Con l’evoluzione della civiltà, il progresso dei saperi e l’affinamento delle tecniche, il potere magico, simbolico e trascendente originariamente attribuito alla foresta viene proiettato nella sua versione addomesticata e artefatta, il giardino, divenendo – mutatis
mutandis – il potere di ispirare il sapere, la conoscenza e l’immaginazione dell’uomo.
In tal senso, il giardino è assurto a locus prediletto per l’acquisizione, l’esercizio e la trasmissione del sapere – non solo filosofico, come nel caso di Epicuro e Platone – ma anche storico, artistico, morale, poetico, letterario e teatrale. Dal momento in cui descrive e individua una costruzione intellettuale quanto materiale, il giardino è innanzitutto un pensiero, che ha il compito di dar forma alla vita stessa; rappresenta la proiezione di un desiderio di ordine e armonia, ma ancora di bellezza e autenticità: è nel giardino, a ben vedere, che «accade il futuro»116. Il giardino è la realizzazione di un’idea, ma anche uno strumento per dare forma all’esistente: è pensiero di
un’organizzazione, ma anche e soprattutto «organizzazione di un pensiero»117.
Come scrive Michael Jakob, infatti, nel giardino «non siamo più in uno spazio scopico, organizzato dalla vista, ma in uno spazio meta- o trans-scopico, segnato dalla riflessione»118, uno spazio che emerge da esigenze estetiche, e dunque spirituali, dell’uomo: «dai kepoi di Atene ai parchi inglesi espressioni delle libertà politiche; dai
paradeisoi persiani ai giardini geometrici di stile francese, specchi della tirannide […]
ogni impianto è terreno di “lettura del mondo”, caratterizzato dalla simultanea contemporaneità di presente e di passato che accoglie la memoria dell’antico»119. La geometria e la misura esatta infondono serenità e sicurezza, e dalla perfezione geometrica, dalla giusta proporzione – criterio basilare nell’edificazione degli antichi templi greci –, può derivare la perfezione morale. Nell’antica Grecia, infatti, era
116 S. Beruete, op. cit., p. 141. 117 J. Clement, op. cit., p. 16.
118 M. Jakob, Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, Einaudi, Torino 2014, p. 192
119 M. Venturi Ferriolo, Giardino, paesaggio e memoria, in Il giardino e la memoria del mondo, cit., p. 9.
opinione diffusa l’idea che «la natura idealizzata, sottoposta ad un […] processo di trasfigurazione e, al tempo stesso, di moralizzazione, conservasse in sé la capacità di indurre le persone alla meditazione, e in effetti, il giardino è stato tradizionalmente considerato luogo consono alla riflessione, alla poesia e alla filosofia»120. Gli epicurei, primi filosofi del giardino, vi ricercavano l’atarassia, persuasi che armonia ed equilibrio interiore costituissero per l’uomo il bene più prezioso. Durante l’ellenismo, dopo le conquiste di Alessandro Magno in Persia e in Medio Oriente e gli scambi culturali che ne scaturirono, l’aristocrazia greco-romana mutuerà il giardino di piacere persiano e orientale, il quale, «creato da pensatori e sognatori, ricapitola e condensa – come un epigramma – l’anelito dell’anima umana alla solitudine e al raccoglimento»121. Con la caduta e la disintegrazione dell’Impero Romano, il giardino ripara tra le mura dei monasteri e sopravvive rinunciando per lungo tempo alla sua dimensione pubblica. Esso risorge con la renovatio carolingia, verso la fine del VII secolo, quando vengono edificati giardini pubblici e passeggiate destinati allo svago dei sudditi. A partire dal IX secolo diverrà oggetto di componimenti e trattati, come dimostrano il breve ma rilevante poema del teologo Valafrido Strabone (808-849 d.C.), il Liber de cultura hortorum (o Hortulos) e i successivi Liber divinorum operum, di Ildegarda di Bingen, e De vegetabilibus et plantis, di Alberto Magno.
