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ESPOSIZIONE DELLE CAUSE SECONDO IL MIO PER- PER-SONALE PUNTO DI VISTA

Il primo fattore di questo non troppo riuscito de-centramento va ricercato in primo luogo nella as-soluta mancanza di senso del dovere, di ordine, di disciplina degli elementi che si fanno affluire alle formazioni.

Il risultato deleterio dei commissari politici che, sia pur a loro insaputa, intralciano l’opera discipli-nare istruttiva delle formazioni, asserendo troppo spesso e alla leggera, davanti a partigiani, specie se giovani, non essere le nostre formazioni a carattere prettamente militare, che gli ufficiali sono come gli altri (togliendo così ogni prestigio al grado e ren-dendo insubordinati i partigiani); troppo spesso, fomentando diffidenza or verso il capo squadra A perché non comunista, or verso il caposquadra B perché apertamente monarchico ecc., si era creata una tale atmosfera di diffidenza reciproca a tutto scapito della coesione necessaria e per la quale due lunghi mesi ho faticato inutilmente.

Senza contare il continuo sobillare nelle conventi-cole delle azioni a qualunque costo, il discutere gli ordini del comando, il continuo promettere armi e

viveri e munizioni che non sono mai venuti, od in parte infinitesimale, od arrivati solamente quando, con mezzi e uomini della formazione acconsenti a tralasciare ogni altra bisogna, a tutto scapito del periodo organizzativo, e ad inviare in missione, an-che per delle settimane intere, svariati uomini lon-tani dall’accampamento.

Il secondo fattore deve essere ricercato nel conte-gno poco corretto dei variopinti comitati che in tre mesi di abboccamenti, discussioni ecc. non hanno sentito il dovere di svegliarsi e di accelerare l’invio di materiali e di armamento, ma si sono limitati a mandare alle formazioni alcune diecine di uomini, completamente disarmati e scalzi, spesso inservi-bili perché ammalati (anche assai gravi), come se il bosco fosse diventato non un campo di battaglia ove occorrono forti e sane fibre ma un semplice ricovero di mendicità. Di questo si deve convenire con me che è semplicemente delittuoso. Basti dire che, dopo tanto pregare, chiedere, minacciare, mi sono trovato con metà degli uomini disarmati, con cinque mitragliatrici inservibili, due senza treppie-di, tre senza otturatore. Tutto materiale però non provveduto dai comitati ma raccolto da noi, con mezzi nostri, con uomini nostri, anche se due di queste (le Breda da carro armato) erano già in do-tazione ad altra squadra.

Il terzo fattore è quello degli stranieri, i quali anco-ra una volta mi hanno dato anco-ragione. Essi non inten-dono battersi né poco né tanto, basti il fatto che alle prime scaramucce gettano le armi così fatico-samente raccolte, si vestono degli abiti dei reparti

di provenienza, se ne hanno, dicendo che, se presi senza armi, non vengono fucilati, e preferiscono andare da soli sfruttando i coloni ove transitano e sono più sicuri.

Ora di gente che mangia e che vive solo per questo, oppure per questo o perché al bosco fin che non succede il fattaccio si sentono più sicuri, ne abbia-mo di nostri purtroppo disgraziatamente!

Altro fattore è quello della selezione degli uomini da inviarsi alle formazioni. A parer mio non basta che uno sia ricercato per la leva militare per dar-gli diritto ad avere accesso nelle formazioni. Cre-do che necessiti molto di più. Se non vi è una fede da difendere, se non vi è una giusta causa per cui lottare, se il sacrificio a cui si va incontro non è sentito, se la volontà di lotta non è emanazione dell’animo, voi non avrete che elementi per far numero nei bivacchi, negli accampamenti, buoni solo a chiedere e pretendere, quasi che la loro pre-senza alle formazioni fosse una accondiscendente grazia che ci fanno, ma primi sempre a svignarsela al primo scontro. Di questi pesi morti ne abbiamo troppi, come troppi vi sono dei così detti ricercati politici dell’ultima ora, i quali, non sapendo dove andare, vengono alle formazioni con il solo propo-sito di essere più sicuri. Intendiamoci, non vorrei essere frainteso, parlo di quegli elementi che in un ventennio di nefasto regime fascista, avevano ri-tratto le corna nel guscio per il timore di vedersele rompere e che all’alba del 26 di luglio ’43 si sono buttati avanti convinti (come la maggioranza degli italiani) che tutto era ormai superato e che

