Carlo Deregibus
1 Bisogna sottolineare che in
ef-fetti esiste un sistema normal-mente associato all’architettura, composto dalle riviste dedicate, dalle interviste in televisione, dal mondo del marketing, dai mecca-nismi di produzione della celebri-tà: è quello che viene non a caso definito star-system. Gli architetti che sono dentro il sistema si chia-mano archi-star, e l’ingresso al si-stema, per quanto aperto, non è né facile né scontato, esattamente come in un sistema naturale. Ogni elemento può agire nel sistema, la cui organizzazione a livello siste-mico non viene però mai scalfita – infatti, lo star-system esiste da decenni se non secoli, e funziona circa nello stesso modo. Dunque è un vero “sistema”: solo che poco ha a che fare con il progetto di ar-chitettura, né riguarda (se non co-me relazione lontana) la stragran-de maggioranza stragran-degli architetti.
Ph ilo so ph y Ki tc he n EXTRA # 2 — An no 5 — Ge nn ai o 2018 — ISBN: 978-88-941631-1-7 — TURNS . Di al og hi t ra a rc hi te tt ur a e fi lo so fi a 136 Pr oge tto e c om ples sit à. F asci no d ell'a na lo gi a e l ib er o a rb itr io — Ca rlo De re gi bu s
diversi oggetti e diversi soggetti: da ognuno dei quali, come una germinazione, si genererà una “mappa di relazioni”, 2 un intreccio a
le-gare gli elementi nel sistema.
Ora, come interagisce l’architetto – cioè un elemento del sistema – con il sistema stesso?
Potremmo dire per esempio che progettare edifici a basso consumo energetico ha un impatto sul sistema nel suo complesso, sul sistema-mondo – oltre lo zoom, insomma. Ma non dobbiamo farci ingannare. In effetti ogni azione, anche quelle che non guardano consapevolmente al sistema tutto, lo influenzano comunque, ora o in futuro: quando decenni fa si costruivano i primi eco-mostri, non si imma-ginava il loro impatto sul resto del mondo (del sistema), ma quell’impatto c’era lo stesso. Tutto, ha un effetto: da qui la vulgata del battito d’ali di farfalla che pro-voca un tifone dall’altra parte del mondo.
Se tutto ha un effetto, e non possiamo essere certi degli impatti sul si-stema, allora diventa molto difficile capire quali interazioni promuovere e quali no. Un castoro non sceglie se fare dighe: 3 le fa
gui-dato da qualcosa che va oltre la sua coscienza, al di là del bene e del male. Ma noi non siamo al di là del bene e del male: esistono cose giuste e sbagliate, e raramente sono ovvie. Per esempio, a noi forse sem-bra ovvio sostenere un atteggiamento prudente ver-so l’ambiente, ma in altre zone del mondo, per inte-ressi economici o emergenze abitative, le priorità sono altre (esattamente come era da noi qualche de-cennio fa). Solo una scelta, libera, ci fa preferire certe interazioni ad altre. Per questo, anche se possiamo guardare a ogni contingenza come se fosse un siste-ma, al tempo stesso non dobbiamo mai credere che i meccanismi che regolano le azioni dei singoli siano assimilabili a quelli evolutivi di una cellula in un
or-ganismo. Perché, a differenziare l’agire di un architetto (o di qualunque altro indi-viduo), c’è uno scopo diverso dalla pura evoluzione, e il libero arbitrio necessario a determinarlo e perseguirlo.