Il giardino medievale, lato sensu, si può definire come la «proiezione artificiale di una realtà simbolica e ideale. La sua struttura e la scelta delle essenze destinate a popolarlo venivano in parte dettate da reminiscenze classiche (Varrone, Plinio, Virgilio, Columella, Isidoro di Siviglia), e in parte provenivano dai modelli sempre meno estranei offerti all’Occidente dai contatti col mondo islamico»122, soprattutto per quanto riguarda quello mistico e officinale. I giardini monastici, quali spazi non
edificati, erano «differenziati secondo tre tipologie, sulla base di uno schema ormai
tradizionale: l’hortus, il pomarius-cimitero e l’herbolarius»123, cui ovviamente andava ad aggiungersi il chiostro – destinato ad assumere significati del tutto peculiari dal
120 J. Clement, op. cit., p. 16. 121 R. Borchardt, op. cit., p. 37.
122 F. Salvestrini, Il giardino monastico, in “Prati, verzieri e pomieri”. Il giardino medievale. Culture,
ideali, società, a cura di P. Caraffi e P. Pirillo, Firenze, EDIFIR - Edizioni Firenze, 2017, p. 103.
punto di vista teologico e speculativo. L’antico hortus romano, contaminato dal mito edenico e dal concetto di hortus deliciarum, nel medioevo assume infatti i tratti del «chiostro di meditazione metafisica»124. Gli eremiti medievali, in tal senso, «fuggivano gli horti della tradizione ellenistica. In quanto monachoi essi cercavano il
desertum, ossia il luogo della natura da cui mancavano gli uomini»125. Ciò che agognavano, era un «luogo aperto e dai confini incerti, una terra di penitenza, di teofanie e di lotte, un rifugio dalle tentazioni dei negotia mondani e un campo di battaglia fra il bene e il male»126. Del resto, gli anacoreti erano persuasi – ma si trattava di un’opinione ampiamente diffusa – che i semi di ogni pianta esistente provenissero dal giardino dell’Eden, e nel piantare i loro giardini nel mezzo del deserto diedero vita ad una vera e propria “opera civilizzatrice”, caratterizzata dalla «ridefinizione e dalla riappropriazione dell’ecosistema»127. Appare esemplare, in tal senso, il caso dell’irlandese Fiacre, vissuto nel VII secolo:
monaco-asceta che fondò un romitorio a Breuil, su un pezzo di terra affidatogli dal vescovo Farone di Meaux. Assurto agli onori degli altari come il presule suo protettore, egli divenne in seguito patrono degli ortolani, configurandosi quale erede di una tradizione spirituale che, nella mimesi di Cristo custode del giardino, dopo la Sua resurrezione nel recinto di Giuseppe di Arimatea, risaliva agli orientali Epifanio, Copres ed Eleno, modelli insuperati del religioso lavoratore128.
In un certo senso, allora, lo stesso ambiente naturale assurgeva a «scrigno dei monaci, ed essi, nel curarlo, se ne appropriavano. Grazie alla loro azione esso venne in parte circoscritto e ridefinito sul modello della domus o del quadriporticum romani, chiudendosi nello spazio del giardino cinto da mura»129, istituendo una vera e propria «dicotomia tra giardino interiore ed esteriore, tra hortus claustrale e regno della