basta-vano poche smargiassate piazzaiole e la loro non richiesta presenza nel pullulare dei variopinti co-mitati cittadini e che, assunti degli incarichi, anche di una certa delicatezza, si sono inopportunamen-te segnalati alla vigile sorveglianza fascista e così, volenti o nolenti, si sono dati al bosco maledicendo in cuor loro il giorno e l’ora che avevano ritratto le famose corna dal guscio. Questi elementi, spes-so incolti, si erigono di fronte alla gioventù come dei perseguitati, vantano dei diritti, degli ideali che non hanno, ripetono frasi fatte e rifritte sul diritto delle mani callose, spregiando ogni intellettuale, biasimando ogni ordine e disciplina con l’euforia sciocca, il generale diviene soldato, il soldato divie-ne gedivie-nerale, il direttore diviedivie-ne operaio e l’operaio direttore e via dicendo, primi sempre alla gavetta ma pieni di acciacchi quando si tratta di servizi, di guardie, di pattuglie e spesso eclissandosi al mo-mento dell’azione.

Tutto questo ha per inevitabile risultato la disgre-gazione morale degli individui che ad essi vengono a contatto, e l’ordine e la disciplina vanno a farsi friggere.

Esempio: Date le vaghe ma insistenti notizie giunte a questo comando nei giorni 14 e 15 circa i prepa-rativi che l’avversario faceva per un rastrellamento della zona, mi credetti in dovere di richiedere dalle squadre una maggiore e più accurata sorveglianza.

Per colmo di leggerezza e di incoscienza la squadra dislocata a Poggio Rocchino, non solo ho accerta-to che non aveva affataccerta-to montaaccerta-to la guardia, ma si sono fatti sorprendere in letto, ed anche, ammesso

che avessero avuto il tempo di opporre difesa, que-sta sarebbe que-stata meno che insufficiente, dato che da un sopralluogo fatto si è trovato che le munizio-ni, meno un caricatore per ogni moschetto, sono alla costruenda capanna distante circa un’ora da Poggio Rocchino.

A Campo al Bizzi il ten. Vittorio7, comandante quel distaccamento, alle ore 5 era uscito di pattuglia in direzione della strada che da Monterotondo porta al Poggio di q. 400, lasciando l’incarico ai rimasti di fare la sorveglianza a Poggio Granchio. Non solo non fu montata la guardia ma pure qui si fecero trovare a dormire.

Il tenente durante il servizio di pattuglia venne ad imbattersi in un nucleo di fascisti che spalleggiava-no una mitragliatrice, dà ordine di fare fuoco ed impugnata la rivoltella spara, gli altri quattro uomi-ni si dileguano nel bosco senza aver sparato un solo colpo, ed egli poté salvarsi grazie alla sua abilità.

Altro esempio: nella marcia di trasferimento delle squadre fuori zona, il Dottore marciava in testa con una guida. Ad un dato punto si deve attraversare la strada maestra, sono appena dodici passi, ma il Dottore prende giustamente le sue precauzioni.

Dà l’alt alle squadre e con la guida si porta in mez-zo alla strada e ascolta, gli pare di udire rumore di auto e lo dice a voce alta, ascolta ancora e si sov-viene dell’errore. Il rumore che sente è generato dai fili della corrente elettrica che sono vicinissimi, quindi dice “avanti”, attende, nessuno si muove, si porta al limitare della siepe e fa il fischio

conven-⁷ Vittorio Ceccherini.

zionale, lo ripete più volte, nessuno risponde, im-pazientito chiama per nome, tutti zitti, finalmente dal bosco vicino esce un russo al quale il Dottore domanda cosa è successo, ed egli confessa che hanno avuto paura e se la sono squagliata. Il Dot-tore torna indietro, chiama, cerca e gli ci vuole una buona mezzora per riordinarli, ed alcuni avevano gettato il moschetto. Questa squadra era compo-sta da un italiano, il resto russi, inglesi e croati.