Se il primo punto di contatto cui accennavo è quindi la possibilità di ve-dere ogni contingenza progettuale come se fosse un sistema, il secondo invece consiste nelle pratiche di progetto che utilizzano processi morfogenetici evolu-tivi, analoghi quindi a quelli naturali. Non si tratta in effetti di semplici ispirazioni al mondo digitale, bensì di applicazioni di teorie evoluzioniste e di vita artificia-le alla progettazione. Le prime sperimentazioni hanno ormai vent’anni: nel 2004, una celebre mostra le riuniva al Centre Pompidou di Parigi. Erano architetture ca-ratterizzate sì da forme amorfe (free-form), ma anche e soprattutto da approcci non-standard al progetto. 4 Tra questi architetti
c’e-rano Gregg Lynn, Marcus Novak, i NOX, OBJECTILE: tutti pionieri di quella che possiamo definire morfo-genesi computazionale architettonica. 5
Senza entrare nel dettaglio, potremmo dire che in questi approcci la morfogenesi, cioè la defini-zione della forma, avviene non attraverso un lavoro tradizionale, per esempio con disegni bidimensiona-li e modelbidimensiona-lini di studio, con progressivi affinamenti
2 Su questo tema dell’autore si
ve-da Deregibus (2014, pp. 169 e ss).
3 Anche se, in linea di principio,
non si può escludere che un gior-no nasca un castoro che voglia co-struire un ponte, invece che una diga. Questa ipotesi può sembrare sciocca se immaginiamo l’improv-visa nascita di un “super-castoro”, ma non lo è del tutto se conside-riamo un’evoluzione potenziale, che in centinaia di migliaia di an-ni muti gli attuali castori in essere più complessi. Da qui potremmo discutere circa il “quando” il libero arbitrio abbia assunto tale potere rispetto all’istinto naturale, anche per gli uomini: ma non è questa sede per affrontare questo tema.
4 Si veda Migayrou-Mennan (2004),
che conteneva anche il manife-sto “non-standard”, scritto da Bernard Cache e Beauce Patrick di Objectile (Vers une mode de
production non-standard).
5 Anche se non esiste un nome
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affidati alla capacità formale dell’architetto; bensì at-traverso un software che, atat-traverso serie successi-ve di tentativi, orienta la forma secondo alcune rego-le iniziali, imposte dal progettista. Così, a partire da una serie di ipotesi, 100.000 per esempio, esse
ven-gono tutte evolute e valutate secondo i parametri impostati: a ogni generazione, i migliori risultati sopravvivono e passano alla successiva, fino ad arrivare a un risultato finale, quello che ottimizza la forma. Nel Meiso no Mori, il famoso crema-torio di Toyo Ito, sono stati impostati alcuni attacchi a terra come punti fissi, e il programma ha trovato una forma capace di avere in ogni punto il medesimo li-vello di tensione strutturale e, quindi, lo stesso spessore: ottenendo così un “velo” bianco a spessore costante. 6 L’architetto ha deciso
il concetto (il velo), ma la forma in sé deriva dal pro-gramma: né esiste un altro modo con cui la copertura avrebbe potuto essere progettata.
Il processo non è lineare, esattamente come in natura: alcuni esemplari sembrano ottimi a un do di evoluzione, ma poi si rivelano inadatti a gra-di successivi, e così vengono scartati. Esistono molti
strumenti per realizzare un simile approccio: un tempo si operava esclusivamen-te tramiesclusivamen-te scripting, cioè elaborando istruzioni in linguaggio di programmazio-ne (l’esempio più famoso è forse Rhinoscript per Rhinoceros). Poi, gradualmente, dato che simili programmi sono difficili da maneggiare, sono stati sviluppati dei tools che danno interfacce grafiche al linguaggio di programmazione (il primo e più celebre è Grassoppher). Ognuno di questi strumenti implica vincoli e influen-ze nel progetto, e capirli diventa parte fondamentale
del lavoro di progetto. 7
Sembra proprio che questi approcci funzio-nino come l’evoluzione in natura! Ma il fascino dell’a-nalogia non deve ingannarci. In natura, l’evoluzio-ne ha come unico obiettivo la sopravvivenza: la vita vive per la vita, e muore quando si arresta. Nel pro-getto, c’è un dio, il progettista, che impone le basi dell’evoluzione, i modi per valutarla, e soprattutto la sua fine: che in natura sarebbe la morte, mentre qui è la soluzione progettuale. L’evoluzione, nel progetto,
è indotta dal dio, dal progettista: che, al di là di qualunque proclama, potrà accet-tare o rigetaccet-tare il risultato dell’evoluzione, secondo il proprio libero arbitrio, se-condo le proprie scelte progettuali. Magari a Toyo Ito il primo risultato ottimiz-zato non è piaciuto, ed è stato scartato: non lo sapremo mai, né importa, perché è potere dell’architetto uccidere il risultato evolutivo, e produrre un nuovo esito.
