• Non ci sono risultati.

6 settembre 1860. A stupirlo è il senso di privazione, che pare lacerarlo silenziosamente, fino a togliergli il fiato. Francesco non poteva sapere che lasciare Napoli gli avrebbe fatto quell’effetto: in fondo, ha sempre guardato con un po’ di sufficienza quella città caotica e rumorosa, la patria dei

maccarroni e di Pulcinella, facile agli entusiasmi e incline alla teatralità.

Senza accorgersene, però, quei mesi da re gli hanno insegnato a conoscerla e sentirla “sua”, e adesso deve appoggiarsi a Sofia per non soccombere all’emozione dell’abbandono.

È quasi sera quando il vapore Messaggero giunge nella rada del porto: mai come in quel momento, Francesco avverte il peso della solitudine, malgrado la nave straripi di gente che ha scelto di seguirlo fino a Gaeta, dentro il

57 ASNa, fondo Borbone, b. 1134, Lettera di Salvatore Carbonelli a S.M. Francesco II,

rifugio dei momenti di crisi. Ci sono Statella58 e La Tour59, il duca di San

Vito, Ruffano60, Ferrari61, Del Re e un’altra manciata di gente: tutti

ostentano una sicurezza che sono ben lontani dal provare, tutti coprono con chiacchiere leggere un silenzio che, altrimenti, li costringerebbe a pensare. Il re non li sente nemmeno, ha in mente soltanto le parole della sua gente, che ha inteso la sua scelta quasi come un tradimento, la rottura di un patto di fedeltà e protezione:

Quando la Patria è in pericolo, il Popolo ha il diritto di domandare al suo Re di difenderlo, perché i Re son fatti per i Popoli e non i Popoli per i Re. Noi dobbiamo loro ubbidire, ma essi devono sapere difenderci, e per questo Iddio loro ha dato uno scettro ed una spada!62.

Il suo trasferimento è sembrato più una fuga, e la rabbia non si è attenuata neanche di fronte alle sue parole di commiato, il proclama che ha indirizzato al popolo prima di partire:

58 Giuseppe Statella (1797-1862), terzogenito di Francesco Statella, principe di Cassaro,

appartenente ad una delle famiglie siciliane devotissime alla dinastia borbonica, aveva iniziato la carriera militare nel 1812. Molto caro al re Ferdinando II, era stato nominato suo cavaliere di compagnia e nel 1847 aveva ricevuto il comando del 2° reggimento lancieri. Infine nel 1855 era stato nominato aiutante generale del giovane Francesco.

59 Francesco De La Tour (1805-1872), era figlio del generale di marina conte Francesco De

La Tour ed a soli 8 anni era stato imbarcato sulla corvetta Aurora della marina siciliana. Nel 1853 era stato promosso tenente colonello e direttore della scuola equestre militare. L’8 dicembre 1856 salvò il re Ferdinando II da Agesilao Milano che voleva ucciderlo. Insignito della croce di S. Ferdinando, venne anche promosso aiutante generale del re.

60 Nicola Brancaccio principe di Ruffano (1805-1863), era figlio di Gerardo Brancaccio,

principe di Ruffano, gentiluomo di corte, e apparteneva ad una delle famiglie storiche del regno. Avviato alla carriera militare nel 1859 fu promosso brigadiere. Molto vicino al giovane re Francesco II fu nominato aiutante generale e promosso maresciallo di campo l’11 settembre del 1860.

61 Francesco Ferrari era entrato giovanissimo tra le fila dell’esercito borbonico. Nel 1833

era stato nominato Maggiore e nel 1850 Brigadiere. Da Francesco II era stato promosso Maresciallo di campo e suo aiutante generale.

62 ASNa, fondo Borbone, b. 1134, Appello di salvezza pubblica del popolo napolitano al

Fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza […]. A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui ora debbo allontanarmi con dolore […]. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dell'esercito, trasportandomi là dove la difesa dei miei diritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire, in concorso con l'onorevole Guardia Nazionale, alla inviolabilità ed all'incolumità della capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del ministero […]. I miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il suo destino, prospero o avverso, serberò sempre per essi forti e amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi causa di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici63.

