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Fiere e modelli di scambio negli Abruzzi del ‘400

Amedeo Feniello

Il sistema di fiere rappresenta l’aspetto più originale dell’economia me-ridionale del secondo Quattrocento. Un fenomeno straordinario evidente dal loro stesso numero che, secondo i recenti calcoli di Heleni Sakellariou, erano, nell’intero Regno all’inizio del XVI secolo, 3351.

Tab. 1 - Fiere nel Regno di Napoli Tra XIII e XVI secolo

Province Grandezza

(in km2) 1200-1550 1200-1399 1400-1550

Abruzzo Citra 4.223 19 9 10

Abruzzo Ultra 8.010 26 8 18

Contado Molise 3.004 8 3 5

Capitanata 8.364 32 16 16

Terra di Bari 5.312 74 24 50

Tera d’Otranto 7.240 31 8 23

Calabria Citra 7453 15 2 13

Calabria Ultra 7.513 36 4 32

Basilicata 9.384 12 8 4

Terra di Lavoro 6.862 31 13 18

Principato Citra 5.731 29 6 23

Principato Ultra 3.644 22 6 16

Totale 76.740 335 107 228

1 H. Sakellariou, Southern Italy in the Late Middle Ages. Demographic, Institutional and Eco-nomic Change in the Kingdom of Naples, c. 1440 - c. 1530, Leiden-Boston. Brill, 2012 (The Medieval Mediterranean. Peoples, Economies and Culture, 400-1500, volume 94), p. 196. Per uno sguardo generale sulle fiere del Regno, cfr. l’ormai classico A. Grohmann, Le fiere del regno di Napoli in età aragonese, Napoli 1969.

Dopo il XIV secolo, l’aumento assume aspetti vertiginosi un po’ dap-pertutto, con in molti casi un incremento del 100%: e, addirittura in al-cune aree, come la Calabria Ultra, il numero di fiere si moltiplica espo-nenzialmente, passando da 4 tra 1200-1399 a ben 36 nel 1550; e anche gli Abruzzi non sono da meno, con un passaggio, se prendiamo il caso dell’Abruzzo Ultra, da 8 a 18. Con una rivoluzionaria trasformazione del tessuto commerciale, con un’incidenza delle presenze che passano da una fiera ogni 717 km2 in media tra XIII e la fine del XIV secolo ad una situa-zione, centocinquant’anni dopo, diametralmente opposta, con una fiera ogni 229 km2. Una capillarità notevole, considerato che tra fiere principali, fiere secondarie, sporadiche o specializzate esisteva un filo rosso che con-sentiva di estendere l’attività svolta da una località singola ad un territorio più vasto, a carattere distrettuale o addirittura su scala regionale. E, come avvertiva Alberto Grohmann, «risulta di scarso rilievo la circostanza che ciascun centro di fiera fosse di per sé poco importante, sia per il volume delle contrattazioni che vi si svolgevano, sia come centro demografico che di produzione o di consumo, in quanto il fatto che le fiere fossero dislocate nel corso dell’anno in epoche concomitanti o vicine tra di loro, faceva sì che la loro funzione economica non si esaurisse ad una singola località ma si estendesse a tutto un territorio, nel quale gli scambi commerciali era-no continuamente animati dall’esistenza di questo reticolato di centri di fiera»2. Insomma, le fiere contribuivano ad unire le economie locali facen-dole uscire dall’isolamento, creando la giusta connessione tra aree escluse dallo sviluppo mercantile con quelle ad inserimento attivo nel mercato regionale ed internazionale, dando vita ad un unico organismo economico a dimensione capillare.

