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1.4 La penetrazione straniera in Cina e la diffusione della fotografia

1.4.5 Felice Beato

Felice Beato fu il primo a intraprendere il mestiere di fotogiornalista di guerra in Cina. Nato nel 1832 a Corfù da madre italiana, imparò il mestiere di fotografo da James Robertson, con il quale fondò la società Robertson & Beato (1853-1860)108. La sua carriera di fotografo conta numerosi reportage di guerra. Dopo aver collaborato con il socio in Crimea si spostò con un assistente verso l’Asia Orientale. Arrivò in India per documentare la rivolta dei Sepoy (1857- 1858) e le conseguenze dell’assedio di Lucknow (1859) immortalando, per la prima volta nella storia della fotografia, veri cadaveri. Sarà ricordato nella storia proprio per questo particolare: i suoi scatti ritraevano corpi esanimi, solo ed esclusivamente di ribelli o soldati

105 Reinhard, Wolfgang. Storia del colonialismo. Torino: Einaudi, 2002, p. 209. 106 Aimone e Olmo, op. cit., p. 166.

107 Reinhard, op. cit., p. 210.

108 I due collaborano fino al 1860, quando Beato decise di lasciare la società. Robertson continuò il mestiere mantenendo inalterato il nome della società fino al 1864.

stranieri. Molti storici ritengono che abbia riposizionato, spostato e selezionato i corpi per aumentarne l’effetto di drammaticità scenografica. La manipolazione della realtà serviva per giustificare la propria presenza in quei luoghi, spostare l’attenzione dal numero delle proprie perdite umane sul numero di ribelli uccisi, mostrando al mondo intero le possibili conseguenze di una ribellione alle potenze europee.

Nel 1860, verso la fine della Seconda Guerra dell’Oppio, si stabilì in Cina al seguito delle truppe anglo-francesi. Arrivò al porto di Hong Kong dove conobbe l’illustratore Charles Wirgman e insieme a lui si mosse verso Tianjin; arrivò ai forti Dagu, dove si stavano svolgendo le fasi conclusive della guerra e dove venne firmato il Trattato di Tianjin. Immortalò la devastazione dei forti avvenuta per mano dei soldati inglesi e francesi e il momento cruciale della resa cinese rappresentata dalla firma del Trattato di Pechino. In quell’occasione fotografò il Palazzo d’Estate prima che le truppe alleate lo distruggessero con un incendio.

Di particolare interesse risultano gli scatti fatti a Dagu. Una sequenza di immagini fu ricostruita in modo da narrare una vicenda storica: l’avvicinamento ai forti, le conseguenze di un bombardamento alle fortificazioni e alle mura, le devastazioni interne e i cadaveri. In realtà, tutta questa documentazione visiva fu raccolta nell’ordine inverso: i cadaveri vennero immortalati prima che fossero spostati, poi si poté procedere con gli scatti dell’ambiente interno ed esterno ai forti. Un aneddoto raccontato da un testimone, il dottor David F. Rennie, ben descrisse l’atteggiamento di Beato in quell’occasione:

I walked round the ramparts on the west side. They were thickly strewed with dead — in the north-west angle thirteen were lying in one group round a gun. Signor Beato was here in great excitement, characterising the group as "beautiful", and begging that it might not be interfered with until perpetuated by his photographic apparatus, which was done a few minutes afterwards109.

Le apparecchiature fotografiche dell’epoca non permettevano ancora le riprese in diretta degli avvenimenti, perciò le immagini erano sempre di scene precedenti o successive ai fatti. In ogni caso, la cosa che rimane inalterata è ciò che Susan Sontag definisce ideologia nel suo più ampio significato: «non è mai la documentazione fotografica che può costruire – o più esattamente identificare – gli eventi; essa dà sempre il proprio contributo solo quando l’evento ha già un nome»110. L’immaginario occidentale riguardo i cinesi era già ben formato dai vari

109 Rennie, David F. The British Arms in North China and Japan: Peking 1860, Kagosima 1862. London: J. Murray, 1864, p. 112.

modi di rappresentazione dell’epoca sull’altro (racconti, oggetti, mostre ed esposizioni). La fotografia era lo strumento che, carico del rigore scientifico associatogli, meglio poteva supportare l’ideologia imperialistica di Gran Bretagna e Francia. Qualcuno potrebbe ribattere che, al fine di ricercare il consenso pubblico per il sostegno alla campagna militare, pubblicare le immagini delle atrocità e delle devastazioni causate dai propri soldati sarebbe potuto risultare controproducente; a volte viene dimenticato che

I periodici illustrati più diffusi, quelli che stampano centinaia di migliaia, talvolta milioni di copie a numero e per testata, proprio questi sono collegati con i centri del potere più esclusivo: non è del resto un mistero per nessuno. Com’è possibile illudersi che attraverso questi canali si trasmettano messaggi visivi in contraddizione con quelli che sono gli interessi della gestione? […]. Un’immagine e un’informazione in generale, è producente o controproducente — insomma efficace, viva e non una scoria, un fossile dell’informazione — quando è attuale. L’istante appresso la sua ripresa la fotografia comincia a svuotarsi del significato relativo all’attualità rappresentata, per cominciare ad assorbire significati internazionali, cioè quelli stabiliti dal mezzo della sua diffusione111.

A differenza delle immagini della guerra di Crimea, che rimasero praticamente invendute, gran parte degli scatti di Beato sulla Cina trovò un mercato ad accoglierli: soldati, amministratori coloniali e mercanti furono tra i principali acquirenti.

Oltre alla sua attinenza con il reale – sia in Cina che in India i cadaveri ritratti non furono, volutamente, mai di soldati inglesi o francesi – un’altra questione fondamentale fu il significato che si volle affermare: per esempio Andrew Jones definì il processo al collodio umido, utilizzato da Beato per immortalare il Palazzo d’Estate prima della sua distruzione, «the neutron bomb of nineteenth-century photographic techniques»112 che spazzò via le persone dall’immagine, preservando però l’architettura. Secondo Jones il messaggio fu quello di espropriare i cinesi dei loro spazi architettonici, permettendo agli stranieri di immaginare questi spazi vuoti come propri.