisi di due brani tratti dalle novelle e di altri due brani tratti dai romanzi per illustrare concretamente le affinità di metodo. Prenderò in esame due novelle, Eveline e Leonora Addio!, che illustrano la mancata epifania e la anachenosi del personaggio alla finestra, e poi riferisco l’interpretazione di Richard Kearney sull’epifania di Stephen alla ational Library, alla quale affiancherò la mia lettura dell’altra epifania di Mattia fuori dalla biblioteca di Miragno nel Fu Mattia Pascal. Infine, estendo il tema dell’epifania e della memoria all’ambito del lettore.

4.1. Lo sfondo anateologico dell’epifania

Nella filosofia del primo Novecento si è sviluppata l’idea del ritorno, misterioso e laico, agli schemi che poteva offrire la religione. Di là dalle opzioni della teologia e dell’ateismo, esiste proprio una terza possibilità per l’artista del primo Novecento: l’anateologia. È essenziale ricordare come Lyotard nel Postmodern Explained to Children, nel tentativo di spiegare il significato del prefisso post nel termine composto postmoderno,

conia nuovi termini con il prefisso ana-: “the ‘post’ of ‘postmodern’ does not signify a movement of comeback, flashback or feedback, that is, not a movement of repetition but a procedure in ‘ana-’: a procedure of analysis, anamnesis, anagogy and anamorphosis which elaborates an ‘initial forgetting’.”169 Anche Richard Kearney sperimenta con l’uso del prefisso ana- in un saggio recente, Epiphanies of the Everyday, quando spiega che secondo Gerard Manley Hopkins la vocazione umana più importante è quella di scoprire “the inscape of the sacred in every passing particular”.170 Kearney usa il termine “ana-esthetics” recuperando il significato del prefisso greco “ana-”, inteso come “up, back, again” dall’Oxford English Dictionary. L’anateologia va dunque capita come il contesto in cui si verifica un ritorno alla religione dopo la presupposta morte di Dio, che impone l’espropriarsi degli schemi che offre la religione, in una sorta di “liturgioco” (come lo definirebbe Piero Boitani171), svuotandoli del loro contenuto teologico in un meccanismo secolarizzante e infine reinventandoli come schemi e motivi di narrazione.172 Anche Umberto Eco, nel saggio Le poetiche di Joyce, si esprime molto chiaramente a proposito degli schemi religiosi ricorrenti di Joyce, specie quando sviluppa il fatto che Joyce, dopo aver abbandonato la fede, la morale, i riti e la liturgia cattolica, conserva però “un edificio razionale” composto di temi letterari e strutture di narrazione secolarizzati.173 Questo è quanto succede con il concetto di epifania in Joyce e anche in Pirandello. Il termine denomina infatti la festa cristiana, commemorata il sei gennaio, che celebra la manifestazione di Cristo ai pagani, rappresentati nei re magi, ma in un senso più largo il termine significa anche la rivelazione di Dio al mondo. Alla base del

169

Jean-François Lyotard, The Postmodern Explained to Children: Correspondence 1982-1985, trad. di Julian Pefanis & Morgan Thomas, London, Turnaround, 1992, p. 93.

170

Richard Kearney, “Epiphanies of the Everyday”, in AA.VV., After God: Richard Kearney and the Religious

Turn in Continental Philosophy, a cura di John Panteleimon Manoussakis, New York, Fordham University

Press, 2006, p. 4.

171

Piero Boitani, “Liturgioco”, in AA.VV., Il romanzo: volume quinto, lezioni, a cura di Franco Moretti, Pier Vincenzo Mengaldo, Ernesto Franco, Torino, Einaudi, 2003, pp. 439-451.

172

Devo anche segnalare l’uso più esplicito del termine da parte di Werner Hamacher in un saggio su Walter Benjamin dove spiega che: “The theology of language and history that Benjamin outlines in his second thesis is a theology of wilted possibilities and thus an essentially wilted, dwarfed and hunchbacked theology. To be more precise it is a theory that there could only be an unfinished and therefore an anatheology of the weak possibility of theology” (Cfr. Werner Hamacher, “‘Now’: Walter Benjamin on Historical Time”, in AA.VV., The Moment:

Time and Rupture in Modern Thought, a cura di Heidrun Friese, Liverpool, Liverpool University Press, 2001, p.

166.

relativismo pirandelliano c’è un’esperienza secolare dell’oltre, proprio nel senso anateologico, e cioè un’esperienza del nulla (per il pensiero cosciente), ma paradossalmente anche un’esperienza del Tutto (per il sentire inconscio), come dimostra quella straordinaria pagina del Fu Mattia Pascal (capitolo XIII, Il lanternino), in cui il sentimento della vita è un lanternino, spento, davanti al quale Pirandello si chiede se “non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione.” (TR1: 484-5).

