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Dalla flexicurity al paradigma dei mercati transizionali del lavoro: il concetto di “transitional employment” 3.1

Nel documento I giovani tra mercato e non mercato (pagine 24-27)

(119) «Flexicurity is kind of a swear-word in party of the European trade union movement» così descriveva l’atmosfera sindacale nel 2007 John Monk, l’allora segretario generale di European Trade Union Confederation. (120) M. CORTI, Flessibilità e sicurezza dopo il Jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, Giappichelli, 2018; T. TREU, Una seconda fase della flexicurity per l’occupabilità, in DRI, 2017, n. 3, pp. 579-633; A. SARTORI, Il Jobs Act e la riforma dei servizi per l’impiego in Italia: finalmente la svolta nel solco dell’Europa?, in RIDL, 2016, n. 1, III, pp. 19-43. (121) Sul tema, a titolo meramente esemplificativo, si cita J. LESCHKE, G. SCHMID, D. GRIGA, On the marriage of flexibility and security: lessons from the Hartz-Reforms in Germany, in H. JØRGENSEN, P. K. MADSEN P.K (eds.), Flexicurity and beyond – Finding a New Agenda for the European Social Model, DJØF Publishing, 2007, pp. 335-364; I. SENATORI, M. TIRABOSCHI, Il position paper del Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi sul Libro Verde in Diritto delle relazioni industriali, 2007, n. 4, pp. 1033-1043; A. ALAIMO, Da “Lisbona 2000” a “Europa 2020”. Il “Modello sociale europeo” al tempo della crisi: bilanci e prospettive, in Rivista italiana del diritto del lavoro, 2012, n. III, pp. 219-245.I (122) È stato osservato che, secondo le rilevazioni effettuate nel 2010, i flexicurity countries abbiano subito la crisi in modo più intenso agli altri paesi. Pur conservando tassi di disoccupazione minore (6,9% contro il 7,8%), questi sono cresciuti rispettivamente del 2,5 e del 1,2%. Cfr. P. AUER, op. cit. (123) J. LESCHKE, M. FINN, Labor Market Flexibility and Income Security: Changes for European Youth during the Great Recession, in J. O’REILLY, J. LESCHKE, R. ORTLIEB, M. SEELEIB-KAISER, P. VILLA (Eds.), Youth Labor in Transition: Inequalities, Mobility, and Policies in Europe, Oxford University Press, 2019, pp. 132-162. (124) M. SIGNORELLI, Youth unemployment in transition economies, IZA World of Labor, 2017. (125) Per un inquadramento dell’impatto esercitato dagli interventi di deregolazione sulle coorti giovanili nel mercato del lavoro, si veda, tra i tanti, il numero monografico di Sociologia del lavoro, 2014 n. 136, su Giovani e mercato del lavoro: instabilità, transizioni, partecipazione, politiche, curato da N. DE LUIGI, A. MARTELLI, R. RIZZA. (126) T. TREU, Flexicurity e oltre, Centre for the Study of European Labour Law “MASSIMO D’ANTONA”, University of Catania, WP 135/2017, p. 18. Nel ripercorre le origini e le ragioni della scelta europea della flexicurity, l’autore evidenzia gli squilibri delle politiche di flexicurity nel sistema italiano. (127) Per un approfondimento delle politiche di flexicurity in Italia sui giovani nei termini di maggiore precarietà, si veda S. BERTOLINI, Flessibilmente giovani. Percorsi lavorativi e transizione alla vita adulta nel nuovo mercato del lavoro, il Mulino, 2012.

