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Fortuna editoriale delle opere analizzate

Il dato più significativo riguardo alla fortuna editoriale delle opere del corpus è il fatto che tre dei dieci testi siano trasmessi soltanto dall’editio princeps. Si tratta del Cinegetico di Ganzarini, dei Pesci di Malatesta e della Fisica di Del Rosso, opere che non hanno goduto di alcuna fortuna nemmeno presso i contemporanei e delle quali si sono progressivamente perse le tracce, se non nei registri delle biblioteche locali o nelle antologie settecentesche177. Dopo quasi due secoli di silenzio i titoli di queste opere riappaiono infatti nella silloge di Quadrio, e da qui in alcune altre trattazioni letterarie a cavallo tra Sette e Ottocento, ma senza che questo porti a nuove ristampe o a studi specialistici.

Non ha goduto di molta fortuna nemmeno il poema di Tesauro sulla sericoltura, ma in una tale carenza di edizioni assume particolare valore la ristampa del 1777 (Vercelli, Tipografia Patria, curata da Antonio Ranza, lo stesso che aveva da poco pubblicato per la prima volta il Podere di Tansillo), soprattutto perché motivata da un fine utilitaristico piuttosto che letterario, che dimostra la percezione, in particolar modo settecentesca, della poesia didascalica come veicolo di saperi tecnici e pratici178. La Sereide è, per di più, una delle poche opere del corpus che presenta un’edizione moderna, quella curata da Domenico Chiodo nel 1994, che non basta però, da sola, a testimoniare un rinnovato interesse intorno a quest’opera e al suo autore.

Di limitata fortuna si potrebbe parlare anche per la Caccia di Erasmo di Valvasone, ma non va sottovalutata la presenza dell’opera, agli inizi dell’Ottocento, nella prestigiosa collana della Società tipografica de’ classici italiani, e nel 1848 (poi 1850) nella collana del Parnaso italiano edita da G. Antonelli. L’opera riscosse un buon successo non appena fu pubblicata, come testimonia la stampa di una seconda edizione soltanto due anni dopo la princeps (1593, ripubblicata nel 1602 a Venezia) corredata da alcune note di commento e dai sonetti in lode dell’autore premessi al testo già nella prima edizione, tra cui spicca quello di Torquato Tasso179. Inoltre, la Caccia viene di norma almeno citata nelle storie letterarie moderne ed è quindi considerata a tutti gli effetti come un testo canonico della poesia didascalica cinquecentesca.

177 Per quanto riguarda la Fisica, si segnala inoltre l’esistenza di un manoscritto non autografo conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Palat. 349): cfr. a riguardo Simoncelli 1990, p. 182.

178 Il 1777 fu infatti un anno particolarmente sfortunato per la sericoltura piemontese e la ristampa della Sereide si inserì in una serie di misure prese per porre rimedio alla situazione: cfr. Chiodo 1994, p. XXVI.

179 Si riporta il testo come si legge nella princeps del 1591 (Bergamo, Comin Ventura), p. 15: «Qual novo suono è questo? E quale in tanto / latrar de’ cani, onde rimbomba il bosco? / Già Febo scende al seggio ombroso, e fosco / sin d’Helicona; et ha le Muse a canto. / Lascia Diana Delo, et Erimanto / e cede il Greco al bel paese Tosco / di chiara tromba in vece, homai conosce / il nobil corno, e insieme il dolce canto. / L’arte, e la fuga de l’erranti belve / n’insegna Erasmo, e de’ suoi cani il corso / dimostra, et de gli augei l’alta rapina. / Veggio di reti circondar le selve, / e ’l Cacciator, che di Cinghiale, ed Orso / le spoglie appende, e i sacri tempi inclina».