124 B. Basile, op. cit., p. 23. 125 F. Salvestrini, op. cit., p. 99. 126 Ivi, p. 100.
127 Ibidem.
128 Ivi, pp. 101-102. 129 Ivi, p. 103.
natura»130. In altre parole, conformemente a quanto affermava Alberto Magno, il giardino monastico consisteva in «una porzione di natura governata dai monaci»131. Esso era chiamato ad assolvere a funzioni pratiche e allegoriche e rappresentava un’«organica compenetrazione tra botanica, allegoria e farmacopea»132, che divenivano oggetto di un vero e proprio studio sperimentale. Infatti, «sebbene tutti i confratelli fossero invitati ad occuparsi del verde, i principali monasteri si dotarono, già in età carolingia, di un hortulanus, ossia di un monaco specializzato nella cura dei giardini»133. Il chiostro, attraverso la propria regolarità, poteva così rappresentare
la creazione ricondotta all’ordine voluto da Dio. […] La pianta quadrata era un preciso riferimento cristologico, sottolineato dall’albero. […] Questo era l’arbor vitae che evocava l’immagine della croce; trattandosi magari del ginepro mediterraneo, le cui fronde rossastre richiamavano il sangue di Cristo e venivano usate per aspergere l’acqua benedetta. Nella prospettiva di Rabano Mauro esso era l’albero del bene e del male, e come tale simboleggiava il libero arbitrio degli uomini. Spesso era sostituito o accompagnato da una fontana, oppure da un pozzo, essenziali all’irrigazione del giardino, verso cui confluivano quattro piccoli viali accompagnati da altrettante canalette disposte a croce, a indicare i fiumi del paradiso e il potere salvifico del battesimo134.
Le mura del giardino, in questa prospettiva, simboleggiano l’antinomia tra sacro e profano; il confine tra la Gerusalemme Celeste e quella terrena, tra la dimensione spirituale e quella temporale; la dialettica tra micro- e macrocosmo: «il giardino è lo specchio attraverso il quale l’uomo medievale contempla Dio»135. La contemplazione che è possibile esperire all’interno del giardino si può senza dubbio assimilare ad un’esperienza religiosa, poiché esso costituisce per i monaci l’immagine riflessa del paradiso terrestre, in fondo è nel giardino che Dio si mostra ad Eva ed Adamo. «Nel
130 Ivi, p. 117. 131 Cit. in Ibidem. 132 Ivi, p. 105. 133 Ivi, p. 102. 134 Ivi, p. 109.
commento al cantico dei cantici Bernardo [Abate di Clairvaux] descriveva il giardino come il luogo dell’incontro fra il creatore e la creatura. La sua lettura associava l’hortus conclusus al paradiso terrestre, primigenio asilo dell’ancora incolpevole Adamo, che si rifletteva simbolicamente nella dimora monastica coltivata a lode e gloria del Signore»136. L’immagine retorica del giardino cistercense, tuttavia, era identificata «col paradiso interiore, nonché, nel contempo, con quello terrestre, e quindi sia col monastero che con le sue pertinenze»137. Per gran parte del Medioevo, fuori dalle chiese era spesso posto un paradiso, uno spazio chiuso destinato alla meditazione e alla preghiera. Da un punto di vista ascetico, «il giardino gotico sostituì ai riti di fecondità quelli di rigenerazione spirituale, offrendo un’ipotesi simbolica di lettura come rito purificatorio, che vive ancora tra Cinque e Seicento, nei trattati d’emblematica, fin troppo solerti, in età di spiritualismo riformato, ad offrire roseti penitenziali e concettosissimi manuali (quasi un teatro della memoria floreale) dove il giardino è terra coelestis ove s’intessono trame elative verso la divinità»138. L’insieme degli elementi geometricamente ordinati del giardino, infatti, non solo simboleggiava la natura addomesticata, ma restituiva nondimeno la specularità tra la Gerusalemme Celeste e l’organizzazione geometrica e razionale dello spazio claustrale. «Qui gli sfondi naturalistici, caratterizzati da montagne, colline, cieli, fiumi e laghi, arricchiscono l’immagine verdeggiante del claustrum, configurandosi quali autentici giardini dipinti. Lo si vede, ad esempio, nel bellissimo ciclo pittorico realizzato dal Signorelli e dal Sodoma per il chiostro di Monteoliveto Maggiore presso Siena a partire dagli anni Novanta del Quattrocento»139.