(128) Raccomandazione del Consiglio del 22 aprile 2013 (2013/C 120/01) (129) ANPAL, Secondo rapporto di valutazione della Garanzia Giovani e del programma operativo nazionale Iniziativa occupazione giovani, 2019. (130) M. WEISS, Formazione professionale in Germania: il sistema duale, in Diritto delle relazioni industriali, n. 2014, n. 1, p. 298. (131) E. MASSAGLI, Il sistema duale tedesco, in E. MASSAGLI, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Studium, Roma, 2016, p. 72. (132) Per un’analisi, sia teorica che empirica, dell’esistenza e della natura del legame causale fra i sistemi di relazioni industriali e performance occupazionale in Italia, si veda M. SIGNORELLI, Relazioni industriali e occupazione in Italia in una prospettiva comparata, in Stato e mercato, 2000, 3, pp. 503-536. (133) K. SCHWAB, The Global Competitiveness Report 2017-2018, World Economic Forum, Ginevra, 2017.

se non addirittura di una bestemmia (119). L’Italia ne-gli anni successivi alla crisi economica internazio-nale ha assecondato gli input europei, prima con la legge n. 92 del 2012 (la c.d. Riforma Fornero), poi con la legge delega n. 183/2014 (il c.d. Jobs Act) ed i suoi decreti attuativi (120).

Al di là delle definizioni di cosa sia la flexicurity (121) e dell’efficacia dei suoi strumenti in situazioni di crisi economica (122), è stato rilevato come la fa-scia più giovane della popolazione sia stata svan-taggiata dal nuovo indirizzo (123), ancor più della forza lavoro matura (124). In particolare in Italia (125), soprattutto nel primo periodo di crisi, dinanzi alle difficoltà a realizzare una riforma complessiva del mercato del lavoro, il lavoro flessibile ha rin-forzato la segmentazione del mercato del lavoro, colpendo maggiormente proprio quei soggetti più fragili che si proponeva di tutelare: donne e giova-ni. Il ritardo e la parzialità delle riforme italiane, particolarmente evidenti negli interventi sul mer-cato del lavoro, relativi sia ai servizi all’impiego e alle politiche attive, sia agli ammortizzatori sociali (126), hanno fatto sì che la flessibilità divenisse sino-nimo di precarietà per i giovani (127).

Le ragioni per le quali la flexicurity produce effetti più dannosi per la popolazione giovanile sono plu-rime. Innanzitutto, la flessibilità in uscita penalizza più i giovani poiché gli imprenditori sono sempre

datata 22 aprile 2013 del Consiglio dei Ministri dell’Unione, viene istituito Youth Guarantee - Ga-ranzia Giovani, definito come un sistema rivolto ai giovani con meno di 25 anni (ma in alcuni Paesi tra cui l’Italia l’età dei partecipanti è compresa tra i 15 e i 29 anni), attraverso il quale «entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale rice-vono un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tiroci-nio» (128).

La finalità è di prevenire la disoccupazione e con-siste nell’offrire una prima opportunità di ingres-so nel mercato del lavoro attraveringres-so percorsi di orientamento mirati e calibrati sulle posizioni di coloro che escono dal sistema di istruzione scola-stico e universitario. In Italia, il programma è stato avviato nel maggio 2014 rivolgendosi a quegli indi-vidui di età compresa tra i 15 e i 29 anni in stato di disoccupazione o inattività al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione, i NEET. Secondo stime dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, al 30 settembre 2018 risultavano registrati oltre 1 milione e 390 mila giovani (129), con oltre 1 milione e 76 mila di individui presi in carico (il 77,5%). Ma come evidenzia sempre la stessa Agenzia, lo stru-mento più diffuso è il tirocinio extra-curriculare.

Mappando i differenti tassi di disoccupazione giovanile in Europa si scopre, d’altra parte, che il fenomeno in analisi non è un problema sostanzia-le in quei paesi che hanno livelli di protezione del lavoro elevati, come Austria e Germania; al di là di ciò, anche tra i paesi più liberali, come il Regno Unito, si registrano tassi di occupazione più eleva-ti rispetto a quelli italiani.

In secondo luogo, i Paesi con i tassi di occupazio-ne giovanile più elevati, come Austria, Germania e Svizzera, sono gli stessi che fanno un largo uso del contratto di apprendistato. Emblematico è il caso della Germania, dove l’apprendistato è con-siderato la «spina dorsale dell’economia» (130), per la sua capacità di integrare il sistema educativo più restii a licenziare un lavoratore maturo, per via

del più alto capitale umano che andrebbe perduto, oltre che per la circostanza che quest’ultimo con più probabilità possa avere una famiglia a carico.

