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FIGURA 4 PIERO MANZONI, SOCLE DU MONDE,

D I COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI ARTE

FIGURA 4 PIERO MANZONI, SOCLE DU MONDE,

La grande rivoluzione del Novecento sta proprio in questo: nell’avvicinare vertiginosamente arte e realtà.

È quanto si diceva in precedenza circa il bivio dinnanzi al quale l’arte si trova a un certo punto del suo decorso: per sfuggire all’interpretazione può scegliere l’astrattismo o l’avvicinamento estremo al reale. Nascono così le avanguardie.

Le componenti spirituali cambiano in quanto cambia ciò che l’arte è disposta a rappresentare, ovvero una forma di vita.

Massimo esempio di questo è quanto avviene con surrealismo prima ed espressionismo astratto poi. Nel primo manifesto surrealista (1924), André Breton definisce il movimento come “dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.”.

Breton, spinto dalle nuove scoperte in fatto di psicanalisi, apre così a un mondo meraviglioso, che è quello dell’inconscio, la cui porta era tenuta serrata dai lumi della ragione. In fondo, l’inconscio surrealista è epistemologico, ossia reale; una realtà che non veniva presa in considerazione.

L’astrazione non è che il passo successivo: la rappresentazione dei sentimenti, come l’ha chiamata Clement Greenberg. Anche l’astrattismo lavora per immagini, immagini che diremmo interiori. Niente che non abbia a che vedere con ciò che è reale, quindi con la natura e, in un certo senso, con la mimesi. Quando Hans Hoffman disse a Pollock che l’astrazione viene dalla natura, lui rispose “Io sono natura” (Danto, Che cos'è l'arte 2014, 25).

L’evoluzione delle componenti materiali, invece, ha a che fare con i supporti, le tecnologie, la vera e propria materia che l’arte si permette di utilizzare.

Robert Rauschenberg scrisse nel catalogo della mostra Sixteen

e tela” (Danto, Che cos'è l'arte 2014, 29). Gli artisti, da Duchamp in poi, iniziano a portare letteralmente la realtà all’interno dell’arte, attraverso l’utilizzo di oggetti del vivere quotidiano e non solo.

4’33’’ di John Cage sancisce l’ingresso definitivo della realtà nell’arte.

Cage si chiese perché la musica dovesse limitarsi alle note convenzionali. Il 29 agosto del 1952, a Woodstock, il pianista David Tudor, davanti a un pubblico numeroso, si sedette al pianoforte e coprì la tastiera con un panno. Dopodiché fece partire un cronometro. Passati quattro minuti e trentatré secondi, Tudor si alzò e, inchinandosi, dichiarò la fine della performance. Lo scopo della performance era insegnare al pubblico ad ascoltare il silenzio, o meglio, ad ascoltare i suoni riprodotti dalla natura. John Cage è lo strumento ideale per comprendere il meccanismo che sta alla base dell’idea di arte come ricontestualizzazione. Per farlo ci avvaliamo delle parole dello stesso Cage, il quale, dopo aver visitato una mostra alla Willard Gallery e aver visto un quadro – “una superficie interamente dipinta” (Goldoni 2013, 102) – dell’amico pittore Marc Tobey, disse di aver provato la stessa identica emozione di quando – “un piacere estetico altrettanto alto” (Goldoni 2013, 102) – osservando la superficie del marciapiede, una volta uscito dalla galleria. Cage commenta così l’esperienza: “proprio questa è stata, a mio parere, una delle funzioni svolte dall’arte del XX secolo: aprirci gli occhi. […] Semplicemente vedere ciò che c’era da vedere.” (Goldoni 2013, 103). Così per Cage sarebbe questo il compito dell’arte: riaccendere in noi un certo interesse per la vita. Questo ponendo l’attenzione su quei particolari che della vita già fanno parte, ma di cui spesso non ci accorgiamo. È lo stesso principio che sta dietro a 4’33’’: creare un’analogia tra arte e vita.

Nel Novecento l’arte dichiara apertamente quale sia il suo compito in quel determinato momento storico: non creare, ma porre l’accento su quella realtà che altrimenti resta sfuggente. L’artista innanzi tutto è un ricettore: nell’artista la società imprime se stessa, l’artista è “impresso” dall’arte, di cui non è più in grado di definire le forme ma

contemporanea 2013, 16). L’artista aspira a un livello di passività sempre più elevato, a beneficio di un’immagine che rimane incontaminata e che diventa arte solo nel momento in cui viene estrapolata dalla società.

È ciò che avviene soprattutto, e senza possibilità di equivoco, negli anni Sessanta con la Pop Art. Pop Art è il termine inventato dal critico Lawrence Alloway per descrivere quella tendenza culturale che legava un gruppo di pittori londinesi dediti a riprodurre immagini di massa (Grenier 2013, 25). La tendenza, poi, attraversò l’oceano, dove assunse dimensioni ancora maggiori grazie al suo padre spirituale, Andy Warhol. Le Brillo Boxes (1964) segnano uno scarto definitivo, si disfano per sempre di qualità che fino a poco prima sembravano indispensabili affinché un’opera potesse essere considerata arte. Si tratta, in effetti, di una riproduzione fedelissima delle scatole di pastiglie detersive Brillo, tanto che, se mischiate a quelle vere sullo scaffale di un supermarket degli anni Sessanta, sarebbe stato impossibile distinguerle.

Ma il punto è: le Brillo Boxes sarebbero ancora arte se poste sullo scaffale di un supermarket?

L’avvento della Pop Art fu tanto irriverente da alimentare la discussione sulla presunta “fine dell’arte”, già preannunciata nel testo sacro L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin (1936). Benjamin si chiede se il progresso tecnologico, e in particolare l’avvento di cinema e fotografia, non potesse aver fatto perdere quell’elemento di hic et nunc all’opera d’arte e, di conseguenza, la sua aura (Benjamin 2014, 6-8).

Chiaro è che Benjamin non aveva ancora visto l’avvento della Pop Art, che proprio della riproducibilità tecnica fa l’oggetto della propria ricerca. La Pop Art, infatti, riproduce la riproducibilità, l’elemento cardine della nuova società di massa. Le serigrafie di Warhol non riproducono tanto Marilyn, Mao o Elvis, quanto la riproduzione di Marilyn, Mao o Elvis. Ricontestualizzano la pubblicità, lo star-system, il divismo. In quest’ottica si potrebbe affermare che la Pop Art sia certamente un movimento critico nei confronti della società.

Ricontestualizzare significa mettere qualcuno nella condizione di accorgersi di qualcosa, provocare domande, mentre il consenso si basa sulle certezze. Benché le avanguardie del Novecento, allontanandosi dall’immagine dell’arte com’era intesa fino ad allora, avessero l’intenzione di rompere definitivamente con l’estetica, creando un’arte più “fredda”, quello che in realtà stavano facendo, era sbarazzarsi di tutti gli alibi di cui l’arte aveva avuto bisogno sino ad allora, abbattendo l’illusione tra arte e realtà, tra copia e verità. La ricontestualizzazione è la sublimazione della critica: una critica a cui non serve linguaggio, ma che semplicemente trasporta la realtà dal quotidiano allo straordinario, dandole la possibilità di assumere sensi del tutto nuovi. Questa critica è l’arte stessa.