Dunque, anche per l’architettura, il fascino del mondo della complessità è comprensibile: sia per guardare al proprio mondo che per operare, gli architet-ti possono effetarchitet-tivamente uarchitet-tilizzare strumenarchitet-ti che sfruttano le forarchitet-ti analogie con il mondo della complessità. Senza però dimenticare che l’analogia non elimina le differenze rispetto ai sistemi naturali o che imitano quelli naturali, né l’inevitabile esistenza del libero arbitrio.
seconda dei casi New Structuralism (Oxman, 2010a), Performative
de-sign (Oxman, 2008), Digital tecto-nics (Oxman, 2010b), e così via.
6 Per ottimizzarla, Mutsuro Sasaki
ha modellato la copertura come se fosse pura scultura, in seguito affi-nandola strutturalmente attraverso un’analisi di sensibilità (Sensitivity Analysis – SA), modificando-ne iterativamente la curvatura.
7 «Eravamo abituati a crearci da
soli il software su misura per quel-lo che volevamo fare…E adesso ci troviamo a dipendere da altri che fanno le cose per noi e che, natu-ralmente, non le fanno nel modo in cui noi vogliamo farle. Ci trovia-mo sempre a dover valutare i di-versi software per trovare quello che si avvicina di più alle nostre esigenze» (Zils, 2006, pp. 34-36).
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Partirei dall’interrogarci su una questione che credo sia centrale: cioè se la rivo-luzione morfogenetica di cui stiamo parlando abbia a che fare principalmente con la valutazione e l’ottimizzazione, oppure se sia qualcosa che va oltre. Io per-sonalmente credo che l’aspetto meramente valutativo sia secondario, in questi approcci.
Architetti come Makoto Sei Watanabe, o Ben Van Berkel e Caroline Bos, non parlano di “ottimizzazione di dati” ma, per esempio, di usare i diagrammi dei flussi di persone per articolarne i parametri relazionali, superando le categorie istituzionali. Non sono dati, quelli che vengono ottimizzati, ma relazioni tra ele-menti che sono spesso incommensurabili tra loro.
Per questo c’è il riferimento forte agli ecosistemi, dove il principio di auto-organizzazione pone queste relazioni alla base della stabilità del sistema. In questi processi progettuali non ci sono mai i singoli dati, e non si parte mai da un dato discreto, iterandolo semplicemente. Per esempio, nel progetto per la stazione di Arnhem Centraal, nei Paesi Bassi, 1 il loro
progetto usa questi diagrammi di flussi per creare uno spazio non indistinto, con una forte individualità e individuazione architettonica: non per valutare una
performance di un progetto già dato.
È uno spostamento del modo in cui si guarda al progetto, perché un si-mile processo progettuale si determina durante l’evoluzione del progetto stesso, e non segue quindi il tradizionale modo di pensare al progetto come messa in fi-gura di un concetto formale pensato dall’architetto.
Giovanni Leghissa
Voglio dire però una cosa che credo sia importantissima. Secondo me non dob-biamo parlare di approcci al progetto per i quali le teorie della complessità fun-zionano a livello di metafora, di analogia.
Dialoghi
1 Un progetto durato venti lunghi
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Un po’ perché fare analogie tra campi disciplinari diversi porta, di solito, a poco: l’analogia ci serve per proiettarci nel mondo, non per dimostrare qualco-sa. Un po’ perché quello che in realtà dobbiamo capire è che l’architettura è un si-stema complesso. Non è questione di pensare che la progettazione, per analogia, possa avvenire in modo da mimare i sistemi autopoietici; o che l’architettura ab-bia caratteristiche che assomigliano ai sistemi complessi; ma di capire che l’ar-chitettura è, a tutti gli effetti, un sistema complesso a livello ontologico.