In secondo luogo, un approccio alla sicurezza in-centrato sulla tutela reddituale dei lavoratori disoccupati, strutturata secondo il paradigma as-sicurativo, secondo i quale il lavoratore ha diritto alle prestazioni di sostegno al reddito in misura proporzionale a quanto ha lavorato nei mesi pre-cedenti, non può che penalizzare il giovane che non ha lavorato (e versato) abbastanza, se non alcun-ché. Inoltre, le tutele assicurative sono pressoché inesistenti per le forme di lavoro fuori dal merca-to, come ad esempio i tirocini curriculari ed extra-curriculari.

Da ultimo, deve notarsi come l’incidenza dei con-tratti a termine sia ben superiore per i giovani che per gli adulti. Il grado di incertezza che caratte-rizza l’intero sistema economico, viene più facil-mente scaricato sui giovani piuttosto che sugli adulti perché, nelle dinamiche manageriali e della gestione del personale è più semplice proporre contratti brevi e a termine a chi non ha mai avuto contratti a tempo indeterminato, piuttosto che a chi ha già avuto un rapporto di quella tipologia.

Nel caso dei giovani la gravità della situazione oc-cupazionale ha motivato la approvazione di spe-cifici progetti europei. Con una raccomandazione

dell’istruzione e formazione professionale e il mercato del lavoro. Integrazione che avviene, a livello micro, in ciascun giovane apprendista tito-lare sia dello status di studente che di quello di lavoratore; a livello macro, nella «cabina di regia dell’apprendistato» dove istituzioni centrali e lo-cali, associazioni datoriali e sindacati, governano l’intero sistema (131).

L’istituto dell’apprendistato, per la sua natura, è un’ottima spia anche per misurare lo stato di salu-te di altri due fattori che incidono sull’occupazione giovanile: il sistema scolastico in generale e le re-lazioni industriali.

Da un lato, infatti, l’apprendistato è a tutti gli ef-fetti un percorso inserito all’interno del sistema educativo, alternativo agli istituti scolastici più comuni, le scuole liceali o quelle tecniche profes-sionali; dall’altro lato senza un ordinato ed effi-cace dialogo tra le parti sociali, che decidono le qualificazioni professionali da costruire tramite l’apprendistato, non sarebbe possibile un effetti-vo incontro tra domanda e offerta di competenze professionali.

Da un buon sistema di relazioni industriali, dalla cooperazione tra le parti sociali e dalla decentra-lizzazione del sistema contrattuale può derivare anche l’insorgere di un ambiente produttivo più ef-ficiente (132) e maggiormente aperto e disponibile rispetto agli outsiders, cioè ai giovani, occupati o inattivi che siano.

L’intuizione dell’importanza di un sistema coope-rativo di relazioni industriali per la creazione di un ambiente lavorativo più inclusivo è confermata anche dalla classificazione del World Economic Forum. Guardando al Competitiveness Report 2017-2018 (133) e rilevando in particolar modo gli indici del grado di cooperazione delle relazioni in-dustriali (cooperation in labor-employer relations) e il grado di flessibilità nella determinazione del salario (flexibility of wage determination), si evin-ce ancora una volta che i Paesi che registrano un minor tasso di disoccupazione (come la Norvegia,

