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§ 36 Posizione:

considerazioni generali con fine di guida alle ultime analisi

A fronte del percorso sin qui svolto, pare giunto il momento, per l'Esserci, di confrontarsi con la propria struttura originaria e con le conseguenze che un tale misurarsi comporta. Ciò, non solo su di un piano di analisi ontologico- esistenziale, ma anche all'interno dell'orizzonte ontico-esistentivo che l'Esserci è chiamato quotidianamente ad esperire.

Partendo dalla dimenticanza della questione intorno all'Essere e al suo senso, abbiamo sin qui cercato, insieme a Martin Heidegger, di sviluppare un itinerario che, partendo dalla quotidianità e dallo smarrimento del Esserci nel Si, approdasse - attraverso il “varco” costituito dalla situazione emotiva dell'angoscia - sino alle soglie di una possibile comprensione autentica dell'esistenza nel suo esser rimessa dall'Essere, nell'Essere.

Il riferirsi heideggeriano al problema del 'senso' dell'Essere e non, più semplicemente, all'Essere, richiama il nostro interesse. Il termine 'senso', in effetti, porta la nostra attenzione filosofica presso quella 'significatività' con cui l'Esserci, nella quotidianità, “integra” gli enti a partire dai quali è stato abituato a pensare dalla metafisica tradizionale occidentale. In qualche modo, questa mossa heideggeriana, “indispettisce”. Sta forse Heidegger contraddicendo il primato

dell'Essere? Sta introducendo l'Esserci quale vero “protagonista” della ricerca?

Le cose, sosteniamo, stanno e non stanno così. La 'battuta' heideggeriana intorno al 'senso' dell'Essere implica certamente un richiamo al senso che l'Essere ha per l'uomo, ma lo fa esclusivamente in virtù del primato ontologico che

l'Esserci stesso porta con sé.

L'interrogazione dell'Essere, la sua messa in questione filosofica, è resa possibile a partire dall'originaria apertura trascendentale di cui l'Esserci è costitutivamente dotato. Il problema è del 'senso' dell'Essere in quanto solo grazie all'Esserci e al suo 'posizionarsi ecstatico' l'Essere può venir interrogato. Va da sé che il problema del 'senso' che l'uomo attribuisce all'Essere non solo non può esser tralasciato, ma deve anzi esser posto come centrale.

Il problema dell'Essere e il problema del 'senso' che ad esso l'Esserci attribuisce: l'oblio dell'Essere riguarda un modo di pensare e di far esperienza dell'ente. Ogni qual volta l'Esserci, che noi stessi siamo, copre il manifestarsi dell'Essere con un 'raccontare storie' (μῦθόν τινα διηγεῖσθαι)518 sta “creando” un problema che

riguarda precisamente il 'senso' che all'Essere viene imposto, ed entro il quale esso è imprigionato. E ciò perché gli oscuramenti e gli imprigionamenti dell'Essere nascono come altrettanti auto-oscuramenti e auto-imprigionamenti. Ciò che nasconde e imprigiona è sempre ὁ αὐτός: ovvero quella 'stessità' che fonda l'Esserci nel suo essere e gli enti intramondani tutti: l'Essere.

Risulta dunque chiaro che, se l'Esserci è l'unico ente a poter interrogare l'Essere (da cui è egli stesso costituito), allora il 'senso' che questo gli attribuirà sarà decisivo nei termini di una comprensione autentica o inautentica della verità dell'Essere e dell'esistenza a cui esso rimette l'Esserci.

Ecco perché i problemi 'esistenziali' cui andiamo incontro con Martin Heidegger devono esser sempre “torti” ontologicamente per poter essere compresi senza fraintendimenti. I problemi esistenziali di Heidegger sono problemi filosofici, sono problemi ontologici, in quanto, in essi, ne va della verità dell'Essere.

Il tentativo di Heidegger – e, insieme a lui, il nostro – è dunque quello di far sì che l'Esserci, nella sua esistenza, possa liberarsi dal suo essere incatenato all'interpretazione media e vaga – ma anche teoreticista, astratta – in cui

518 Il riferimento heideggeriano del paragrafo 2 di Essere e tempo è al Sofista di Platone, 242 c. Cfr. ET, p. 17.

l'esistenza inautentica costringe il mondo. E far sì, invece, che l'Esserci possa schiudere a se stesso la verità a cui è consegnato, in un'esperienza fatta di cogenza e concretezza filosofica, nella quale l'Essere possa svelarsi nella sua piena necessità e possanza.