Sono parole stanche, quelle, intrise di rassegnazione; sono l’appello ad una “concordia” che lascia trasparire solo il rimpianto, e non la determinazione a ritornare sul trono. Francesco se ne accorge in quel momento, così promette a sé stesso che quello sarà il suo ultimo gesto di rinuncia: a Gaeta spera di scrivere una storia diversa, senza timori né tradimenti.

Intanto, il buio ha ormai circondato il porto, e la nave prende le mosse. Vincenzo Criscuolo, il comandante, ha atteso per ore che i tre vapori di scorta, l’Ettore Fieramosca, il Ruggiero e il Guiscardo, dessero il segnale di

63 Memorie per la Storia de’ nostri tempi dal Congresso di Parigi nel 1856 ai giorni nostri,

essere pronte a salpare, ma adesso la loro quiete immobile si mostra per quello che è: il passaggio al nemico64, l’ennesimo voltafaccia, che riempie

l’animo del sovrano di una triste certezza, il presagio di quella che sarà la sorte del suo Regno, anche lì da dove spera di ripartire.

Non basta, a fugare quell’impressione, nemmeno lo spettacolo degli equipaggi delle tre navi infedeli, che si buttano in mare, per lavare la macchia della slealtà: sono circa seicento, e nei giorni successivi raggiungeranno il re nel suo esilio, alcuni con mezzi di fortuna, altri con l’aiuto della fregata Partenope, che andrà a ripescarli nelle acque napoletane.

In quel momento, tuttavia, l’immagine che resta impressa agli ospiti del

Messaggero è quella del tradimento, ancora più bruciante perché la Marina

era stata il fiore all’occhiello della dinastia. Superato il canale di Procida, è il Colon, bastimento spagnolo, ad assumersi il compito di scortare Francesco: a bordo c’è il Ministro Salvador Bermudez de Castro, che gli è rimasto accanto nei suoi ultimi mesi a Napoli, e che è pronto a seguirlo anche fuori dalla capitale, insieme a pochi altri rappresentanti dei governi europei, quelli che ancora riconoscono il sovrano come interlocutore accreditato65.

Le navi toccano terra all’alba del 7 settembre, proprio mentre l’invasore viola le mura della capitale, acclamato dal popolo come un liberatore. Negli stessi istanti in cui Garibaldi varca la soglia del Palazzo Reale, Francesco prende possesso della sua nuova dimora, la casamatta Ferdinando, che domina il paese e scruta l’orizzonte.

Intorno a lui non ci sono più le strade ampie ed animate a cui è abituato, non ci sono palazzi, giardini e monumenti: Gaeta è solo una manciata di case, qualche bottega tra le vie strette e un po’ impervie, e tutto intorno il mare,

64 Cfr., A. Gallizioli, Cronistoria del naviglio nazionale (1860-1906), Roma 1907.

65 A seguito di Francesco II vi sono: il Nunzio apostolico Pietro Giannelli; il Ministro di

che trasforma quella minuscola appendice di terra in una difesa. «Non à teatri, saloni non ve n’esistono, niuno può pensare a feste»66.

Anche i saluti degli abitanti sono mesti, e così gli onori dei militari: un’accoglienza solenne ma austera, che ritarda appena di qualche minuto il primo atto ufficiale di Francesco, la formazione di un nuovo Ministero. Nel gabinetto trovano posto i fedeli servitori dei mesi precedenti: il generale Casella, Presidente del Consiglio, che gestisce anche gli Esteri e la Guerra; Pietro Ulloa, Guardasigilli; Leopoldo Del Re, capo della Marina; infine Salvatore Carbonelli, che accetta di assumersi l’onere di gestire le dissestate Finanze Reali, dopo il rifiuto di Statella e Caracciolo.

La prima mossa della “pattuglia” borbonica è quella di inviare telegrammi a tutte le province del Regno, per informare i sudditi che lo Stato borbonico continua ad esistere, ed il governo ad operare, anche se il quartier generale si è spostato nella piazzaforte: a quel fine, si crea anche un organo di stampa ufficiale, la «Gazzetta di Gaeta»67.