(134) F. FAZIO, A. M. WELEMARIAM (a cura di), Young Workers in Recessionary Times, Literature Review, in E-Journal of International and Comparative Labour Studies, 2012, n. 3-4, ADAPT University Press. (135) Si fa qui riferimento al programma dell’ILO sull’occupazione giovanile (YEP) istituito nel 2005 dalla Conferenza Internazionale del Lavoro, al fine di coordinare l’attività dell’ILO in materia. (136) ILO, World of Work Report 2012. Better jobs for a better economy, International Labour Office, Geneva, 2012; ILO, Global Employment Trends for Youth 2020. Technology and the future of jobs, International Labour Office, Geneva, 2020; ILO, La crisi dell’occupazione giovanile: è il momento di agire. Risoluzione e conclusioni della 101 sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro, Ginevra, 2012. (137) Si veda M. TIRABOSCHI, La disoccupazione giovanile in tempo di crisi: un monito all’Europa (continentale) per rifondare il diritto del lavoro?, cit. (138) G. SCHMID, Transitional Labour Markets: A New European Employment Strategy, Wissenschaftszentrum Berling fur Sozialforschung Discussion Paper, 1998, pp. 98-206; G. SCHMID, B.

GAZIER (a cura di), The Dynamics of Full Employment. Social Integration Through Transitional Labour Markets, Edward Elgar, 2002; G. SCHMID, Il lavoro non standard. Riflessioni nell’ottica dei mercati transizionali del lavoro, in Diritto delle relazioni industriali, 2011, n. 1, pp. 1-36. (139) L. CASANO, La riforma del mercato del lavoro nel contesto della “nuova geografia del lavoro”,

in Diritto delle relazioni industriali, 2017, n. 3, p. 641. (140) L. CASANO, La riforma del mercato del lavoro nel contesto della “nuova geografia del lavoro”, cit., p. 642 (141) G. SCHMID, Full Employment in Europe. Managing Labour Market Transitions and Risks, Edward Elgar, 2008.

la Danimarca, la Svezia e la Germania) sono pro-prio quelli che presentano un sistema di relazioni industriali maggiormente cooperativo e aperto al confronto con le parti sociali e le realtà che anima-no i territori.

Infine, i principali studi economici in materia di occupazione giovanile assegnano alla doman-da aggregata un ruolo centrale nelle politiche a favore dell’occupazione giovanile (134). Si rivela dunque fondamentale la promozione di politiche macroeconomiche (fiscali e monetarie) a favore dell’occupazione e incentivi fiscali che supportino una maggiore domanda aggregata e aumentino gli investimenti produttivi che migliorano la capaci-tà di creare posti di lavoro e l’accesso al credito.

L’occupazione giovanile, come stabilito nel 2005 in sede di Conferenza Internazionale del Lavoro (135), richiede un approccio integrato che combini poli-tiche macro-economiche e misure volte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, come anche la qualità e la quantità dell’occupazione.

Si rende quindi necessario assicurare un’agenda di sviluppo favorevole al lavoro nelle politiche industriali e di settore che possa facilitare le tra-sformazioni strutturali, contribuire a un’econo-mia eco-sostenibile e intraprendere investimenti maggiori nei settori pubblici e privati che possono creare posti di lavoro dignitosi per i giovani (136).

In definitiva, l’approccio della flexicurity si è rive-lato particolarmente debole e foriero di rischi con riferimento alle vicende giovanili perché teorizza-to e formulateorizza-to come paradigma volteorizza-to a presidiare prevalentemente le transizioni degli adulti e nello specifico dalla disoccupazione ad un nuovo posto di lavoro.

Per comprendere e affrontare le sfide poste dalle transizioni dei giovani nei mercati del lavoro

sem-stesso per tutto il ciclo lavorativo) alla sicurezza del lavoratore, cioè il mantenimento di possibilità occupazionali nel corso dell’intera vita attiva.

Da questo presupposto, possono conseguire stru-menti operativi e interventi complementari gli uni con gli altri: nuovi diritti sociali, politiche attive innovative, protezione della persona non solo dal rischio di perdita del lavoro e del reddito, conven-zioni territoriali, creazione di hub per l’innovazio-ne, et cetera. La principale indicazione di policy dell’approccio dei mercati transizionali del lavoro è make transitions pay (140), ed enfatizza, da un lato, il tema della valorizzazione delle competenze di ogni persona per far fronte alle varie transizioni delle vita, dall’altro la necessità di rifuggire l’in-dividualizzazione dei rischi, promuovendo nuove alleanze per la costruzione di tutele transizionali, soprattutto a livello territoriale.