Ci sono sistemi viventi che si autoriproducono nello spazio, e sistemi autopoietici che si riproducono nel tempo. La teoria della complessità ci permet-te di dare conto di entrambi questi sispermet-temi, e di spiegare quindi processi che esi-stono, che avvengono, e che non potremmo altrimenti comprendere. Non si tratta di dire che il politico, o l’architetto, o il filosofo, o il soldato, o il cittadino agiscano in analogia ai sistemi autopoietici: si tratta di comprendere il paradigma esplica-tivo di una dinamica che, fatte salve le differenze, è universale.
dall’uditorio
Ma quando Humberto Maturana e Francisco Varela 2
scrivevano dei sistemi autopoietici, si riferivano a si-stemi viventi, non a sisi-stemi inorganici, come le
mac-chine o altro. Anzi, il sistema è autopoietico perché vivente, e viceversa, mentre le macchine sono artifici dell’uomo e quindi sono entità distinte, separate. Se è così, però, allora come possiamo parlare di autopoiesi riferendoci a macchine ar-tificiali? E allo stesso modo, mi sembra forzato parlare di progetto e di autopoiesi: direi che siamo senz’altro in una dimensione analogica.
Paola Gregory
È vero, Maturana e Varela parlavano di autopoiesi riferendosi ai i sistemi viven-ti, ed eteropoiesi in riferimento alle macchine, cioè le cose prodotte dall’uomo. Però è anche vero che tutta la teoria dell’autopoiesi ha un punto di svolta fonda-mentale nello sviluppo della vita artificiale: penso per esempio ai libri di Gregory Bateson sul rapporto natura-artificio e sull’organizzazione dei sistemi non viventi. Certo, le macchine non sono sistemi viventi: ma la soglia tra macchine e sistemi viventi è meno ovvia e chiara di quanto appaia. E il punto è proprio che queste teorie modificano il nostro modo tradizionale di definire il vivente.
Danilo Zagaria
A proposito della relazione tra natura e artificio, mi sembra utile richiamare il libro di Roberto Marchesini, Posthuman (2002), che racconta come, mentre in passato gli studi sull’intelligenza artificiale erano condotti con un approccio
top-down, cercando di ricreare il pensiero nella macchina, ora si tenti di ricostruire le
reti neurali partendo dalla base, lasciandole cioè sviluppare secondo un proces-so bottom-up: è chiaro dunque che il limite tra il sistema vivente e la macchina viene così messo in discussione.
Volevo aggiungere due cose sull’analogia. Diciamolo chiaramente, ciò di cui stiamo parlando è ovviamente un’analogia: la teoria dell’evoluzione è svin-colata da ogni scopo, non ha una progettualità iniziale. Quindi non possiamo pen-sarla come un modello da comparare al progetto architettonico, in cui una esiste
2 Cfr. Maturana-Varela
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una finalità e si parte da condizioni date. Nel sistema vivente, non c’è alcuna “con-sapevolezza”, perché non c’è un’intenzionalità che va verso un fine. Non è un caso che la metafora sia quella di un “orologiaio cieco”: 3
i processi sono estremamente affinati e raffinati, ma non hanno direzione e progettualità iniziale.
Pensate alle teorie dell’Intelligent design, 4
così diffuse negli Stati Uniti: sono teorie che postula-no che alcune strutture (ad esempio l’occhio) siapostula-no così complesse che l’evoluzione, da sola, non avreb-be mai potuto generarle, anche in milioni di anni. E quindi ne derivano che esista una progettualità di qualche tipo, “superiore”: ovviamente, per un evolu-zionista questa ipotesi è priva di senso, che si oppo-ne alle teorie dei sistemi complessi e autopoietici.