Gli atti politici, per il momento, si arrestano a quello: la priorità va invece alle operazioni militari, che vedono le truppe – posizionate sulla linea del Volturno – impegnate nella riorganizzazione delle forze in vista di un nuovo attacco a Garibaldi. Al comando del generale Ritucci, di stanza a Capua, ci sono ancora 40.000 uomini, molti dei quali giunti dalla Calabria, dalle Puglie, dai forti napoletani di Castel Nuovo e Castel dell’Ovo, da dove sono fuggiti dopo che la capitale è stata conquistata.

66 C. Garnier, Giornale dell’assedio di Gaeta, rist. Napoli 1971, p. 17.

67 La «Gazzetta di Gaeta», organo ufficiale del governo di Francesco II, cominciò ad essere

pubblicata dal 14 settembre 1860. Ogni numero era suddiviso in due sezioni. La prima, denominata “Parte uffiziale”, conteneva atti, decreti e proclami reali, circolari, note diplomatiche, ordini del giorno, notizie e rapporti su fatti d’arme con promozioni e lunghi elenchi di militari distintisi nelle operazioni. La seconda sezione riportava notizie e commenti, prevalentemente politico-diplomatici, nonché una sorta di rassegna stampa. La stampa, a nome della “Stamperia del Real Ministero”, venne probabilmente realizzata dalla locale tipografia di Giuseppe Agresti. Nel 1860 ne vennero editi ventiquattro numeri, dal 14 settembre al 29 dicembre. Seguirono, sempre più di rado, altri cinque numeri, dal 2 gennaio 1861 all’8 febbraio 1861, quando le pubblicazioni cessarono in seguito alla capitolazione di Gaeta. Cfr., Gazzetta di Gaeta 14 settembre 1860 - 8 febbraio 1861, rist. Roma 1972.

L’armata è travagliata nel fisico e nello spirito: i giorni di marcia e di fame hanno sfiancato gli uomini, e anche il loro morale risente pesantemente delle disfatte dei mesi passati; ci vuole tempo perché ritrovino la forza di riprendere i combattimenti, e solo il 19 settembre, dinanzi al «prodigio di Caiazzo»68, sembra arrivato, finalmente, il momento di riorganizzare un piano di attacco: è quello che chiedono i soldati, che hanno riscoperto all’improvviso la voglia di battersi, ed è quello che vuole Francesco, che pare aver messo da parte l’attitudine agli indugi e l’indole tentennante. Ritucci, tuttavia, sembra immune a quel “furore”: stenta a formulare una strategia e rimanda continuamente la data dell’offensiva, nonostante i continui telegrammi di Casella lo richiamino alle sue responsabilità. Solo il 30 settembre, di fronte all’ennesimo appello del sovrano, il generale si risolve a fissare l’inizio delle operazioni per il 1° ottobre. Il piano prevede due direttrici, una ad ovest, con base a Capua; l’altra ad est, in direzione di Caserta: nella prima sono schierati gli uomini di Afan De Rivera e Tabacchi69; l’altra linea è sottoposta agli ordini di Von Mechel, ansioso di

ottenere, sul campo, una rivincita che cancelli il ricordo di Palermo.

Quella determinazione, tuttavia, è ancora una volta distante dallo stato d’animo di Francesco: malgrado abbia accettato di scendere in campo con suoi uomini, affiancando Ritucci sul fronte occidentale, il re fallisce nell’obiettivo di motivare i soldati attraverso la propaganda; il suo poco felice proclama alle truppe, alla vigilia della battaglia, si serve di un linguaggio pacificatore che mal si accorda alla prospettiva di un imminente combattimento, e scade a tratti nell’autocommiserazione:

68 Nella città di Caiazzo, le truppe borboniche – aiutate dalla popolazione, guidata dal

maniscalco Nicola Santacroce – erano riuscite a sconfiggere i garibaldini ed a prendere il controllo della zona, che era d’importanza strategica per lo spostamento delle truppe da Capua a Caserta.