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Per quanto riguarda la Peste di Ciappi, il discorso è in parte differente, non solo perché l’operetta ebbe una certa fortuna nei decenni appena posteriori alla pubblicazione che poi si esaurì del tutto, ma soprattutto perché l’effimero successo si lega quasi esclusivamente a circostanze esterne: è fuor di dubbio, infatti, che il trattatello non abbia avuto nessuna considerazione dal punto di vista letterario. Esattamente come la gran massa di trattati in prosa e “libri di segreti” apparsi nello stesso periodo come conseguenza delle varie epidemie, anche la Peste è stata ristampata più volte in uno stretto giro di anni: la prima redazione, dopo la princeps del 1577, venne ripubblicata nel 1598 a Carmagnola; la seconda redazione, completamente rivista, fu stampata a Roma nel 1601 e di nuovo a Roma e a Milano nel 1630: quest’ultima impressione in particolare si lega all’epidemia di peste che travolse Milano e buona parte dell’Italia settentrionale tra il 1629 e il 1630 (la stessa epidemia descritta da Manzoni nei Promessi sposi) e che arrivò a minacciare anche Roma.

Se il trattatello in ottave di Ciappi prima di scomparire completamente ha avuto una qualche circolazione agli inizi del Seicento, proprio questo secolo si segnala per tutti gli altri testi del corpus come un periodo di quasi completo oblio: le opere didascaliche cinquecentesche, infatti, scompaiono dai torchi delle stamperie. Il dato costituisce una spia importante per valutare la ricezione del genere didascalico nelle diverse epoche, soprattutto in relazione alle opere più fortunate (Api, Coltivazione,

Nautica), che verranno ristampate molte volte nei secoli successivi godendo di una rinnovata fortuna.

La tradizione editoriale del poemetto di Rucellai e quella del poema georgico di Alamanni sono per molti versi connesse, in quanto le Api vennero da subito considerate «come il corrispondente del quarto libro delle Georgiche e, pertanto, come un’integrazione dei sei libri della Coltivazione»180. Fu così, ad esempio, nella fortunata edizione giuntina del 1590 che riuniva per la prima volta le due opere. Un’edizione importante anche per la presenza delle note di Roberto Titi sulle Api: note che possono rivelarsi ancora oggi preziose e che infatti vennero mantenute anche nelle ristampe ottocentesche, con l’aggiunta delle annotazioni di Giuseppe Bianchini da Prato sulla Coltivazione. L’edizione giuntina conobbe una grande fortuna in particolare nel Settecento, secolo in cui si susseguono diverse stampe che mantengono la stessa impostazione: Padova 1718, Verona 1745, Venezia 1751 e 1756, Parma 1764, Bassano 1795, fino all’inclusione nella serie dei Classici italiani (Milano, 1804)181. La data di quest’ultima edizione è significativa in quanto evidenzia come, all’interno della collana, fu data precedenza a questi due poemetti rispetto a tante opere di altro genere182. Per quanto riguarda Rucellai, inoltre, oltre all’inclusione nella collana torinese dei Poemetti

180 Bonora 1981, p. VII. La Coltivazione ebbe comunque diverse ristampe già nel Cinquecento, tra Parigi e Firenze: cfr. la scheda dedicata ad Alamanni al § 2. Per la storia editoriale dell’opera di Alamanni cfr. Albonico 2001, p. 737. 181 Di questa edizione è stata pubblicata abbastanza recentemente una ristampa anastatica con introduzione di Ettore Bonora (1981).

182 Rilevanza che venne confermata nel 1813 con la stampa di una raccolta di opere didascaliche contenente anche la

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italiani183, si può citare anche l’edizione completa delle Opere stampata nel 1772 a Padova presso

l’editore Comino; nel 1887 ne apparve un’altra, curata da Guido Mazzoni (Bologna, Zanichelli), accompagnata da un’introduzione e da un profilo biografico dell’autore, di mano del curatore184. Nessuno dei due poemi vanta, ad oggi, un’edizione critica moderna.