L’antica idea del bosco sacro, lontana ascendenza pagana, «veniva poi evocata tramite alcuni pergolati, disposti talvolta a coprire i vialetti convergenti verso l’interno, simbolo essi stessi del cammino del monaco destinato a raggiungere il centro del giardino, ossia il Cristo risorto fonte di vita»140. Il bosco, che aveva progressivamente perduto «la sua natura di luogo incolto e selvaggio, diventa espressione del creato che
136 F. Salvestrini, op. cit., p. 113. 137 Ivi, pp. 113-114.
138 B. Basile, op. cit., p. 25. 139 F. Salvestrini, op. cit., p. 112. 140 Ivi, p. 110.
parla all’anima dell’uomo di Dio; mentre il desertum assume l’aspetto di una campagna ordinata gestita in prima persona dai monaci e dai conversi»141. Come ricorda Giusti, nella contrapposizione con l’«universo sacro e romanzesco della foresta medievale, animato da demoni, folletti, eremiti, cacciatori» – che verrà trattato approfonditamente nella seconda parte del volume – l’isola-giardino-oasi diviene «luogo di purificazione, regno di eterna primavera»142.
Anche la comparsa di una vera e propria teologia imperiale, che assurgeva il giardino a suo elemento essenziale – tanto comune in Oriente, quanto inaudita in Occidente –, avrebbe una matrice medievale: «è un fatto che Federico II si servisse dei suoi solatia, come dei suoi serragli di animali esotici (un’altra componente di rilievo dei giardini) e dei suoi parchi per impressionare gli ospiti, ostaggi e prigionieri illustri e per riproporre con forza la sua immagine di Nuovo Adamo e di Nuovo Cristo – al centro, quindi, di un ‘nuovo Eden’ –, ch’era fondamento della sua teologia imperiale»143. I giardini realizzati fra Due e Trecento mantennero sostanzialmente immutate queste caratteristiche e «continuarono ad esser concepiti anzitutto come segni, metafore e corredo del potere (ecclesiastico, regale o feudosignoriale che esso fosse)»144, incluso quello sulla natura.
Del resto, sotto certi aspetti, in questa fase storica si possono anche rintracciare le origini di un certo atteggiamento meramente strumentale e antropocentrico nei confronti della natura. Come ricorda Silvestrini, si deve infatti alla sopracitata Ildegarda di Bingen (1098-1179) la prima formulazione dell’idea per cui «la ricerca delle essenze vegetali, così come delle proprietà connesse a rocce, minerali, animali ed acque, aveva senso solo nella misura in cui queste davano luogo ad un impiego pratico nell’alimentazione e nella cura degli uomini»145. Un simile assunto, all’evidenza, non implicava solo l’illegittimità di ogni ricerca disinteressata – o peggio,
141 Ibidem.
142 M. A. Giusti, op. cit., p. 21.
143 F. Cardini, Il giardino del cavaliere, il giardino del mercante. La cultura del giardino nella Toscana
tre-quattrocentesca, in Mélanges de l'École française de Rome. Moyen-Age, tome 106, n.1, Roma,
1994, p. 264. 144 Ivi, p. 265.
fine a se stessa –, ma relegava già lo studio della natura entro i confini del servire-per – il quale, direbbe Heidegger, appartiene allo Zuhandensein, che è il modo di essere degli strumenti146 –, inaugurando una tanto fortunata quanto sciagurata tradizione di pensiero.