Soldati! Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di oppugnare paesi dall’inimico occupati, obbligo di re e di soldato m’impone di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità ed in ferocia quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate adunque generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti e prodigate loro […] quegli ajuti che è in vostro potere di apprestare. Ricordatevi che le case e le proprietà nei paesi che occupate militarmente sono il ricovero e il sostegno di molti che combattono nelle nostre file: siate adunque umani e caritatevoli con gli infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità. L’obbedienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e decisa; abbiate infine innanzi agli occhi sempre l’onore e il decoro dell’esercito Napoletano70.

La tempra del giovane sovrano non è certamente quella del condottiero; in quello stesso istante, l’eroe in camicia rossa esorta i suoi volontari a battersi come i Greci alle Termopili, e la differenza tra le armate che i due uomini rappresentano emerge anche dalla distanza dei loro riferimenti concettuali: Francesco sembra pronto ad un duello, Garibaldi va alla guerra.

Gli eserciti si incontrano all’alba di un tetro lunedì d’inizio autunno: dopo due ore di combattimento, la battaglia sembra volgere a favore del fronte borbonico. Gli avamposti garibaldini sono costretti ad indietreggiare, mentre la divisione Tabacchi – a dispetto della scarsa esperienza del suo comandante, che ha percorso la sua carriera nei granatieri della Guardia, al riparo da pallottole e feriti – procede spedita, ansiosa di ricongiungersi alla squadra di Von Mechel per chiudere i nemici in una morsa fatale. Anche sul fronte orientale i borbonici avanzano velocemente, portando le camice rosse a retrocedere oltre il Monte Caro. A sera, tuttavia, la determinazione dei comandi garibaldini e l’arrivo delle riserve di volontari compiono il

miracolo, annullando il vantaggio dei soldati di Francesco: inizia in quel

momento un arretrare lento ma costante, che già l’indomani vede le colonne intorno a Caserta sopraffatte dal fuoco nemico, e i generali borbonici incapaci di attuare una controffensiva efficace. Uno dopo l’altro, tutti i reparti vengono battuti, e alla fine della giornata la battaglia è conclusa. Le truppe garibaldine hanno perso più di 3.000 uomini, quelle napoletane la speranza: al di là delle perdite ingenti, e dell’alto numero di feriti e prigionieri, la sconfitta sul Volturno rappresenta infatti la fine delle velleità di riconquista militare del Regno. Anche Ritucci, malgrado le insistenze di Francesco, rifiuta di concepire un nuovo piano d’attacco, scoraggiato dalla disfatta e spaventato dall’imminente arrivo delle truppe piemontesi, che avanzano da nord.

Intanto, quello che resta dell’armata borbonica ripiega su Gaeta, ultimo avamposto ancora in funzione, oltre quelli di Messina e Civitella del Tronto, che assumono ormai le sembianze di “cattedrali nel deserto”: la piazzaforte viene scossa da una mesta sfilata di soldati, il cui solo obiettivo sembra essere quello di un’ultima, rassegnata resistenza.

Francesco assiste a quell’incessante processione con l’animo in subbuglio, e con una strana inquietudine addosso. L’esito della battaglia, e l’impossibilità di una nuova offensiva, sembrano svuotare di significato la sua presenza nel forte, e il re si rifugia nuovamente nell’apatia, incapace di reagire alla sconfitta se non con la speranza di intervento straniero, che giunga finalmente a rimetterlo sul trono. Le iniziative politiche, così, spettano esclusivamente ai suoi ministri: sono loro a prendere in mano le redini del governo, curando i rapporti diplomatici e allacciando i contatti con i diversi centri dell’esilio, che si ingrossano, in quei giorni, di uomini in fuga dalla rivoluzione nazionale e dalla prospettiva dell’annessione al Piemonte. Dopo il dispatrio dei siciliani, adesso anche dal continente le partenze si susseguono a ritmo costante, disseminando per l’Europa uomini in cerca di una patria provvisoria, mossi dalla fedeltà a quella che hanno perduto,