L’edizione più recente della Nautica risale invece ai primi del Novecento, ed è quella, curata da Gaetano Bonifacio, a cui si è fatto riferimento per il testo. La fortuna dell’opera di Baldi si avvicina, almeno nei secoli scorsi, a quella di Api e Coltivazione. In particolar modo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento l’opera venne ristampata dall’editore Antonio Zatta a Venezia – che si dimostrò particolarmente attento ai testi didascalici – prima come testo autonomo nel 1786 e poi, l’anno successivo, nella raccolta Marittimi e pedanteschi del secolo XVI all’interno della collana del

Parnaso italiano a cura di Andrea Rubbi. A inizio Ottocento si susseguirono diverse edizioni: nel

1813 la Nautica viene inclusa nella Raccolta di poemi didascalici della Società Tipografica de’ Classici Italiani (1813, ristampata nel 1825 e 1826), nel 1831 viene stampata a Palermo, nel 1859 a Firenze; la fortuna tipografica del poema di Baldi viene avvalorata da una particolare fioritura di studi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: Pedde 1899, Zaccagnini 1902, Provasi 1902, nonché l’introduzione dello stesso Bonifacio (risalente al 1914). Si segnala inoltre l’esistenza di un autografo della Nautica, il manoscritto estense Campori, datato 25 aprile 1580 che tramanda una prima redazione del testo sulla quale il poeta apportò correzioni e aggiunte185.

Merita un cenno, infine, la storia editoriale del Podere. Il poemetto è infatti rimasto a lungo inedito, come buona parte della produzione poetica di Tansillo. Composto nella seconda metà degli anni ’50 del Cinquecento, era sicuramente concluso nel 1560, ma solo nel 1769 comparve la princeps, a Torino per i torchi della Reale Stamperia. Da qui iniziano a susseguirsi diverse edizioni: già l’anno successivo viene ristampato a Venezia (presso Antonio Zatta), e viene poi incluso nelle Poesie di

Luigi Tansillo stampate a Livorno nel 1792. A conferma dell’immediata fortuna di cui godette il Podere nel Settecento si possono citare anche le sue inclusioni nella Raccolta di poemi georgici

stampata da Francesco Bonsignori a Lucca nel 1785 e nella sezione Didascalici della collana Parnaso

italiano edita a Venezia nel 1786. Dall’Ottocento ai giorni nostri si possono contare una decina di

ristampe, autonome o all’interno di raccolte, tra le quali ha goduto di maggiore considerazione quella curata da Francesco Flamini (L’egloga e i poemetti, Trani, V. Vecchi, 1893)186. Inoltre, all’inizio del

concesso ai didascalici può essere frutto dell’influenza sugli autori che esercitarono le valutazioni positive di Giuseppe Parini contenute nei Principii delle belle lettere: per questi aspetti cfr. Bonora 1981.

183 Su cui cfr. Necchi 2013.

184 La raccolta comprende: Api, Rosmunda, Oreste, Oratio ad Hadrianum VI, Lettere. Questa edizione è stata ripubblicata nel marzo del 2019, in Australia, dalla Wentworth Press.

185 Su cui cfr. Berra 2005, p. 10.

186 Importante perché si fondava su un manoscritto (Torino, Biblioteca nazionale Universitaria, cod. N.VII, 4) in cui si legge «Capriccio di Luigi Tansillo intitolato il Podere partito in tre capitoli». Il codice, contenente anche la Balia, è un

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Novecento, l’operetta fu proposta come classico annotato per le scuole nelle edizioni curate da Brognoligo (1907), Gobbi (1933), Massetani (1958).

Questi ultimi casi, insieme alla ristampa del 1777 della Sereide, permettono di sottolineare ancora una volta la fortuna settecentesca del genere didascalico. D’altronde, il Settecento era il secolo più adatto ad apprezzare questo tipo di produzione, che ben si sposava con l’ideale di una poesia che fosse utile e potesse rappresentare «un’elegante forma di comunicazione sociale»187. Nel XVIII secolo, infatti, «quello della poesia didascalica è un fenomeno che ha a che fare con la moda e il mito della scienza che contrassegnano il secolo: e anche, naturalmente, con le istanze divulgative tipiche della cultura illuminista» 188: non è un caso, ad esempio, il particolare apprezzamento di Parini per l’opera di Alamanni nei suoi Principi delle belle lettere : «Ma Luigi Alamanni, scrittore di cose liriche, di satire, di tragedie e di poemi, merita spezialmente d’essere studiato, come uno degli ottimi. Il suo poema della Coltivazione è testo insieme della lingua, della poesia e della letteratura italiana, ed una delle opere che è vergogna di non aver mai letto»189. Significativa per testimoniare il ruolo di modello assunto da Alamanni in questo secolo è anche la dichiarazione contenuta all’interno di un’opera georgica, la Coltivazione del riso di Giambattista Spolverini (1758), in cui l’autore della