Per molti scrittori, sia contemporanei che antecedenti a Joyce e a Pirandello, il termine epifania aveva già assunto il valore di un meccanismo letterario dove si instaurano varie tipologie di illuminazioni: “spots in time” in William Wordsworth (1770-1850), “phantasy” in Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), “moment” in P.B. Shelley (1792-1822), “infinite moment” o “good minute” in Robert Browning (1812-1889); in aggiunta, nei loro contemporanei troviamo: “epifania” in Gabriele D’Annunzio (1863-1938), “great moment” in W.B. Yeats (1865-1939), “timeless moment” in T.S. Eliot (1888-1965), “Image” in Ezra Pound (1885-1972), “sublime instants” in Henry James (1843-1916), “moments of vision” in Joseph Conrad (1857-1924) e “frozen moment” in Virginia Woolf (1882-1941). La consapevolezza del fenomeno era dunque già diffusa ma Joyce e Pirandello diedero all’epifania delle connotazioni uniche: Joyce può essere considerato uno dei primi autori a dare una fortissima connotazione teorica ed estetica all’epifania, e Pirandello sviluppò un’epifania legata alla sua poetica dell’umorismo.

4.2. Le concezioni di Joyce e di Pirandello sull’epifania

Nel capitolo 25 di Stephen Hero, Joyce presenta il suo manifesto sull’epifania:

This triviality made him think of collecting many such moments together in a book of epiphanies. By an epiphany he meant a sudden spiritual manifestation, whether in the vulgarity of speech or of gesture or in a memorable phrase of the mind itself. He believed that it was for the man of letters to record these epiphanies with extreme care, seeing that they themselves are the most delicate and evanescent of moments. He told Cranly that the clock of the Ballast office was

capable of an epiphany. […] Imagine my glimpses of that clock as the gropings of a spiritual eye which seeks to adjust its vision to an exact focus. The moment the focus is reached the object is epiphanized. (SH:211)

Joyce aveva definito l’epifania secondo le nozioni di Tommaso d’Aquino: l’epifania è la rivelazione dell’oggetto (“a sudden spiritual manifestation”), dopo averne riconosciuto l’integrità e l’armonia, qualità che di per sé bastano al romanziere tradizionale che cerca fatti significativi. In netto contrasto, lo scrittore modernista si ferma sull’insignificante, provocato dal potere manifestante (la claritas) dell’oggetto, il quale rivela che le cose possiedono significati nascosti oltre a quelli che appaiono in superficie. A parte il passo sull’epifania di Stephen Hero, Joyce raccoglie due quadernetti chiamati Epifanie e Giacomo Joyce; anche i racconti Dubliners erano intesi come una raccolta di epifanie. Nel Portrait Joyce fa un largo uso del concetto di epifania però opta per l’omissione del termine in tutto il romanzo. In Ulysses, troviamo le epifanie complesse di Stephen, Leopold e Molly, però c’è una sola menzione del termine “epifania”: nel capitolo 3 Proteus, quando Stephen, mettendo in atto il ruolo della sua memoria, ricorda in modo autoironico la sua fallita vocazione di scrittore e ipotizza che le sue opere si sarebbero divulgate ovunque, persino nella biblioteca di Alessandria: “Remember your epiphanies on green oval leaves, deeply deep, copies to be sent if you died to all the great libraries of the world, including Alexandria? Someone was to read them there after a few thousand years […].” (U3:141-3). In questa celebre menzione del concetto di epifania, il disincanto di Stephen come scrittore si rafforza quando il suo flusso di coscienza lo riporta al mondo concreto e materiale dei suoi passi che affondano nella sabbia sulla spiaggia, facendogli rievocare l’immagine del naufragio della flotta che doveva salvare gli irlandesi dalla tirannia inglese: “The grainy sand had gone from under his feet. His boots trod again a damp crackling mast, razor shells, squeaking pebbles, that on unnumbered pebbles beats, wood sived by the shipworm, lost Armada. Unwholesome sandflats waited to suck his treading soles, breathing upwards sewage breath.” (U3:147-151) Occorre ragionare

infine che nel Finnegans Wake Joyce attua quella che Melchiori chiama “un’epifanizzazione continua del linguaggio corrente”174, che però esula dagli scopi di questa ricerca.