oppure semplicemente dal bisogno, dagli ideali o dalla paura, in cerca di un alloggio prima del ritorno al passato, o semplicemente ansiosi di ricostruirsi un futuro. Le loro storie sono diverse: poliziotti e militari, uomini della politica o semplici burocrati, nobili e borghesi, persino qualche ecclesiastico, spaventato dall’anarchia e dal governo garibaldino; sono le mete ad essere uguali, quelle città che si trasformano in approdi, rifugi in cui sperimentare l’intimità stretta e continua dell’esilio, le sue privazioni, le ansie e le contraddizioni, con lo sguardo ancora rivolto a ciò che si è lasciato, e le speranze concentrate sul governo di Gaeta, l’unica possibilità di poterlo riavere. È così che le dimore del dispatrio diventano la sede di veri e propri Comitati d’azione, che cooperano attivamente con i diplomatici napoletani per la creazione di una «questione borbonica», capace di convincere l’opinione pubblica ed i governi europei della legittimità della loro causa: si tratta, in quel momento, dell’unica opzione praticabile, in attesa che più precise direttive d’azione e di coordinamento giungano dal governo di Francesco, al quale si continua a fare riferimento.

Alla metà di ottobre è Canofari, Ministro napoletano a Parigi, a scrivere a Casella, per aggiornarlo delle iniziative promosse dal Comitato della capitale francese:

Si sta organizzando un giornale che sostiene il principio federale e combatte le annessioni: sarà pubblicato in francese, ed io ho promesso appoggio ai compilatori. Spingo alla immediata realizzazione del progetto71.

La creazione del giornale riscuote l’immediato consenso di Ulloa, che sin dall’arrivo a Gaeta è stato convinto assertore della necessità di una

71 ASNa, fondo Borbone, b. 1364 (II), Lettera di Canofari a S.E. Francesco Antonio

campagna d’opinione di respiro europeo, di cui si è fatto portavoce con più energia all’indomani del Volturno.

Adesso, le notizie che arrivano da Parigi gli prospettano la possibilità di creare un punto di contatto con i circoli legittimisti d’oltralpe, e rinvigoriscono la speranza di un intervento del governo francese in favore della dinastia: proprio in funzione di quell’ipotesi, il Ministro riesce ad ottenere il finanziamento dell’iniziativa editoriale, con l’invio immediato di 3000 ducati all’indirizzo di Canofari.

Quest’ultimo, intanto, torna a scrivere a corte, per inoltrare una copia del

Manifesto Federale che il Comitato ha spedito ai rappresentati diplomatici

degli altri Stati italiani. L’autore è Carlo De’ Ricci, figlio di un generale borbonico, che ha lasciato la capitale dopo l’entrata di Garibaldi e, in seguito ad una breve sosta a Civitavecchia e Marsiglia, ha scelto di stabilirsi a Parigi, con l’obiettivo di creare una lega federale italiana, di indirizzo antisabaudo. Il suo progetto ha incontrato le simpatie dell’inviato toscano, Albèri, e quell’adesione è stata la premessa alla stesura del documento:

Signori!

invitandovi ad ascoltare le gravi considerazioni che ci vennero suggerite dalle condizioni miserrime dell’Italia nostra, molto si è tenuto conto dei vostri lumi, molto della nota benignità delle vostre intenzioni, ma più ancora della schietta e ferma vostra intenzione […] di promuovere la libertà e l’indipendenza della nostra patria. Rappresentanti degli Eredi officialmente legittimi di tutti i diritti del popolo nostro, voi non sapreste, né potreste, volendolo, sconoscerli; in questo caso voi non fareste che la negazione di voi stessi; ma voi volete anzi difenderli e per noi e con noi, confederando le nostre forze e dando loro quell’indirizzo nazionale che meglio risponda al genio, all’indole, alle tendenze, alla Storia del nostro popolo. In presenza di una divagazione tristissima del vero concetto nazionale, davanti la negazione la più enorme del diritto prestabilito, in faccia all’ingiuria la

più insolente […] noi tutti abbiamo protestato contro la politica del gabinetto di Torino, che assumeva la responsabilità di quegli atti72.

L’operazione compiuta da Torino diventa, per De Ricci, infrazione del diritto internazionale e coercizione della sovranità, in nome di un principio di nazionalità «esclusivo», che nega le diverse anime dell’Italia e pretende di scioglierle, a forza, nell’identità piemontese. La tesi verrà sposata, in breve, da una larga fetta dell’opinione pubblica dei vinti – a partire da quel

Documenti correlati