Coltivazione viene definito come il «[...] gran Coltivator ch’Arno produsse, / Gallia accolse e rapì, le

cui sant’orme / seguo da lungi, e riverente adoro»190.

A fianco di una vastissima produzione originale («è tanta l’abbondanza della materia, che bisogna assolutamente rinunciare ad abbracciarla tutta» si legge in Bertana 1909, p. 102) nella nostra ottica assumono un particolare valore le numerose sillogi di poemetti didascalici che fioriscono tra Sette e Ottocento, nelle quali la tematica prediletta sembra essere quella georgica. È così ad esempio nella

Raccolta di poemi georgici stampata a Lucca nel 1785, che include le opere di Rucellai, Alamanni e

Tansillo, con l’aggiunta di quelle settecentesche di Spolverini, Lorenzi Baruffaldi (Il canapaio) e Betti (Del baco da seta, che riprende l’argomento della Sereide), o ancora nelle Bellezze de’ poeti

idiografo che presenta alcune correzioni di mano di Tansillo e viene descritto come «una copia in pulito commissionata a un copista di professione sulla quale l’autore è tornato successivamente per migliorare il testo» (Toscano 2017, p. 89; per la questione editoriale dell’opera cfr. ivi, pp. 87-99; sul manoscritto N.VII 4 cfr. anche Iovino 2012).

187 Antonelli 2001, p. 963.

188 Roggia 2013, p. 91. Per un elenco di opere e le rispettive edizioni cfr. Antonelli 2001, pp. 981-84.

189 Il passo nella sua interezza si può leggere in Bonora 1967, p. 795. Parini dimostrò di apprezzare anche Baldi: «Bernardino Baldi, uomo assai erudito de’ suoi tempi e nobile italiano scrittore, autor di varie opere in prosa ed in verso. Il poema di lui intitolato La nautica, va tra i buoni poemi didattici, e le sue Ecloghe, scritte con notabile grazia e semplicità sono delle più pregevoli che abbiamo» (ibid.).

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didascalici (Firenze, 1826), che include le Api, la Nautica e tre opere settecentesche (quelle di

Spolverini, Mascheroni e Le perle di Roberti)191.

Si può notare, però, che la fioritura delle scienze nel secolo dei lumi portò anche a qualche stroncatura verso la poesia didascalica cinquecentesca. Ad esempio, Algarotti si scagliò contro il poemetto di Rucellai in una lettera del 15 maggio 1747 indirizzata all’astronomo Eustachio Zanotti. Dalla lettura delle Api non solo, scrive Algarotti, non è riuscito a imparare qualcosa sul «modo di trasportare gli spiriti latini ne’ nostri versi volgari», dato che negli sciolti di Rucellai «vi è una certa uniformità [...] che stracca il lettore e partorisce quell’effetto che nella musica la monotonia»192, ma anche gli insegnamenti pratici sono risultati inattendibili: «fatto sta che col quel suo microscopio ha veduto delle proboscidi e delle spade che le api non hanno di sorte alcuna; e non ha saputo vedere quelle piccioline trombe che ne mostrano i nostri microscopi, con cui elle suggono il mele da certi follicelli de’ fiori [...]», per cui «ben si può affermare ch’egli ha fedelmente seguito su ciò le più volgari opinioni: la generazione delle api, per atto d’esempio, dal sangue del toro, la cattiva fisica di Virgilio, di cui egli si potrebbe chiamare il valletto, come poco o niente ne ha espresso la divin poesia»193.