Dal canto suo, Pirandello non usa mai il termine ‘epifania’. Secondo Nino Borsellino, Pirandello rimane radicato nell’umorismo ed è forse “incerto” sul processo e sulle modalità della manifestazione dell’epifania che è la tecnica narrativa del “misterioso fenomeno di simultanea percezione estetica e conoscitiva”. Borsellino conferma che tutti gli scrittori che hanno adoperato questa tecnica narrativa “hanno sempre ricorso ad un vocabolario del soprannaturale”175 Nonostante questa incertezza pirandelliana sull’epifania, nel penultimo capitolo dell’Umorismo, esaminando la fondamentale tematica della “scomposizione” umoristica delle convenzioni sociali, delle simulazioni coscienti, ma altresì delle finzioni psicologiche inconscie, Pirandello esplicita quali siano gli attimi immediati di “vertigine” di cui soffre l’uomo umoristico nelle sue epifanie:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisce una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. (SI:939-40)

In questo brano dell’Umorismo, Pirandello esplicita i momenti rarefatti delle sue epifanie con una lista di sinonimi e di parafrasi: “silenzio interiore”, “una strana impressione”, “una realtà vivente oltre la vista umana fuori delle forme dell’umana ragione”, “una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo”. Nei “momenti di silenzio interiore” il personaggio

174

Melchiori, 1994, p. 6.

viene sottoposto ad un’epifania del suo inconscio in quanto realtà oltre i limiti (“fuori delle forme dell’umana ragione”). Secondo Pirandello, il momento del silenzio interiore comporta una vertiginosa esperienza di gnosi interiore che rischia di valicare gli “abissi del mistero”, a rischio di sprofondarvi, “di morire o d’impazzire”, perché in questo processo l’individuo decostruisce tutte “le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini”, in altre parole, tutte le maschere delle ipocrisie e dei comportamenti sociali. Il silenzio interiore aiuta il personaggio a capire innanzitutto il meccanismo dell’ “inganno per vivere” – cioè quel rapporto conflittuale tra la realtà e le apparenze – e poi quell’altro attimo di dissacrante epifania su un aspetto particolare della propria condizione dell’Io. Il tipico raisonneur pirandelliano che subisce attimi di silenzio interiore (come Don Cosmo Laurentano, Vitangelo Moscarda o Mattia Pascal) riesce a capire il gioco tra le “realtà fittizie” (le maschere della Vita) e la “realtà vivente oltre la vista umana” (quella dolorosa realtà che è fissa nella Forma). Il personaggio che subisce il momento di silenzio interiore non può più illudersi, né dare importanza alla “fantasmagoria meccanica” o al gioco delle parti della vita quotidiana. In questo passo dell’Umorismo, Pirandello illustra il ruolo centrale della stasi del tempo nella visione epifanica (“un arresto del tempo e della vita”, “sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore”) e il ruolo della memoria nel tenere presente l’esperienza epifanica (“dura lungo in noi l’impressione di esso”).

4.3. Tipologie dell’epifania di Joyce

A differenza della critica pirandelliana, quella joyciana si è espressa in maniera multiforme sulle interpretazioni delle epifanie di Joyce. Per tracciare una prospettiva della critica sull’epifania joyciana, bisogna ascoltare le voci autorevoli di William Noon, Walton Litz, Umberto Eco, Corinna del Greco Lobner, Morris Beja, Ashton Nichols, Giorgio Melchiori e Richard Kearney. William Noon ci offre una delle prime tipologie delle epifanie

di Joyce in un capitolo intitolato “How Culious an Epiphany”176 però, nelle due fasi che distingue, nessuno spazio viene concesso al tempo o alla memoria che sembrano essere gli elementi portanti dell’epifania pirandelliana. La prima fase dell’epifania, secondo Noon, è legata alla città di Dublino dove lo spazio urbano smaschera i suoi segreti davanti al protagonista attento tramite qualche gesto o parola non premeditati (“the moments when the city gave itself away”).177 Questo significa che l’epifania accade ipso facto e hic et nunc e la memoria non viene chiamata in causa. In questa fase, che Noon definisce “di Stephen Hero”, si cerca la luce che illumina l’epifania nel soggetto e si cerca di mettere a fuoco l’occhio interiore dell’artista per raggiungere la visione epifanica sull’oggetto: “The earlier Joycean emphasis is on the light within the mind of the spectator. It is in virtue of this light that the radiant manifestation of inward being is said to be grasped and held for meditation.”178 Noon afferma che nella seconda fase, cambia il metodo e anche l’ottica dell’epifania. In Ulysses e in Finnegans Wake l’epifania diventa una strategia verbale e premeditata in cui confluiscono tutti i meccanismi di narrazione per creare insieme la visione illuminata della realtà. La luce dell’epifania non è più da ricercare dentro il soggetto ma nell’oggetto179: “As time went on, Joyce, without discounting the role of the inward light, paid less attention to it. His later remarks on epiphany, incidental as they appear in context, show that he is thinking more of the “Entis-Onton,” the “sextuple gloria of light” which is hidden within the object.180