Con l’Umanesimo, ma soprattutto con il Rinascimento, invece, questo paradigma muta profondamente: il desiderio di conoscenza non è mai fine a sé stesso, né certamente costituisce una sfida alla verità divina, ma rappresenta, al contrario, la sua chiave di accesso; la conoscenza delle cose contribuisce alla conoscenza di sé, e dunque di Dio. Anche il giardino – il quale, come si è visto, era quasi del tutto scomparso dalla vita cittadina – verrà in qualche modo ‘reimportato’ da Oriente e dal mondo arabo, insieme a gran parte dei testi classici e della filosofia greca, e finirà per assumere un ruolo essenziale nella cultura Rinascimentale, suscitando un rinnovato interesse teoretico nei confronti suoi e del suo antesignano ideale e ultramondano: il
Giardino di Eden. Nel XVI secolo, Bartolomeo Bonfadio e Taegio proponevano una
definizione del giardino quale terza natura – cinque secoli più tardi, Gilles Clément conierà il concetto di terzo paesaggio –, che si contrapponeva alla prima, la natura selvaggia, e alla seconda, costituita dalla campagna, dal paesaggio. Come ricorda Basile, Taegio – per bocca di Vitauro, protagonista del suo La villa (1559) – fu uno dei primi ad affermare l’idea che nell’uomo sia connaturata un’«insopprimibile vocazione»147 per il Paradiso perduto: «gli uomini, nella visione di Vitauro, sarebbero esuli dall’Eden, ma con nostalgie insopprimibili per i miti di ‘concordia et tranquillità’ conculcati dalla miseria mondana, gli uomini sono costretti a ricostruire, hic et nunc, nel tempo storico, forme transeunti d’ordine abitativo che li preservi dall’ orrore del caos»148. Per Taegio, che definiva il giardino quale «luogo dell’intelligenza, geometria evocativa dell’Eden e del Paradiso»149, una di tali forme, e certo la più importante, è rappresentata dalla struttura urbana, quale «nucleo di mutua assistenza, cellula di razionalità su cui si estende, però, […] l’ombra della maledizione del Genesi»150. Si
146 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927); tr. it. di A. Biondi, Bompiani, Milano 2006. 147 B. Basile, op. cit., p. 74.
148 Ibidem. 149 Ivi, p. 75. 150 Ibidem.
può dunque individuare una certa continuità della mitologia paradisiaca dal giardino sacro a quello laico. Come scrive Lorna McNeur, infatti, «il giardino rinascimentale incarna, tra le molte cose, l’idea medievale del giardino quale spazio sacro […]. Sia la città romana, sia quella medievale, erano anch’esse ritualmente recintate come spazi sacri, protette dalla natura selvaggia circostante»151.
Per tutto il Rinascimento, il giardino verrà perciò concepito certamente «come segno-insegna di potere ma al tempo stesso come luogo privilegiato di meditazione,
hortus conclusus, spirituale, magari anticipazione del Paradiso proprio in quanto
sereno e austero memento mori»152 e finirà per occupare una posizione frontale, quale spazio di transizione, elemento mediatore tra edifici e paesaggio. «Non solo il giardino era un microcosmo della città, ma entrambi erano microcosmi dell’ordine cosmologico del mondo»153. Indubbiamente, «monaci e poeti, filosofi e amanti giungono al giardino per la medesima missione: la ricerca del Paradiso»154, ma la separazione che le epoche precedenti avevano istituito tra il cosmo paradigmatico del giardino e il mondo lapso e decaduto che prendeva vita al di là delle sue mura, secondo Terry Comito, suggerirebbe, «più che una scrupolosità nel marcare i recinti del sacro, una certa fondamentale diffidenza nei confronti dello spazio stesso»155. Con il Rinascimento, invece, cadute o rimodulate le mura, tutta la natura apparve finalmente come un grande giardino; si fece strada, al contempo, l’esigenza e la pretesa di una “vista regale”, che produrrà la conversione delle simmetrie del giardino medievale, che ora protendeva fuori dalle sue mura e si sviluppava in terrazze rivolte verso il paesaggio. L’uomo era certamente ancora concepito al centro dell’universo, ma nella consapevolezza che la sua dignità coincidesse con quella della natura (poiché entrambi partecipano della natura di Dio). Analogamente, nell’arte e nell’architettura – ma anche nel pensiero e
151 L. McNeur, Renaissance Garden Style, in Chicago Botanic Gardens, Encyclopaedia of
Gardens. History of Design, vol. II, Candice A. Shoemaker, Detroit-London 2001, p. 1111 (trad.
mia).
152 F. Cardini, Il giardino del cavaliere…, cit., p. 266. 153 L. McNeur, op. cit., p. 1111.
154 T. Comito, The Idea of the Garden in the Renaissance, New Brunswick (N.J.), Rutgers University Press, 1978, p. 153 (trad. mia).
in ogni ambito della vita umana – si perseguivano l’armonia e l’integrazione con la natura, l’ambiente, il paesaggio.