Per capire come si forma questo sistema bisogna però fare un passo indietro e parlare brevemente della crisi che colpì nel Trecento il tessuto socio-economico del Regno, con una depressione evidente nello shock de-mografico che, non legato alla sola pandemia cominciata nel 1347, appare chiaramente dalla seguente tabella

2 Grohmann, op. cit., p. 60.

Tab. 2 - Contrazione dei centri abitati (XIII-XVI secolo)

Area aa.1268-1323 a.1505

Terra di Lavoro-Molise 407 281

Principato Ultra 163 149

Principato Citra 155 134

Terra di Bari 55 59

Terra d’Otranto 220 161

Capitanata 152 69

Calabria settentrionale 253 114

Calabria meridionale 139 131

Abruzzo Ultra 334 120

Abruzzo Citra 302 147

Basilicata 158 97

Tot.  2338 1462

Essa riporta la variazione del numero dei centri abitati tra il 1323 e il 1505, con una diminuzione tra le due epoche di ben 876 centri, con situa-zioni davvero drammatiche come quella proprio delle zone abruzzesi Citra ed Ultra, dove ne vengono a mancare ben 369. Lo shock demografico fu solo uno degli ingredienti della crisi, legato non solo alle conseguenze della Peste nera ma al persistente clima di violenza che, dalla metà del secolo fino al pieno Quattrocento, sconvolse tutto il Regno, non solo generato dal reiterarsi delle lotte dinastiche ma generato da una diffusa tensione sociale che scaturì spesso nel duro fenomeno del brigantaggio. Ma vanno messi in conto altri fattori, come ad esempio l’effetto violento che ebbe sull’economia meridionale la crisi bancaria cominciata nel 1343 che trasci-nò con sé le grandi banche fiorentine dei Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli: episo-dio di lunga durata che comportò la fine del modello angioino-fiorentino che aveva rappresentato l’ossatura su cui si era fondata l’essenza finanziaria del Regno3.

3 A. Feniello, Giovanna I. Crisi di un regno, crisi di una monarchia, in «Schola Salernitana - An-nali», 19 (2014), pp. 11-25.

Accanto agli aspetti di tipo congiunturale, ne va però aggiunto un altro, basilare. Vale a dire che il Mezzogiorno non fu un mondo di città. Esclusa la capitale e il suo sistema metropolitano e qualche altro centro importante come quelli pugliesi, tra cui Barletta, Lecce e Taranto; L’Aquila; Gaeta, Salerno e Capua il resto del contesto era formato da agrocittà, secondo la suggestiva espressione di Henri Bresc, vale a dire su centri fondati sostan-zialmente su una solida struttura rurale, poco permeabile alle relazioni e ai commerci4. Un dato a mio avviso indiscutibile, imputabile a tanti fattori su cui prevale quello politico, a partire dalla nascita del regno normanno-svevo quando il dominio sulle città avrebbe impedito qualunque forma di autonoma espansione.

In questo quadro, di un tessuto economico-sociale in più parti slabbra-to e scomposslabbra-to e di dissolvimenslabbra-to del tessuslabbra-to socio-politico, per ripartire c’era bisogno di una scossa che giunse dalla nuova monarchia aragonese che impresse nuovo vigore, col muoversi in varie direzioni. Da una parte si spinse verso la costruzione di uno stato impiantato su una maggiore unitarietà. Dall’altra si intervenne sull’ambiente economico-commerciale, accelerando sulla crescita di mercati regionali integrati, fortemente col-legati al centro politico-amministrativo, alla capitale, Napoli5. La prima mossa in tal senso ebbe una direzione precisa: garantire maggiore sicurezza ai commerci, riducendo i costi di transazione e abbattendo pedaggi e bal-zelli locali che rendevano farraginosi gli scambi. L’altra, invece, fu di agire da stimolo agli scambi, favorendo l’inserimento del mercato meridionale nel più ampio orizzonte economico internazionale, come tenne a precisare uno dei principali collaboratori di re Ferrante, Diomede Carafa, che nel suo Doveri del Principe osservava6:

Quelli [che] so disposti ala mercantia persuaderli, fagorirencili et, possendo, aiutarle, che lo paese dove so mercanti non solamente stanno bene, ma fanno

4 Su questi aspetti, A. Feniello, La rete commerciale campana nel secondo Quattrocento, in «Archi-vio Storico Italiano», 166 (2008), pp. 297-312.

5 Cfr. M. Del Treppo, Il re e il banchiere. Strumenti e processi di razionalizzazione dello stato ara-gonese di Napoli, in Spazio, società, potere nell’Italia dei Comuni, a cura di G. Rossetti, Liguori, Napoli 1986 (Europa mediterranea, Quaderni 1), pp. 228-304.

