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Fra teoria e scrittura: il nodo del verisimile

In un’epoca di grandi rivolgimenti storici e culturali, che contiene in sé le estreme propaggini del Rinascimento e i germi del Barocco filtrati dall’idea manierista, la morte definitiva dell’Umanesimo e la sua fissazione in un classicismo sempre più sclerotizzato, la lunga ombra della Controriforma e delle guerre di religione e la nascita dello Stato e della sua regola di precedenza sui diritti del singolo, dell’anticlassicismo sfrenato e del canone dell’equilibrio mediato dalla rinascita delle Accademie,1 l’intellettuale, ormai

affrancatosi dalla professione religiosa come fonte essenziale del proprio sostentamento, si stabilisce definitivamente a corte, nell’area di una cultura sempre più laica e sempre meno letterariamente specifica. L’immagine dell’erudito attivo sulla scena politica, consigliere e istitutore, artefice e amministratore della cosa pubblica e degli affari di Stato, si deforma fino a scomparire, lasciando spazio a figure specializzate e ad un rafforzamento paradossale e insieme definitivo del referente aristocratico. Il servizio del

1 Tra le quali naturalmente spicca l’Accademia della Crusca, fondata a Firenze nel 1583 per

secessione dall’Accademia Fiorentina e protagonista di un vivace dibattito sulla lingua e sul diritto di antecedenza del fiorentino classico, selezionato sulla base degli ottimi modelli di scrittura trecenteschi.

signore in qualità di cortigiano diventa la fonte primaria di reddito, il mecenatismo e il servo encomio si fanno regola. L’ambiente cortigiano richiede sacrifici costanti, sopportazione e capacità di brigare e manipolare; tratti fondamentalmente assenti in un uomo di corte pure di fama come Tasso, nato e cresciuto all’ombra dei palazzi. Mentre una figura scafata come il Marino riusciva ad imporsi in una corte ostica come quella francese e a pubblicare con successo le sue opere più importanti (la Galeria, 1619; la Sampogna, 1620; l’Adone, 1623), Torquato ne affrontava con irrequietezza e disagio crescenti i rischi e le incognite, tentando un’ossessiva ricerca di spazi di autonomia tramite il vagabondaggio e il peregrinare continuo, assistito dalla collaborazione di tramiti e conoscenti - una delle soluzioni praticate dagli intellettuali dell’epoca per garantirsi margini di manovra più ampi (altre possibilità sono offerte dalla collaborazione con l’ambiente editoriale, percorso inaugurato dall’Aretino, e dall’attività diplomatica, fonte giustificata di spostamento e quindi di relativa indipendenza).

Nello specifico, Ferrara è una corte profondamente legata all’ideale cavalleresco e alla manifestazione più evidente della forma cortigiana in quanto tale: è anche una corte in declino, stante il difficile rapporto con Roma e con i Medici, in fase di irrigidimento rispetto ai tempi dell’Ariosto (che comunque non rinunciò a scagliare le sue frecciate contro il formalismo incipiente della stessa, come traspare nelle Satire: si pensi alle prime tre, critiche ora nei confronti di Ippolito d’Este, ora nei confronti della Curia papale, ora verso gli Este nel complesso, responsabili di un’accoglienza non proprio calorosa a proposito del Furioso; e non si dimentichi nemmeno l’assiduità dei riferimenti nel poema ariostesco alla meschinità e piccolezza del medesimo ambiente, tema ripreso anche nel tassiano Malpiglio overo de

la corte).2 Se l’indole e la formazione di Tasso lo spingono ad un assorbimento

non mediato dell’idea cortigiana e alla convinzione, mai venuta del tutto meno, di una fondamentale sostenibilità della stessa, d’altro canto i rapporti difficili con cortigiani e protettori parlano di un’ostilità profonda nei confronti di quell’ambiente.3 La vita cortigiana di Torquato non è la vita cortigiana di

Bernardo, che compensò un’ispirazione poetica minore ma più «dolce» con un effettivo rilievo e peso decisionale e con l’assegnazione di incarichi non di rado malpagati o indesiderabili, ma comunque di qualche importanza; diversamente dal figlio, costretto a mendicare favori o a vivere all’interno di una coltre ovattata, priva di contatto con le turbolenze politiche del periodo e con lo studiolo del duca e le decisioni ivi prese. Mentre Ariosto si rassegna ironicamente a riconoscere la direzione del cammino, con notevoli oscillazioni