Un esempio frequentemente utilizzato dai teorici dei mercati transizionali del lavoro per esemplifi-care le possibili configurazioni di tali assetti isti-tuzionali, con specifico riferimento alla transizio-ne dalla scuola al lavoro è, non a caso, quello della formazione duale, con riferimento alle esperienze dei Paesi in cui tali percorsi sono una realtà diffusa e consolidata, già sopra richiamate. Una esempli-ficazione che si può estendere, con riferimento al caso italiano, all’istituto dell’apprendistato, non nella sua veste di mero strumento contrattuale, ma nella sua dimensione di sistema (che coinvolge diversi attori a diversi livelli istituzionali).

L’apprendistato rappresenta cioè un esempio di mercato transizionale positivo in quanto crea

“ponti istituzionali” tra sistemi separati, quello formativo/educativo e il mercato del lavoro, so-stenendo transizioni al lavoro protette e sicure per i giovani da più punti di vista, a partire ovvia-mente dall’accesso alle tutele tipicaovvia-mente con-nesse al contratto di lavoro, ma non solo.

L’apprendistato offre infatti anche una soluzione ottimale con riferimento alla distribuzione dei ri-schi per tutte le parti coinvolte. Con riferimento ai rischi legati all’investimento in formazione, ad esempio, i datori di lavoro possono essere rilut-tanti ad affrontare il rischio se temono questa possa essere inefficace o l’investimento possa bra allora opportuno adottare nuove chiavi di

let-tura (137). L’analisi condotta nei paragrafi precedenti fa emergere come le transizioni che riguardano i giovani siano sempre meno standardizzate e “li-neari”: non da un posto di lavoro a un altro o dalla inattività/disoccupazione al lavoro ma, piuttosto, da attività all’interno del mercato di lavoro ad at-tività fuori dal mercato, da un’occupazione a un’al-tra, da un’occupazione a un periodo di lavoro svol-to in nero, da un lavoro nero a uno stage, et cetera.

Per queste ragioni, con l’obiettivo di leggere me-glio le traiettorie dei giovani all’interno della pro-pria vita professionale (e non), si preferisce usare le lenti di un paradigma diverso che la letteratura internazionale, già sul volgere del secolo scorso, ha battezzato come “teoria dei mercati transizio-nali del lavoro (138).

Con questa espressione si intende, in particola-re, «una nuova concezione del mercato del lavoro come sistema sociale aperto e del lavoro stesso come categoria che intercetta diversi possibili status e condizioni» (139), tenendo conto di tutte le dimensioni della vita. Le transizioni, infatti, avven-gono sì da un’occupazione a un’altra, da uno sta-tus contrattuale a un altro, ma anche dal sistema educativo al mercato del lavoro (e viceversa), dal mercato del lavoro alla vita privata (e viceversa), sia questo per motivi di salute o di conciliazione vita-lavoro.

I mercati transizionali del lavoro si prestano dun-que come un nuovo prisma attraverso il quale “leg-gere” il mercato del lavoro, la cui unità di misura, il criterio ordinatorio, non è più il “posto di lavoro”, centrale nella prospettiva della flexicurity, ma lo status professionale. L’idea che anima tale stra-tegia comporta un cambio di prospettiva, dalla va-lorizzazione della sicurezza del posto di lavoro (lo

essere disperso; i giovani possono essere restii ad assumere il rischio di un investimento in formazio-ne se non sono sicuri del suo ritorno, in termini di riconoscimento sociale e formale nel mercato del lavoro. Nel sistema dell’apprendistato tale dilem-ma è risolto mediante una assunzione collettiva del rischio, che passa attraverso diversi strumen-ti: il co-finanziamento pubblico della formazione, la definizione condivisa di standard relativi alla formazione ma anche ai trattamenti retributivi e alle protezioni lavoristiche più in generale.