6 Cit. in T. Persico, Diomede Carafa: uomo di stato e scrittore del secolo XV, Napoli 1899, p. 290.

Sul suo pensiero economico-sociale, vedi V. Cusumano, Diomede Carafa economista italiano del secolo XV, in «Archivio giuridico»6 (1870), pp. 481-495; e L. Miele, Modelli e ruoli sociali nei

«Memoriali» di Diomede Carafa, Napoli 1989.

stare habundante dicto paese etiam de le cose che non havino […] che tucto dì se vede paese sterilissimo gente industriosa li fanno habundantia et se ha-veranno loro la utilità et se la portarranno alloro paese e case, et devesseria [fare] como fanno le palombelle salvagie, et se le fornite da mangiare perché vengano ad stare in qualche palombara li venerando et se mancerando quello trovaranno.

La proposta fu di creare nidi sicuri nei quali far transitare uomini, cose e merci e poter creare dei favorevoli punti di approdo commerciale dove creare proficui circuiti di domanda/offerta, «in quanto gente industriosa li fanno habundantia et se haveranno loro la utilità». Un’idea che trova la sua risoluzione pratica nei privilegi giurisdizionali concessi (o confermati) da re Ferrante alle diverse componenti straniere, e più attive commercialmen-te, presenti nel Regno.

In questo generale processo di commercializzazione, le fiere rappresen-tano la migliore risposta al bisogno di una più sofisticata infrastruttura mercantile che andava di pari passo con una politica di accrescimento del benessere collettivo. E lo stato partecipa all’opera di formazione di nuovi centri di fiera col garantire, innanzitutto, legittimità, attraverso privilegi e normative di supporto. In secondo luogo, assicurando l’ordine e la tutela degli operatori e dei loro beni. E, infine, risolvendo giudiziariamente le controversie che potevano sorgere tra i differenti operatori, con una be-nefica azione di tutela e di protezione, di fondamentale importanza dopo lunghi periodi di guerre e di caos politico-sociale. Una spinta dall’alto, cui corrispose la domanda da parte delle comunità locali che individuavano nel privilegio di fiera non solo un volano di sviluppo ma anche un elemento di legittimazione, politica e sociale, nei confronti dei propri vicini.

Per descrivere lo spazio della fiera meridionale, lo schema proposto da Grohmann risulta ancora oggi il migliore. Grosso modo si ha questo tipo di ripartizione reticolare, basato su una fiera principale intorno alla quale ruotano diverse fiere secondarie, distinguibili in complementari, specializ-zate e sporadiche. Il tutto collegato da una serie di supporti logistici – assi viari e porti –. Vediamo la realtà, a partire da una delle principali fiere del Mezzogiorno, insieme con Barletta e Salerno, quella di Lanciano. Posta nell’Abruzzo Citra, collegata ai porti di San Vito e di Ortona (anch’esso località di fiera), era coordinata alle tre fiere complementari di Pescara, Francavilla e Chieti ed era connessa ad una miriade di fiere sporadiche, che

penetravano fino all’interno della regione: Guardiagrele, Gesso Palena, Ca-sale di Santa Lucia del monastero di Santa Maria della Vittoria, Morrone, Castel Petroso, Caporciano, Larino, Alfedena, Sant’Elia, Fornelli. Analogo discorso per la fiera dell’Aquila, che situato lungo il tracciato della “Via degli Abruzzi” e al confine settentrionale del Regno, aveva una posizione strategica straordinaria, al centro di quel percorso che univa Firenze a Na-poli, cerniera della direttrice che passava per Rieti, Spoleto, Perugia, Arez-zo, verso nord; e Sulmona, Piana delle Cinquemiglia e Castel di Sangro verso sud. Ma altre fiere caratterizzarono gli Abruzzi. Basti pensare al ruolo complementare che ebbero ad esempio le fiere di Teramo e di Sulmona, dove la fortuna di Teramo derivò dalla sua posizione geografica, ubicata in una zona intercostiera che la poneva al riparo degli assalti dei pirati barba-reschi, ma non distava troppo dal mare, di modo che i costi delle merci che da San Flaviano (Giulianova) venivano inoltrate a Teramo non subivano un aumento nel trasporto. Sulmona aveva invece un’antica tradizione fieri-stica, risalente al periodo svevo, sebbene la concorrenza dell’Aquila fu tale da schiacciare l’evoluzione di un autonomo e rilevante polo commerciale7. Senza contare poi l’esistenza, nella stessa regione, di cinque fiere specia-lizzate per il commercio degli animali, vale a dire Albe, Castel di Sangro, Celano, Pescina e Tagliacozzo, tutte documentate tra gli anni 1450-14708.