I giardini rinascimentali, quali materializzazioni di un sogno di ordine trascendentale e di bellezza ideale, trasfigurano il reale. In questo senso, il Rinascimento si configura anche come una vera e propria redenzione dello spazio: «dal momento in cui l’unico limite è l’orizzonte, si è costretti ad ammettere, con Cusano e Bruno, che qualsivoglia ‘centro’ è meramente soggettivo»156. Dal momento in cui il cosmo diviene infinito, la natura assume caratteri razionali, intelligibili dalla ragione ed esprimibili in caratteri matematici. Si tratta di una nuova concezione della natura, del paesaggio e del giardino che divengono luogo privilegiato della filosofia, della poesia, e delle arti figurative. Le mura delle città vengono abbattute per essere allargate e ciò produce una generale apertura prospettica, che si declina anche come una forma di apertura mentale e filosofica, dettata dall’incontro sempre più frequente con la cultura araba e bizantina, e con la riscoperta dei grandi classici greci che le distruzioni barbariche avevano trascinato nell’oblio. Anche la prospettiva, come insegna la teoria della conoscenza espressa nel Cusano del De visione dei (1453), può assumere un valore conoscitivo, poiché giustifica l’esistenza di una pluralità delle visioni (dell’unica verità).
Entro questa cornice storico-culturale, emersero la volontà e la necessità di unificare tutti i saperi in unico luogo, affinché questi potessero essere colti con un
unico sguardo – in sintonia con l’idea leonardesca che la figurazione fosse superiore
alla ragione discorsiva, propria delle scienze, poiché sincronica e non diacronica – la volontà, cioè, di ricreare, come scrive Walter Lack nel suo omonimo libro, «il mondo in un giardino» (die Welt in einem Garten)157. Anche in questo caso, il luogo eletto a questo scopo fu identificato nel giardino, ora indagato e pensato secondo una prospettiva non solo teologica, ma filosofica, estetica e scientifica. La particolare forma di dominio dello spazio e della natura che si può esperire nel giardino, produce infatti una sensazione di equilibrio e serenità – così come la prospettiva che apre, oltre
156 Ivi, p. 159.
157 H. Walter Lack, Die welt in einem Garten, in “Englera”, No. 30, Internationales Simposium Botanische Gärten im Spannungsfeld von Wissenschaft un Gartendenkmalpflege Berlin 24. –26. April 2009 Vorträge, April 2013, p. 21.
le mura del giardino, alla contemplazione del paesaggio. In fondo, ricorda Ribouillault, «il topos letterario che lega il giardino all’amicizia, alla quiete della conoscenza e al dialogo filosofico era rimasto vivace durante il Medio Evo»158. Con il Rinascimento, quando matematica e geometria diverranno un modello non solo per la filosofia ma anche per l’arte dei giardini, «il giardino diventò architettonico»159: la percezione dell’ordine e dell’armonia matematici del giardino, ovvero la sua bellezza contemplativa, ne fanno un luogo di fruizione intellettuale, un «teatro della sapienza»160.
Il giardino viene interpretato talvolta come spazio simbolico della connessione tra micro e macrocosmo, tra umano e divino, talvolta come enciclopedia del sapere e persino come laboratorio sperimentale: accanto ai giardini monastici e a quelli officinali, già ampiamente diffusi durante tutto il Medioevo, infatti, sorgono ovunque giardini privati dove hanno luogo le prime sperimentazioni di orto-botanica161. In un certo senso, allora, fu nel giardino e grazie ad esso che si svilupparono le precondizioni per la fondazione di un metodo scientifico: era infatti sorta un’esigenza del tutto nuova, quella dell’osservazione diretta e della sperimentazione – vera e propria rivoluzione epistemologica nel rapporto uomo natura – che condurrà alla nascita di una scienza