Cercheremo dunque, in questo ultimo capitolo, di portare l'Esserci innanzi al proprio carattere più autentico, ovvero davanti a se-Stesso (a discapito del Si- stesso). Ciò con l'intento di chiarire maggiormente se e come, l'Esserci, possa comprendere se stesso in piena autotrasparenza e allo stesso tempo lasciar dischiudere l'Essere nella sua verità.

§ 37 Essere-per-la-morte: possibilità ed autenticità

Nella prima parte del presente studio, l'evento della morte è stato presentato nel suo accadere all'interno dell'orizzonte quotidiano dell'Esserci. In particolare, creando in interlocuzione tra alcune delle riflessioni svolte in Essere e tempo e le pagine de La morte di Ivan Il'ic di Lev Tolstoj, è stato analizzato come l'Esserci

inautentico tenda a porsi innanzi al fenomeno della morte in modo del tutto elusivo. Fin tanto che gli è possibile, fin tanto che è ancora vivo, l'Esserci «bara»519 con la morte, ossia finge che essa non si dia affatto come una concreta

possibilità dell'esistenza.

Nell'esistenza inautentica la morte permane, dunque, nei termini «sfuggenti»520

di un'eventualità che, per lo più, di tanto in tanto, capita “agli altri”. La significatività originaria della fine dell'esistenza in quanto evento rimane, per lo più, abbandonata alle interpretazioni rassicuranti del Si e, dunque, nascosta nella propria portata più radicale. Ciò che di essa rimane è un'interpretazione media e scontata, che depotenzia e svilisce la morte nella banalità di un evento quotidiano

519 L'espressione è di Rachel Bespaloff. Cfr. SH, p. 31. 520 ET, p. 303.

tra i molti.

L'interpretazione pubblica della morte dice: 'si muore'521. Il 'Si' è anonimo, non

appartiene a nessuno in particolare, esso tranquillizza e suggerisce all'Esserci che la morte non è la sua , che essa accade sempre e solo in generale e che, per lo più, riguarda gli altri. «Il 'morire' - scrive Heidegger - è in tal modo livellato a un evento che certamente riguarda l’Esserci, ma non concerne nessuno in proprio»522.

Certamente l'Esserci inautentico non può mai disfarsi del tutto della possibilità della propria, che sa inevitabile, ma la indebolisce costringendola a «palesarsi il meno possibile nella sua possibilità»523. Essa deve, perciò, rimanere oscurata

nella sua verità fondamentale.

Nel presente paragrafo, ci proponiamo di meditare, assieme a Martin Heidegger, intorno al fenomeno della morte considerandolo sotto una luce affatto differente. Ci soffermeremo, dunque, vicino a tale accadimento per considerarlo nella sua chiarezza ontologica e nella sua densa significatività originaria. Con ciò, crediamo, potremo provare (sia pur solo provare!) a dirigere il cammino dell'Esserci verso una più autentica comprensione di sé e del proprio essere-nel- mondo.

Ciò che andiamo cercando è, stando alle parole dello stesso Heidegger, un

essere-per-la-morte autentico, intendendo con ciò il raggiungimento, da parte

dell'Esserci, di una relazione autentica con la fine della propria esistenza.

Come sarà possibile, per l'uomo, instaurare questo genere di relazione con la morte? «Prima di tutto – scrive Heidegger – bisogna caratterizzare l'essere-per- la-morte in quanto essere-per una possibilità»524. Il che non significa affatto, per

togliere dal campo possibili malintesi, prendersi cura di qualcosa affinché si realizzi525.

L'Esserci deve, innanzitutto, dismettere il proprio abituale modo di pensare

521 ET, p. 303-304. 522 Ibidem. 523 ET, p. 313. 524 ET, p. 312. 525 Cfr. Ibidem.

all'evento della morte come ad un factum brutum, un mero accadimento che, prima o poi, dovrà verificarsi nella “realtà”. Egli deve, invece, cominciare a pensare tale accadimento nei termini di una possibilità che, in quanto esistente, gli appartiene in modo eminente.

