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FASCISMO e il carattere Bastone

era stato ridisegnato in forme più agili e moderne nel 1916 per la metropolitana di Lon- dra. Nella repubblica di Weimar e nelle pubbli- cazioni del Bauhaus, questo carattere incar- nava ormai la risoluzione e la mediazione tra esigenze di razionalità e innovazione.

Nonostante queste tendenze abbiano avuto un’influenza significativa, due eventi furono decisivi per le sorti della tipografia Italiana: un manifesto per un’adunata di camicie nere nel 1927 e la triennale di Milano del 1933. Luigi Spazzapan nel 1927 creava il manife- sto poc’anzi citato, utilizzando un carattere angoloso e squadrato, proponendo una nuo- va estetica grafica per il nuovo regime e sot- tolineando un deciso rifiuto del calligrafismo liberty, che era stato dichiarato quello stesso anno della Critica Fascista “una ridicola cian- frusaglieria e chincaglieria”.

E solo pochi anni più tardi, alla triennale di Milano, Paul Renner presentava il Futura, carattere bastone da lui disegnato tra il 1927 e il 1930, in un’Italia che avvertiva come sem- pre più urgente l’esigenza di un rinnovamento che sembrava collocarsi nel sentiero raziona- lista. Il resto è storia: come fa notare Arman- do Petrucci, la questione, avrebbe di lì a poco “scavalcato” le pagine i manifesti per gettarsi tra la braccia della nuova architettura del regi- me. Gli architetti innovatori (tra cui è oppor- tuno citare il Gruppo 7 e il Miar), si accinsero ad estendere un manifesto dell’architettura “razionale”; nel loro programma, la grafica non veniva trascurata, anzi, doveva configu- rarsi appropriata e coerente alla nuova esteti- ca attendendosi ai canoni di essenzialità,

funzionalità, semplicità.

“Il tavolo degli orrori”, esposto nel 1931 alla seconda mostra di architettura razionale, fu un’ulteriore cartina tornasole delle nuove ten- denze. In esso erano mostrati caratteri liberty e déco come i principali “nemici” del movi- mento moderno; mentre, al contrario gli ampi e geometrizzati alfabeti maiuscoli che richia- mavano chiaramente il filone sovietico e wei- mariano, venivano esaltati come una strada appropriata al linguaggio architettonico del regime nascente. Solo due anni più tardi, nel- la quinta triennale milanese, saltava all’occhio un impiego massiccio, negli ambienti ester- ni quanto negli interni, di scrittura maiuscola d’apparato utilizzata per titoli, motti celebrativi e citazioni del Duce.

Tutto nel semplice e moderno carattere basto- ne, celebrativo nella sua austera semplicità; si inaugurava così la nuova scrittura d’apparato, che, non presentava in realtà particolari varia- zioni rispetto a quella adottata del Bauhaus e nella grafica sovietica.

Il passo, tra scrittura e nuova politica urba- nistica fu breve. Già dal 1925 Mussolini, annunciava la pianificazione che sarebbe sta- ta attuata nei centri storici: i famosi sventra- menti, accompagnati dalla creazione di nuovi edifici monumentali, creavano all’interno delle città, degli immensi vuoti di superfici e ampie prospettive visive.

Questi ultimi dovevano, in un certo senso essere “completati” e riempiti, compito que- stp, che venne affidato alla scrittura.

In particolare, parliamo di quella vistosa scrit- tura epigrafica d’apparato che durò circa un decennio. La tipologia grafica era rappresen- tata dal carattere “bastone”, epigrafico per nascita, sembrava contenere nella sua essen- za caratteristiche di leggibilità, semplicità e monumentalità. Il carattere geometrizzato e spogliato da orpelli veniva scolpito a rilievo su gli edifici, nella maggior parte su superfici bianche, in che, lo rendeva perfettamente leg- gibile anche da ingenti distanze, in particolare illuminazioni oblique e in prospettiva.

La più tradizionale tecnica dell’incisione cad- de invece inevitabilmente in disuso, in quanto, la mancanza di grazie del carattere bastone, lo rendeva assai poco leggibile.

Così, la scrittura d’apparato, diveniva, all’in- terno delle città un complemento estetico necessario ed elemento di equilibrio. Rileva a tal proposito Armano Petrucci, che tra il 1930 e il 1943 la scrittura di tipo bastone, squadra- ta e rilevata, arrivò ad identificarsi come uno degli elementi più peculiari della liturgia fasci- sta, e lo stile grafico ufficiale, di un capitolo della storia Italiana.

Non meno rilevante era però la funzione, in un certo senso più “quotidiana” e propagandisti- ca, del carattere d’apparato. Venne riportata in auge la pittura murale, andando ad appro- priarsi di superfici libere di case comuni. E che fosse attuata tramite operazioni a pen- nello manuale, o stampi era irrilevante: il tutto

il che è probabilmente un paradosso, dal momento che la pittura murale nasce innan- zitutto come rivendicazione di libertà espres- siva. In questo caso diventava invece espres- sione dell’imposizione del regime. Dipinta, fotografata, o disegnata, la scrittura d’appa- rato faceva capolino in tutte cerimonie pubbli- che, promosse dal fascismo, che spaziavano dalle mostre alla parate.

Una nuova fase effimera sembrava affacciarsi però da queste celebrazioni, alla quale si uni- va l’effimero utilizzato nella pubblicità com- merciale. In questo settore infatti, il tentativo era quello di emulare lo stile tipografico del regime, con la naturale conseguenza di molti- plicarlo a dismisura, ma, probabilmente senza un reale rigore formale.

Presumibilmente, si può identificare in questo disordine formale, la ragione per cui Buronzo, residente dell’Ente Nazionale dell’Artigianato e Piccole Industrie, incarica l’architetto Adalber- to Libera di pubblicare un manuale pratico per il disegno dei caratteri. Infatti, così scriveva Vicenzo Buronzo nell’introduzione di tal opera, dichiarandone così i fini:“Diciamo invece che se c’era nel vastissimo campo del lavoro arti- giano, un settore da bonificare e da purificare con estrema urgenza, era proprio quello degli scombiccherati e strambi ordini alfabetici ultra moderni, troppo feracemente sboccianti al caldo sole del novecento [..] Eravamo giunti alle contaminazioni calligrafiche più assurde, alle più mostruose e false esplosioni della fan- tasia [..] a un vero farneticamento calligrafico”. Adalberto Libera disegna quindi, per citar- lo direttamente, nella sua nota iniziale del

Manuale pratico per il disegno dei caratteri, che in quell’opera avrebbe disegnato “sei alfa- beti […] scelti tra quelli di uso corrente, tenen- do conto non solo della bellezza stilistica del disegno e della chiara leggibilità dei caratteri, ma anche e soprattutto dei valori decorativo e pubblicitario che sono indispensabili per le particolari applicazioni cui sono destinati.” Ma lo stesso aggiungeva nel capoverso successi- vo che il vero “valore pratico di questo manua- le sta nel fatto che tutte le dimensioni di un carattere e della sua costruzione geometrie.” Rigore, disciplina e semplicità, queste erano le parole d’ordine per riportare in carreggiata i disordini stilistici che venivano a crearsi nel modo del lavoro quotidiano degli artisti e arti- giani a causa della carenza di direttive specifi- che del regime.

A destra: Adolfo Porry Pastorel, foto scattata a Roma alla mostra della protezione civile e delle maschere anti-gas, 1937.

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