Anche Walton Litz, nel suo classico saggio The Art of James Joyce, distingue due fasi nella concezione dell’epifania, una di “selettività” e l’altra di “inclusione” ma, come Noon, non specifica il modo in cui vi interagiscono il tempo e la memoria. Nella prima fase, dove Litz include Dubliners e il Portrait, Joyce avrebbe dunque formulato le sue epifanie in un processo di selettività e Litz afferma che l’esperienza epifanica si rivela in singoli gesti e

176

William Noon, “How Culious an Epiphany”, in AA.VV., Joyce and Aquinas, New Haven, Yale University Press, 1957, pp. 60, 62-63. 177 Ibid. 178 Ibid. 179 Ibid. 180 Ibid.

parole (“a whole area of experience through a single gesture or phrase”);181 in questi termini il Portrait presenterebbe un processo di esclusione di fatti, gesti e parole non pertinenti all’epifania. Nei lavori successivi di Joyce, Litz vede un processo di inclusione dove la quidditas viene stabilita tramite il tracciato di riferimenti e rapporti multipli. Litz mostra che col metodo precedente Joyce cercava la quidditas, nascosta in ogni cosa, convinto che il compito dell’artista è quello di scoprirla con un processo di filtrazione (“Thus in the Portrait a single gesture may reveal a character’s essential nature”).182 Con il metodo adottato nella fase successiva è l’artista che crea ad hoc la quidditas tramite la lingua (“in Finnegans Wake Humphrey Chimpden Earwicker’s nature is established by multiple relationships with all the fallen heroes of history and legend”).183

Umberto Eco, nel saggio Le poetiche di Joyce, riconosce due linee essenziali nello sviluppo critico dell’epifania. Innanzitutto, Eco è stato il primo a collegare la genesi delle epifanie di Joyce a Gabriele D’Annunzio. Eco confuta l’opinione di William Noon che la nozione di epifania sarebbe arrivata a Joyce tramite l’interpretazione tomista che ne aveva dato nel 1895 Maurice De Wulf;184 Eco dichiara esplicitamente che l’idea di Noon non è retta da evidenza ma da una tendenza a rendere Joyce più tomista di quanto non lo fosse. L’origine del termine epifania in Joyce è da ricercare nel romanzo Il Fuoco di D’Annunzio che lo influenzò profondamente (JJ:60-61). Bisogna tenere in mente che prima di questo intervento di Eco nessun critico si era accorto che la prima parte del Fuoco è intitolata Epifania del Fuoco in cui le estasi estetiche di Stelio Effrena sono descritte appunto quali epifanie della Bellezza. Il merito di Eco è dunque di aver sottolineato che quelle parti del Portrait che

181

Walton Litz, The Art of James Joyce: Method and Design in Ulysses and Finnegans Wake, London, Oxford University Press, 1961, p. 36.

182

Ibid.

183

Ibid. Questa seconda fase descritta da Litz si fonda sul rapporto tra l’epifania e le scelte operative che Joyce fa nella lingua, così come ha sottolineato anche uno dei maggiori studiosi di Joyce in Italia, Giorgio Melchiori: “Il linguaggio di Finnegans Wake è una epifanizzazione continua del linguaggio corrente, ovvio, quotidiano, attraverso un processo di traduzione che ne intensifica al massimo i valori semantici, così che il banale diviene memorabile, la parola comune diviene un vocabolo merviglioso. Finnegans Wake è tutto un’unica gigantesca epifania: l’epifania del linguaggio umano, o piuttosto l’epifania dei linguaggi.” Cfr. Melchiori, 1994, p. 6.

descrivono le epifanie di Stephen e i suoi momenti di esaltazione estetica, hanno non poche “espressioni, aggettivazioni, voli lirici che rivelano una loro indubbia parentela dannunziana.”185 A parte questa importante precisazione, Eco identifica due fasi nello sviluppo delle epifanie in Joyce: prima la fase precedente al Portrait, dove regna l’epifania del “momento emotivo” in cui “la parola artistica servirebbe al massimo a rimemorare” (si pensi a Dubliners, a Stephen Hero); in secondo luogo, quella posteriore al Portrait, in cui Joyce instaura l’epifania del “momento operativo” che “fonda e istituisce non un modo di esperire ma un modo di formare la vita”.186 Eco illustra come in questa seconda fase Joyce abbandona il termine epifania, appunto perché troppo legato al concetto di una visione statica e contemplativa. Cerca infatti di mettere più a fuoco “l’atto dell’artista che mostra egli stesso qualcosa attraverso un’elaborazione strategica dell’immagine”.187 Citando l’esempio della ragazza uccello del capitolo 4 del Portrait, Eco illustra il modo in cui Joyce non è più interessato a registrare le visioni epifaniche come nelle opere precedenti, ma cerca di rendere

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