Un sistema che dovrebbe generare una risorsa preziosa per rendere più efficiente il funziona-mento dei mercati del lavoro, che è la fiducia. La partecipazione delle parti sociali alla definizione degli standard formativi fa sì che gli apprendisti e i datori di lavoro abbiano fiducia nel valore dei percorsi, la certificazione pubblica degli esiti di questi percorsi ne favorisce il riconoscimento an-che in altri mercati e la trasferibilità.

Risulta evidente da questa ricostruzione come possano tradursi sul piano giuridico alcune coor-dinate dettate dal paradigma dei mercati transi-zionali, ma anche, evidentemente, quali ostacoli si frappongono sul piano giuridico e istituzionale al buon funzionamento di strumenti come l’appren-distato, almeno nella sua dimensione, appunto, di sistema.

Alla base della teoria dei mercati transizionali vi è anche il superamento del dualismo tra il lavoro re-golato dal contratto e le attività comunque social-mente produttive, come la formazione, il lavoro di cura e il volontariato: non è dunque più ritenuta sostenibile la visione di un mercato del lavoro pri-mario, quello del lavoro dipendente nella grande impresa, come tale regolato e tutelato, contrap-posto a tanti mercati “secondari”, non regolati né istituzionalizzati.

Una importante conseguenza della valorizzazione di tutte le transizioni, e non solo quella da un posto di lavoro all’altro, discenderebbe sul piano delle tutele assicurative (141). Da un modello di assicura-zione contro la disoccupaassicura-zione (unemployment in-surance), infatti, si potrebbe approdare ad un mo-dello di work-life insurance, capace di coprire non solo il rischio della disoccupazione involontaria

(142) «There are a number of reasons why the state should become involved in sharing risks related to the deterioration of skills over the life course, to a lack of skills in a person who must change jobs, or to the uncertainty of returns on investments in human capital. There are also reasons why these matters should not be left solely to individual savings or precautionary measures taken by employers or employees» in G. SCHMID, ult. op. cit., p. 287. (143) G. SCHMID, Transitional Labour Markets: A New European Employment Strategy, Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung Discussion Paper, 1998, FS I 98-206. Tale concetto non va confuso con quello identificato dalla stessa espressione e ampiamente analizzato nella letteratura internazionale con riferimento ai programmi di creazione diretta dell’occupazione. Tali programmi sono stati ora incoraggiati, ora criticati, con riferimento in particolare agli esiti considerati non soddisfacenti, anche per via del difficile passaggio dei beneficiari delle misure da questo mercato “secondario” al mercato “primario” maggiormente garantito. (144) G. SCHMID, Transitional labour markets: Theoretical foundations and policy strategies, in The New Palgrave Dictionary of Economics, 2017, 1-15, qui p. 6.

(145) Per una definizione di socializzazione utilizzabile agli effetti dello studio dei problemi connessi all’acquisizione di un ruolo lavorativo, come nel nostro caso, è possibile far riferimento a V. CESAREO, Insegnamenti, scuola e società, Vita e Pensiero, Milano, 1968, p. 26, secondo il quale la socializzazione si definisce come “il processo attraverso il quale la cultura viene trasmessa e l’individuo viene ad inserirsi, integrandosi in uno specifico contesto sociale, sviluppando e realizzando tutte le sue potenziali capacità…umanizzando l’organismo biologico in un self che possiede un senso di identità in grado di disciplinare e orientare il

(145) Per una definizione di socializzazione utilizzabile agli effetti dello studio dei problemi connessi all’acquisizione di un ruolo lavorativo, come nel nostro caso, è possibile far riferimento a V. CESAREO, Insegnamenti, scuola e società, Vita e Pensiero, Milano, 1968, p. 26, secondo il quale la socializzazione si definisce come “il processo attraverso il quale la cultura viene trasmessa e l’individuo viene ad inserirsi, integrandosi in uno specifico contesto sociale, sviluppando e realizzando tutte le sue potenziali capacità…umanizzando l’organismo biologico in un self che possiede un senso di identità in grado di disciplinare e orientare il

Nel documento I giovani tra mercato e non mercato (pagine 24-27)

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