In fin dei conti, le fiere abruzzesi, come altre nel Regno, furono il luogo di compensazione tra due mondi economici che viaggiarono a differenti velocità, della produzione locale e del grande mercato internazionale. Cir-ca i beni commerciati, le fiere furono il grande veicolo dello sCir-cambio tipico dell’economia meridionale, con in import manufatti lavorati e semilavo-rati e in export derrate e materie prime. L’esempio di Lanciano è emble-matico9. Nel corso delle due fiere che si tenevano a maggio e ad agosto, si immettevano nel circuito commerciale, tanto a scala regionale quanto internazionale, le produzioni locali. A partire dallo zafferano, adoperato in vario modo dalla tessitura alla profumeria, con un traffico assai vivace verso l’Italia settentrionale, richiesto da mercanti milanesi, fiorentini,

ve-7 Su Sulmona, cfr. ancora H. Hoshino, Sulmona e l’Abruzzo nella mercatura fiorentina del basso medioevo, Roma 1981.

8 Grohmann, op. cit., pp. 79-126.

9 Ibid., pp. 88 ss.

neziani e tedeschi, tra cui, dall’ultimo ventennio del Quattrocento fino al Cinquecento, emerge la compagnia dei Baumgartner di Ravensburg10. Ac-canto alla zafferano, gli altri due prodotti di punta furono la lana e la seta grezza; e poi pellami, tessuti in lana semimanufatti, aghi e tanto bestiame (in dieci fiere segnalate tra il 1447 e il 1470 abbiamo 2.849 contratti di vendita di 77.338 capi, con una media di 285 contratti a fiera e una riven-dita di 7.740 capi cadauna). Con un volume d’importazione notevole, che abbraccia un mercato che investe l’intero Adriatico, fino al medio Oriente e al nord Africa, da cui venivano importati alcuni prodotti che, da Lancia-no, venivano immessi sia in Italia meridionale e Napoli sia trovavano uno sbocco costante verso le Marche e la Toscana. Vediamo i principali luoghi di importazione11:

1. Alessandria d’Egitto: chiodi di garofano, pepe, cannella, incenso ammoniaca, gomma arabica;

2. Damasco e Aleppo: canfora, rabarbaro, muschio, paraffina, cotone, perle minute da pestar e da onze, gomma;

3. Costantinopoli: tessuti di lusso come zambellotti fini negri e paonaz-zi, cera, sale, cordami di Romania, tappeti;

4. Rodi: cere e tappeti;

5. Salonicco: seta, cordami, pellami, lane, pepe e oro;

6. Venezia: stoffe e fustagni, sete di Fiandra, tele tedesche in pezze e rotoli, panni di lana, drappi di lino e di seta, oggetti in ferro, rame, armi, paternoster, mastice, canfora, laudano, muschio.

Andiamo a considerare ora chi furono i protagonisti di questo con-testo commerciale. Non è vero che il rapporto tra i mercanti forestieri e operatori locali fosse tutto a detrimento di quest’ultimi, collocati in una condizione di marginalità che non consentì loro alcuna evoluzione. Que-sta interpretazione va sfumata perché, tra i due contesti, si crearono

for-10 Cfr. P. Pierucci,  Il commercio dello zafferano nei principali mercati abruzzesi (secoli XV-XVI), in  Abruzzo. Economia e territorio in una prospettiva storica,, a cura di M. Costantini e C. Fe-lice, Vasto, 1998, pp. 196-203.