In queste parole si può misurare la più grande differenza che intercorre tra le opere cinquecentesche e quelle di due secoli più tardi: è vero infatti, come si è detto, che ad autori come Rucellai e Alamanni – o anche Tesauro, Baldi ed Erasmo – importava principalmente lo stile di Virgilio e si curavano molto poco che la sua fosse una «cattiva fisica», in quanto l’autorità dei modelli latini bastava per concedere autorevolezza a quello che avevano scritto194.

Grande estimatore dei didascalici cinquecenteschi fu, invece, Giacomo Leopardi che nella sua

Crestomazia incluse alcuni passi di Rucellai, Alamanni, Tansillo e Baldi, e inoltre fu autore di svariati

appunti linguistici sulle opere dei primi due nelle Annotazioni alle dieci canzoni.

In particolare, circa le Api – di cui, nella sua antologia, sono riportati i vv. 79-145 riguardanti la scelta del luogo più idoneo alle arnie – scrisse che si trattava di «bella prosa misurata quanto al linguaggio, ed allo stile eziandio» ma, comunque, «nient’altro quasi che traduzione delle Georgiche» (Zibaldone, nota del 12 settembre 1823, p. 3416)195. All’interno della Crestomazia sono antologizzati

191 Altre raccolgono esclusivamente opere settecentesche, come le due sillogi stampate a Venezia negli anni Novanta del secolo presso l’editore Zatta, all’interno della collana Parnaso italiano: i Poemi georgici del secolo XVIII e i Poemetti e

sciolti del secolo XVIII. Su raccolte e collane sette-ottocentesche comprendenti opere didascaliche cfr. Necchi 2013.

192 Bonora 1969, pp. 552-53.

193 Ivi, p. 554. La lettera di Algarotti si conclude con un’ulteriore punta di sarcasmo: «E immaginate pure che se cotesti devoti del Cinquecento credono che le api medesime abbiano posto tra labbro e labbro al Rucellai un favo di mele, crederanno ancora che un vespaio abbia preso il nido nella mia penna» (ivi, p. 555), riferendosi ai versi in cui Rucellai immagina che uno sciame di api gli appaia in sogno per invitarlo alla scrittura: «Così diss’egli, e poi tra labro e labro / mi pose un favo di soave mele, / e lieto se n’andò volando al cielo» [Api, 20-22].

194 Sull’importanza delle autorità antiche cfr. il cap. II della tesi, in particolare al § 2.4.

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ben cinque passi della Coltivazione – in cui l’autore trovava «voci, metafore, locuzioni, che quanto hanno d’ardire, tanto sono espressive e belle»196 – per un totale di 458 versi: sono rispettivamente i vv. 412-46 e 935-1096 del I libro, 704-51 del II, 240-61 del III e 405-510 del VI197. Significativo, inoltre, il fatto che di Tansillo Leopardi abbia apprezzato più il Podere che le liriche: si ritrovano antologizzati quattro passi del poemetto, due corrispondono ad exempla moraleggianti (I, 352-84 e II, 175-233) mentre gli altri riguardano la descrizione del cattivo vicino (II, 13-54) e la lode della vita rustica (III, 55-114). Di Baldi, invece, – definito nel commento alla canzone Sopra il monumento di

Dante «autore corretto nella lingua, e molto elegante»198 – vengono inclusi due passi dell’egloga

Celéo o l’orto, e due passi della Nautica: uno affine all’ultimo passo di Alamanni sui segni che

preannunciano tempesta o bel tempo (sono i versi 440-524 del libro II) e l’altro corrispondente al confronto tra la vita del contadino e del marinaio, dal libro III (vv. 229-307). A questi si aggiungono, nelle sezioni dedicate al primo e al secondo Settecento, alcuni passi prelevati da Baruffaldi, Spolverini, Lorenzi e Mascheroni, a conferma della «particolare predilezione del Leopardi per la poesia georgica»199. Ad ogni modo, quello di Leopardi «fu nel secolo XIX l’ultimo significativo riconoscimento dei due poemetti»200.

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