Mi pare che ve ne sia a sufficienza per scoraggiare ogni bene intenzionato. Questi incidenti mi hanno dato ancora una volta la dimostrazione di come sia arduo il compito prefissomi, ma non per questo la mia fede nel popolo italiano vien meno, solo si raf-forza in me il convincimento che il nostro popolo è inebetito, è un bambino che va molto guidato e sorretto al modo stesso come fa la madre con il piccolo nato. Esso ha perduto coscienza dei suoi doveri ed è necessario riportarlo alle ancora fre-sche fonti del dovere mazziniano, ricreargli una coscienza ed incutergli nell’animo lo spirito gari-baldino e creargli una volontà di riscossa scevra da ogni e qualsiasi immediato tornaconto personale.

Bisogna creargli una fede perché la fede è la forza della vita, ma per il momento il nostro popolo non ha più fede. Ciò è assai doloroso!

Fatemi conoscere se è possibile un abboccamento con Livio o con P. con il mezzo stesso che vi faccio recapitare questa.

Saluti fraterni

[firma “Chirici” a matita rossa: una M maiuscola tagliata]

Dopo i fatti di Campo al Bizzi e le divisioni, le polemi-che, le accuse, mio padre, se pur amareggiato, non si dette per vinto e si rimboccò le maniche per ricostru-ire la banda con i 14 fedelissimi che gli erano rimasti accanto. La perdita dei cinque giovani compagni fu per Mario un grave colpo. Per lui quei giovani parti-giani erano come figli.

Fra i suoi scritti e documenti ho trovato il discorso che tenne due anni dopo l’eccidio, il 17 febbraio del 1946, al Frassine, in occasione della commemorazione ai caduti.

La guerra era appena finita ma si percepisce dalle parole del babbo una forte delusione per la piega negativa che avevano preso gli eventi. Gli ideali del-la Resistenza erano stati traditi e molti personaggi dell’Ancien Régime avevano di nuovo occupato posti chiave nelle pubbliche amministrazioni. Era mancata una giusta epurazione, ed era nell’aria l’amnistia to-gliattiana.

Nel suo discorso ricorda così i ragazzi morti nel ra-strellamento.

Vorrei qui davanti a voi parlare di ciascuno e di tutti i nostri morti, ma troppo lungo sarebbe il mio dire!

Vorrei portare alla vostra mente la figura esile dal viso di fanciullo semplice e buono, calmo e sereno di Pio Fidanzi. L’asciutta figura un poco dinoccolata dell’allegro Benedici, sempre in vena di canore esi-bizioni. Il servizievole Mancuso che in sé

racchiu-deva la bontà del popolo meridionale e l’ardore della terra di Sicilia. Il taciturno Meoni pressappo-co della stessa generazione e di questa ne incarna-va i pregi e i difetti. Caduto il fascismo, si gettò nella lotta forse non con chiare idee, ma deciso e con Otello Gattoli fu l’animatore della sfortunata resi-stenza di Campo ai Bizzi, egli fu l’eroe della giorna-ta. Gattoli Otello, amico carissimo, per parlare di te è necessario che io non pensi a te. Bisogna che dimentichi i pensieri che mi confidasti e l’affetto che avesti a dimostrarmi. Bisogna che dimentichi le ansie e le speranze riposte nei brevi istanti nei quali ci fu concesso scambiarci i nostri pensieri...

…Ma cosa possiamo dire di più e di meglio se non che tutti i giovani usciti da una generazione trava-gliata, tutti nati e cresciuti sotto l’indegna littoria e che nella caduta del fascismo sentirono istintiva-mente aprirsi l’animo avanti ad una nuova era di libertà e di giustizia che essi mai avevano conosciu-ta.Nessuno di costoro poteva allora definirsi di que-sto o quel partito, erano cresciuti sotto il peso del-la dittatura mussoliniana che tutte le menti e tut-ti gli spiritut-ti aveva tentato di livellare nella mistut-tica fascista, ed avevano sentito nel loro petto il cuore dilatarsi, ingrandire, sublimarsi, al primo soffio di un’aria di libertà.