11 Per questi itinerari e le cifre di vendita, cfr. ancora ibid., pp. 116-118.

ti interconnessioni con vantaggi per l’una e l’altra parte. Osserviamo ad esempio cosa accadde ad una delle principali firme internazionali presenti in Abruzzo, la compagnia fiorentina dei Gondi, guidata per l’Aquila da Matteo, che, tra gli anni 1480 e 1484, fu presente sia alla fiera dell’Aqui-la sia a queldell’Aqui-la di Lanciano12. Scopo principale della ditta fu l’acquisto di lana, in particolare di qualità matricina, una buona alternativa alla lana spagnola e a quella inglese; e seta grezza, proveniente, quest’ultima, dalle vicine località di Civita di Penne, Caramanico e Sulmona oppure dalla Ca-labria, dall’Albania (Valona) o dal Levante, da inviare nei centri di produ-zione toscani. In cambio vendette prodotti di alta qualità come panni fini e di garbo di diversi colori, velluti, drappi, taffettà, rasi e anche oro filato.

Tuttavia, tra i prodotti furono vendute anche piastre di rame, provenienti da Venezia, che alimentavano un vivace artigianato locale che produceva suppellettili per cucina, aghi, lumi e torce, candelabri, campanelle. Ma i Gondi, com’era tradizione nel panorama delle ditte toscane, non si inte-ressavano solo al commercio e furono attivi nel credito, vero e proprio anello di collegamento non solo con le altre piazze del Regno ma con altre firme prestigiose a carattere internazionale, come quella di Luca Capponi

& Compagni di Firenze, del banchiere Filippo Strozzi, con sede a Napoli, degli altri Gondi di Napoli, e con i Falconieri, i Lanfranchi e i Corsini di Lione. Senza contare che la ditta Gondi continuava ad avere un piede ben piazzato a Firenze, il motore dell’economia europea, con una dop-pia specializzazione, nella quale la sede toscana forniva i prodotti finiti in Abruzzo, mentre quella abruzzese metteva a disposizione le materie prime.

Se questo è lo schema delle attività seguito dalla compagnia Gondi a Lanciano, fondata in prevalenza sul cosiddetto “scambio ineguale”, ossia sullo scambio tra prodotti finiti e di pregio per materie prime, essa intera-gisce con un mondo densissimo di mercanti, che a loro volta, operano su un tessuto produttivo che si muove proprio su sollecitazione del mercato internazionale. Il loro ruolo di mediazione diventa fondamentale per per-mettere l’afflusso dei richiestissimi prodotti locali (nel caso specifico seta e lana grezze) alla fiera, grazie all’attività di gente come Biondo d’Andrea di Biondo, Lodanesta di Tommaso e Antonello Noferi di Civita di Penne;

12 Cfr. B. Casale, Alcune notizie sulle fiera di Lanciano nella seconda metà del XV secolo, in Il commercio a Napoli e nell’Italia meridionale nel XV secolo: fonti e problemi, a cura di A. Leone, Napoli 2003, pp. 127-140.

Alfonso di Cola di Fratagnolo, Paolino d’Antonuccio di Balduccio, Barto-lomeo di Ghirigoro, Ottaviano di notar Bucco e Pietro Antonio di Pietro d’Andrea di Sulmona; Cola di Pietro e Pietro di Giovanni di Tocco; o come il “maestro” Francesco di Zanobi che, pur essendo di origine fioren-tina, viene considerato a tutti gli effetti uno dei più importanti mercanti sulmonesi. Operatori di medio livello cui si affianca una massa di piccoli imprenditori, incettatori, distributori provenienti da Penne, Caramanico, Chieti, Montebello, Cappelle, Spoleto, Piedimonte, San Germano, Sessa, Ariano, così da formare più livelli di una rete che ha il suo vertice nel ma-nagement della ditta Gondi e i suoi tentacoli nei mille rivoli delle attività di mediazione e di incetta della merce nelle singole località.