Silvia Malcovati
Mi sembra che la questione principale riguardi l’or-ganizzazione, la struttura dei sistemi. E per me, come credo per molti architetti, il termine “struttura” ri-manda immediatamente a Cesare Brandi, che nel 1967 scriveva Struttura e architettura. L’anno
se-guente, Enzo Melandri scriveva La linea e il circolo, un testo sull’analogia che introduceva, per gli archi-tetti, il concetto di un archetipo strutturale che pre-cede la forma. Questi testi sollevavano il problema dell’autonomia o eteronomia dell’architettura: cioè del capire fino a che punto si rimanga nell’ambito dell’architettura nel momento in cui ci si riferisca a processi che appartengono ad altre discipline, per-dendo inevitabilmente un mondo di riferimenti e tra-dizioni che sono parte strutturante della disciplina architettonica. Se l’architettura è un sistema strut-turato con questi riferimenti e tradizioni, può dav-vero ignorarli per rivoluzionarsi? E qui entra in gio-co una segio-conda questione che oggi è emersa: quella del formalismo. Il formalismo percorre tutta la storia dell’architettura, perché sempre l’architetto si chie-de la ragione chie-della propria forma.
Certo, l’autonomia dell’architettura è un po’
un discorso astratto, tautologico: l’architettura è fatta di certi elementi, e la for-ma trova la sua giustificazione attraverso una qualche intenzionalità di tipo ar-chitettonico. Meno scontato è una visione eteronomica dell’architettura: lì, l’e-mergenza morfogenetica produce dei risultati che hanno una componente di accidentalità, di casualità rispetto al progetto stesso. Da qui, non dalle premesse ma dai risultati, nasce il problema della valutazione: quando una forma è giusta? E perché è giusta?
Io credo che dovremmo stare molto attenti al fatto che gli strumenti informatici ci consegnano la possibilità di attivare un processo creativo che
pre-scinde dalle nostre preferenze, in cui non sappiamo dove arriviamo e se abbiamo
3 Cfr. Dawkins (1988). Il termine
ri-prende la celebre analogia dell'oro-logiaio, usata da Cartesio, Robert Boyle e soprattutto dal filosofo e teologo William Paley (1802) per dimostrare l’esistenza di Dio, se-condo il postulato che l’esistenza stessa di un prodotto implichereb-be un progettista – Dio appunto. Dawkins modifica l’originaria ana-logia in quella dell'oroana-logiaio
cie-co: in questa versione, la varietà e
complessità degli organismi sono dirette conseguenze della raffitezza dei processi di selezione na-turale. Se i processi naturali sono tanto raffinati, in sostanza, por-teranno inevitabilmente a risulta-ti molto complessi, rendendo su-perflua l'esistenza di un disegno intenzionale ad opera di un'entità sovrannaturale: forse Dio ha cre-ato i meccanismi evolutivi, ma poi sono i meccanismi evolutivi che hanno creato il mondo. [N.d.C.]
4 L’Intelligent Design (disegno
in-telligente, o progetto intelligen-te), anche chiamato “creazioni-smo scientifico”, è una corrente di pensiero secondo cui una “causa intelligente” spiegherebbe meglio alcuni elementi e alcune carat-teristiche dell’universo, rispetto all’evoluzionismo basato sulla se-lezione naturale. È una teoria che tendenzialmente vuole dimostrare l’esistenza di Dio, anche se nelle varie interpretazioni ammette cau-se intelligenti divercau-se, magari alie-ne. Cfr. Dembski (2007), Johnson (1991). Naturalmente è una teoria molto controversa e osteggiata dal mondo scientifico in genera-le. Per una critica sull’argomen-to cfr. Pennock (2002). [N.d.C.]
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gli strumenti per valutare il punto di arrivo. Riprendo quello che diceva Carlo Deregibus sulla città come sistema dell’architettura: anche la città ha una sua tautologia, fatta della riconoscibilità di spazi che sono portatori di un certo tipo di messaggio, di società, di civiltà. Quindi dovremmo fare molta attenzione a non confondere il piano degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione con quello degli obiettivi che l’architettura si pone, o si dovrebbe porre.
dall’uditorio
Se però guardiamo a questi processi morfogenetici come a continue valutazioni di risultati e parametri, allora il processo è impostato sulla base di regole che co-munque imposto io. E in fondo, la definizione delle regole è esattamente un’ope-razione progettuale: potremmo dire persino che è il progetto. Quindi non c’è