Erano accorsi al bosco non perché avevano questa o quella idea da difendere, ma per quel senso di ribellione che è proprio dei giovani. E si fecero ri-belli, si fecero partigiani, forse senza neppure com-prendere la portata ed il significato del loro gesto,

ma con spontanea generosità e nella breve vita di bosco, a fianco dei più anziani, avevano cominciato a discutere, a pensare, ma troppo breve fu il tempo perché potessero crearsi una coscienza politica e potessero definirsi.

Ed appunto perché il loro movimento fu spontaneo nessun partito può vantarne la paternità, anche se nel corso degli eventi alcuni di quei partiti si distin-sero più degli altri nell’opera organizzativa e di as-sistenza ai combattenti della libertà.

Tutti i movimenti politici ebbero la loro parte, i loro morti ed i loro sacrificati.

Oggi i morti che uscirono dal popolo, sono del po-polo ed al popo-polo ritornano.

Il 24 giugno 1944 la 3a Brigata Garibaldi, dopo aver partecipato in maniera strategica alla liberazione del-la zona delle Colline Metallifere, risale una stradina di campagna per entrare trionfalmente, a ranghi com-patti e con gli uomini ben equipaggiati, a Massa Ma-rittima, per liberarla. Chi ha con sé bandiere rosse e bandiere tricolori, chi un elmetto tedesco, un ferito viene trasportato su un carro trainato da buoi. Ai lati del corteo marciano numerosi prigionieri tedeschi. In testa c’è mio padre, smagrito, con i capelli neri petti-nati all’indietro, la casacca scura, i pantaloni a sbuffo raccolti dentro agli stivali di cuoio nero e gli occhiali rotondi che gli danno un’aria da intellettuale. Babbo aveva continuato a leggere e a scrivere, anche quan-do si trovava nel bosco, con la sua immancabile mac-china da scrivere Olivetti M40.

Sorride Mario, è in mezzo ai suoi ragazzi partigiani di-ventati uomini in dieci mesi di macchia, di stenti e di Resistenza.

Il film di questo momento storico è registrato in una cassetta VHS, quando lo vidi ero insieme a tanti vecchi partigiani in un locale pubblico di Massa, restammo stupefatti, poiché nessuno, nel momento esaltante del primo giorno di libertà, si rammentava di essere stato ripreso e a stento si riconosceva cinquanta anni dopo! Gli americani, durante la risalita sul fronte ita-liano, avevano cineoperatori militari al seguito della V Armata per riprendere i combattimenti, gli incontri, la popolazione e le formazioni partigiane. Una volta resi pubblici gli archivi militari, quei filmati della Campa-gna d’Italia divennero documentari della serie Com-bat Film.

Eppure poco prima delle riprese, l’incontro con la formazione americana comandata dal maggiore Ca-staldi, non fu dei più amichevoli, come si evince dalla descrizione del partigiano piombinese Luigi Tartagli, aiutante di campo di mio padre, nel suo libro di me-morie Alla Macchia.

Era il 24 giugno. Sulla strada che conduceva a Mas-sa, nei pressi del podere Granchiaia in località La Spina, trovammo un anziano accovacciato che piangeva disperatamente; era Carlo Vichi. Il Co-mandante Chirici, che era in testa alla colonna, gli si avvicinò chiedendo cosa fosse accaduto. Il pove-retto con la mano indicò l’aia del podere. Andati avanti vi scorgemmo dei corpi coperti da lenzuoli.

Erano i cadaveri di Luigi Martini, Astutillo Fratti, Damiano, Dante e Giovanni Molendi. Erano stati massacrati dalle SS in ritirata. Alcuni di loro aveva-no dei pugnali o baionette conficcate nelle carni.

Fu una scena orribile... la nostra colonna riprese la marcia verso Massa, portando con noi lo stesso Vichi. Fatti pochi passi fummo raggiunti dalle auto-blindo americane, con una jeep che portava il co-mandante; seguivano altri mezzi carichi di soldati.