Ancora più chiara è la situazione se il nostro sguardo si sposta da Lan-ciano a L’Aquila. Qui sempre i Gondi entrano in contatto con un ceto mercantile che proprio in questo periodo sta vivendo una rapida fioritura ed esprime forti potenzialità, con figure di primo piano tra cui Pasquale di Santuccio, i tre figli di notar Nanni (Cola, Iacopo e Nanni Antonio), Antonio e Iacopo di Carlo e Ghirigoro di notar Marino13. Rappresentanti di una borghesia che si arricchisce, e tanto, sulla cosiddetta economia della transumanza, grandi proprietari di bestiame e gestori di enormi pascoli dediti agli allevamenti di grosse quantità di ovini ma pure operatori intel-ligenti che seppero dialogare in maniera proficua con le compagnie mer-cantili di calibro internazionale e affermarsi in un circuito degli scambi che andava dalla grande fiera internazionale di Lione alla Sicilia. Ad esempio, nel 1483, quando la macchina commerciale impiantata dai Gondi in col-laborazione con gli operatori locali appariva ormai oliata, il meccanismo di raccolta della lana abruzzese ebbe questi numeri: attraverso 41 operazioni furono acquistate ben 67.639 libbre e mezza di lana di vario genere (lane Carfagna, Maiolina, Matricina, Agostina, d’Aini) per una spesa di quasi 4.848 ducati. La loro destinazione fu principalmente Firenze, ma poco più di mille di esse vennero inviate a Napoli, vendute alla compagnia Viviani.

13 Cfr. P. Pierucci, Matteo di Simone Gondi: un mercante toscano a L’Aquila nel tardomedioevo, in

«Proposte e Ricerche», 39, (1997), pp. 25-44; B. Casale, Il commercio della lana a l’Aquila nella seconda metà del Quattrocento, in Il commercio a Napoli cit., pp. 141-155; N. Ridolfi, Matteo di Simone Gondi e Pasquale di Santuccio: due imprenditori a confronto nell’Abruzzo del XV secolo, in Imprenditorialità e sviluppo economico Il caso italiano (secc. XIII-XX), a cura di F. Amatori e A. Colli, Milano 2009, pp. 549-565.

I quantitativi maggiori provengono dai fornitori Iacopo di notar Nanni e da suo fratello Nanni Antonio, da Pasquale di Santuccio, da Santo della Capruccia, da Gaspare di Iancane ecc. Ma non mancarono mercanti pro-venienti da Tagliacozzo, da Rivisondoli o da Magliano.

Val la pena di soffermarsi in particolare su uno solo degli operatori aquilani. Si tratta di Pasquale di Santuccio. Originario di Pizzoli, proviene da una famiglia di proprietari terrieri, sebbene appartenga alla borghesia mercantile aquilana e faccia parte dall’Arte della Lana cittadina. La sua attività imprenditoriale comincia alla fine degli anni ’50, prima in società con il suo concittadino Salvato di Giovanni ma nel 1466 compie un salto di qualità e Pasquale costituisce in proprio una sua società in collabora-zione col fratello Santo. Il suo campo d’acollabora-zione divenne subito ampio, con interessi tanto nei maggiori mercati italiani (Venezia, Napoli, Firenze, Mi-lano) quanto a Lione, a Ginevra e a Bruges. Pratico, dinamico, dotato di grosse capacità imprenditoriali, Pasquale di Santuccio trovò spazio anche nel mondo degli appalti statali e fu coinvolto nelle attività della nascente Arte della Lana napoletana. Ma il settore chiave della sua fortuna fu

Val la pena di soffermarsi in particolare su uno solo degli operatori aquilani. Si tratta di Pasquale di Santuccio. Originario di Pizzoli, proviene da una famiglia di proprietari terrieri, sebbene appartenga alla borghesia mercantile aquilana e faccia parte dall’Arte della Lana cittadina. La sua attività imprenditoriale comincia alla fine degli anni ’50, prima in società con il suo concittadino Salvato di Giovanni ma nel 1466 compie un salto di qualità e Pasquale costituisce in proprio una sua società in collabora-zione col fratello Santo. Il suo campo d’acollabora-zione divenne subito ampio, con interessi tanto nei maggiori mercati italiani (Venezia, Napoli, Firenze, Mi-lano) quanto a Lione, a Ginevra e a Bruges. Pratico, dinamico, dotato di grosse capacità imprenditoriali, Pasquale di Santuccio trovò spazio anche nel mondo degli appalti statali e fu coinvolto nelle attività della nascente Arte della Lana napoletana. Ma il settore chiave della sua fortuna fu