Detto altrimenti: si tratta, per l'Esserci, di smettere di intendere la morte alla stregua di un 'oggetto' distaccato da sé che, un giorno, senza che egli lo abbia in alcun modo cercato, lo colpirà direttamente. Per ricostruire la relazione Esserci- morte (essere-per-la-morte) sarà dunque necessario ricucire l'allontanamento che è andato progressivamente creandosi tra i due in termini esistenziali. Scrive Heidegger: l'Esserci «deve dischiudere questa possibilità come tale»526, senza

coprirla o indebolirla, lasciando che essa si sveli per ciò che è.

Ma perché una comprensione autentica della morte si rende così necessaria all'Esserci in un suo eventuale cammino verso l'esistenza autentica? Cosa rivela questo fenomeno di così fondamentale?

La risposta è una sola e da essa si dipanerà la nostra riflessione: l'evento della

morte rivela l'Esserci nella sua finitezza innanzi all'Essere.

Nel paragrafo 50 di Essere e tempo Heidegger scrive:

La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza incombente eccelsa. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’avanti-a-sé527.

L'Esserci esiste in quanto è dotato di un'apertura trascendentale (ec-stasi). Esso non è assimilabile ad una mera presenza intramondana (semplice-presenza) chiusa nella propria ipseità; è invece in grado di comprendersi nella propria esistenza in un orizzonte più ampio, ontologico.

L'orizzonte ontologico in cui l'Esserci, ecstaticamente, si ricomprende, è di fatto

526 ET, p. 313. 527 ET, p. 301.

assimilabile al concetto di essere-nel-mondo. Ovvero all'esser consegnato dell'uomo, dall'Essere e nell'Essere, a una molteplicità di relazioni e rimandi che ne stabiliscono l'originaria coappartenenza con il mondo.

L'esistenza (ek-sistenza), dunque, è ciò che permette all'Esserci di “sporgersi” al di là di se stesso e ricomprendersi in quanto l'essere-nel-mondo. Ove l'esistenza venga a mancare, ovvero nella morte, ogni legame si scioglie e l'esistere dell'uomo conosce un abbandono totale528. Ecco dunque perché Rachel Bespaloff

scrive che, per l'Esserci, nella morte, «ne va del suo poter-Essere-nel-mondo come tale»529. Nella morte si scioglie ogni relazione e vincolo dell'Esserci con il

mondo, ogni possibilità d'essere è resa impossibile.

Pare dunque comprensibile il perché l'Esserci tenda a rifuggire il pensiero di questa estrema possibilità. Nel suo annunciarsi angosciante l'uomo intuisce la

fine, il cessare che consegna l'esistenza ad un abisso insondabile e oscuro, fatto di niente. A uno stato emotivo così inquietante provvede l'interpretazione media e

quotidiana del Si, che tranquillizza l'Esserci intendendo la morte come un evento pubblico ('si muore') che capita solo in generale, del quale non bisogna preoccuparsi eccessivamente.

In qualche modo il Si suggerisce che la morte non riguardi affatto la propria singola esistenza, ma che sia piuttosto un fatto noto, che accade di quando in quando. Certo, la morte di un parente o di un amico può toccare più da vicino che non altre; eppure anche quella morte, per l'Esserci, non è la 'sua' morte. Essa, come evento proprio di quell'Esserci che io sono, è semplicemente ignorata.

Scrive Rachel Bespaloff:

Nel suo deperire, la vita quotidiana è una fuga cosciente davanti alla morte, un essere-verso-la-morte530 inautentico. Risoluto a ogni costo a scartare la

possibilità di un'esistenza «finita» […]531.

528 Queste ultime battute sono prese da Rachel Bespaloff. Cfr. SH, p. 31. 529 SH, p. 31.

530 Così traduce Laura Sanò l'heideggeriano «Sein zum Tode». La nostra edizione di Essere e tempo preferisce invece «essere-per-la-morte». Cfr. ET, p. 605.

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