Ci resero gli onori militari. Il nostro comandante presentò la forza all’ufficiale americano informan-dolo che oltre 50 tedeschi erano nella nostra co-lonna come prigionieri. Dopo queste formalità il maggiore Chirici informò il comandante americano dell’orrenda strage che era stata appena scoperta dicendo che si trovava vicino. Alcuni di noi ritorna-rono indietro insieme ai due comandanti. Di fronte all’orribile scena l’ufficiale americano si coprì gli occhi ritirandosi e chiese al maggiore Chirici che gli venissero consegnati subito i prigionieri. Fatta la consegna l’ufficiale pronunciò degli ordini ad alta voce. Furono prelevati dal gruppo una decina di prigionieri. Vennero allineati sul ciglio della strada, fu loro strappata la camicia e, dietro un altro ordi-ne, un drappello di soldati si portò loro di fronte con le armi spianate. Ad un ordine dell’ufficiale i soldati levarono le sicure dei Thompson. Queste operazioni vennero eseguite con rapidità sorpren-dendo tutti noi che non avevamo previsto tutto ciò. Fu a questo punto che il comandante Chirici si portò davanti ai prigionieri tedeschi urlando che non avrebbe permesso una strage. Egli gridò: «Per

loro la guerra è finita, sono nostri prigionieri. Solo al termine della guerra, caso mai, dovevano esse-re giudicati da un tribunale militaesse-re e con esse- regola-re processo esseregola-re condannati». Il Chirici venne spinto malamente dall’ufficiale americano. In un attimo si udì il ticchettio degli otturatori di tutte le armi dei partigiani e degli americani. Seguirono pochi momenti di silenzio che indussero il coman-dante americano a recedere dalla sua decisione.

L’ufficiale, senza rivolgere la parola a nessuno, salì sulla sua jeep dando disposizioni per il trasposto dei prigionieri e si allontanò.

Gli screzi con gli americani non finirono lì. Qualche giorno dopo, in città furono convocati i partigiani presso il Cinema Mazzini imponendogli la consegna delle armi. Anche in questo frangente mio padre fati-cò a convincere i giovani a farlo perché quelle armi li avevano resi indipendenti e orgogliosi di aver liberato il Paese. Il babbo parlamentò con i graduati e dila-zionò la raccolta. Chissà quante di quelle armi furono riconsegnate!

Il periodo dal giugno 1944 a tutto il ’45 fu difficile.

Da una parte “il trattamento” alleato, dall’altra il riac-cendersi delle polemiche con alcuni esponenti del PCI per i contrasti emersi durante i nove mesi di macchia e infine lo scontro con i fascisti locali che, tornati in città, avevano ripreso ad alzare la testa.

Si riacuirono rimostranze nei confronti di Mario da parte di un gruppo di partigiani della formazione che lo accusarono di non aver saputo gestire la battaglia di Campo al Bizzi, la scelta di aver annesso la Brigata

al Raggruppamento Monte Amiata, e di aver storna-to alcuni fondi di proprietà della formazione per fini personali. Accuse pesanti che lo afflissero. Fu istituito un giurì d’onore, emanazione del locale CLN, che lo scagionò.

Nel 1945 la mia famiglia si trasferì a Follonica. Ma-rio rimase in contatto con alcuni amici antifascisti massetani con i quali un decennio più tardi fonderà il giornale “La Torre Massetana”. Nell’immediato do-poguerra si occupò di far conoscere il periodo storico della Resistenza a tanti giovani e sostenne, attraverso le sue relazioni, alcuni componenti della formazione e persone che durante la Resistenza avevano rischiato la vita per aiutare i partigiani.

Entrò a far parte del Partito d’Azione e dopo il suo scioglimento aderì al Partito Repubblicano, di cui fu uno dei primi segretari della sezione di Follonica.

Mantenne contatti affettuosi con il vecchio amico di confino Emilio Lussu e con Piero Calamandrei.

Trovò lavoro come impiegato alla Magona di Piombi-no. Anche in questa circostanza la sua partecipazione alla Resistenza gli procurò grane e dispiaceri.

Dovette fare i conti con gli strascichi velenosi della guerra civile. Mio padre e due ex comandanti parti-giani furono insultati e minacciati dai familiari di ex militi repubblichini. Pur comprendendo gli animi feri-ti di costoro, per far cessare gli attacchi, presentaro-no un esposto ai Carabinieri di Piombipresentaro-no. La vicenda sembrava conclusa ma il 9 settembre del 1953 mio padre venne tratto in arresto, accusato dai parenti di ex fascisti della presunta uccisione di militi repubbli-chini. La difesa fu assunta dal suo vecchio amico

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