2 Dopo la morte di Alfonso (ultimo duca formalmente, se non concretamente, indipendente dal papato), che aveva retto il Ducato dal 1559 al 1597, in mancanza di eredi diretti, Ferrara passò quasi subito – e precisamente, nel 1599 - sotto il controllo diretto della Chiesa. I rapporti tra quest’ultima e la corte estense erano ostacolati anche dalla notoria presenza a Ferrara di un nutrito sciame calvinista al seguito di Renata di Francia, madre di Alfonso, allontanata dalla corte a causa delle sue simpatie protestanti nel 1560; nessun miglioramento ne derivò tuttavia, e anzi le relazioni tra le due corti rimasero tese, tanto che Alfonso non partecipò alla campagna antiturca promossa in quegli anni dal papato, e nel corso del tempo si contraddistinse per un indurimento delle proprie posizioni e per un aumento del senso di paranoia che sarà scontato, tra gli altri, proprio da Tasso (in netto contrasto con la felice conoscenza dei primi tempi, più volte descritta a Scipione Gonzaga). La questione andava avanti da anni, se già Ariosto, nel canto III del Furioso (in particolar modo nelle ottave 34-36), consapevole della nuova politica aggressiva e spregiudicata del papato, aveva sottolineato i debiti e i doveri della Chiesa nei confronti degli Este. Il rapporto con i Medici si distingueva invece per il sentimento di gelosia, di minaccia e di ripulsa provato da Alfonso nei confronti della famiglia fiorentina e in ispecie contro Cosimo, suo rivale in fatto di supremazia e di potere e in ascesa rispetto alla stirpe estense. 3 Il Cinquecento, soprattutto nella sua fase più pienamente rinascimentale, è ricco di queste aporie. Se nell’Ottocento storici e studiosi (Michelet e Burckhardt su tutti) collaboreranno alla costruzione del mito rinascimentale, altri (tra cui spicca il nome di Rousseau) ne evidenzieranno invece i contrasti interni, la graduale perdita d’autonomia dell’individuo, il rafforzamento assolutistico e la natura utilitaristica e al contempo escapista dell’arte, elementi riproposti anche dal De Sanctis (celebre, tra gli altri, il suo giudizio su Guicciardini).

nelle sue opere tra spinte ora in direzione di un’armonia complessiva, ora di un rassegnato e curiosamente solare pessimismo, Tasso non accetta i nuovi orientamenti della politica in fase controriformistica e la mancanza di coinvolgimento che ne deriva. Opera dunque per ricostruire, tramite il proprio impegno di intellettuale, le virtù e le attitudini di un periodo precedente, di pari passo con lo sviluppo coerente ed organico di una teoria estetica in grado di risolvere i suoi dubbi; da cui il mito di un Ariosto classico, cresciuto secondo dinamiche condannate dopo di lui ad un rapido cambiamento, e il mito di un Tasso romantico, in fondamentale urto con la realtà in nome della stasi idealizzata, secondo uno stile di pensiero biforcato tra un polo classicistico ed uno meraviglioso eroico (come suggerito da Toffanin).4

Il Cinquecento è un periodo di ripresa degli stilemi e dei generi dell’epoca classica, tra cui spiccano quelli tipicamente aristotelici legati all’ambito dell’epos e del teatro (seppur nel generale calo di favori per la tragedia, rinata in forme regolari con la Sofonisba, ma oggetto anche di scandali continui cagionati dalle accuse di immoralità e di mancanza di rispetto formale rivolte a numerose opere: è il caso dell’Orbecche del Giraldi Cinzio, 1541, tutta intrisa di spiriti senecani e alternativi all’ortodossia aristotelica; della Canace dello Speroni, edita nel 1546 e ristampata pochi anni dopo; dell’Orazia di Pietro Aretino, 1546, assai libera nel suo svolgimento rispetto alla richiesta unità interna).5 Il riutilizzo di quei modelli in contesti ormai

4 G. TOFFANIN, Il Cinquecento, Milano, Vallardi, 1965, p. 664. Senza dimenticare il mito alternativo Ariosto-Trissino, foriero di grande influenza sul Tasso, spinto ora alla ricerca poetica senza limiti, ora a legarsi alla tradizione e alla lezione dei classici, l’uno grande cortigiano e letterato, l’altro grande teorico e scopritore di nuove opere, esegeta e interprete.

5 Ma le divisioni e le liti non riguardarono solamente la tragedia. Si pensi allo scompiglio causato

dal Guarini con il suo Pastor fido, che ignorava l’unità d’azione e mescolava tragedia e commedia, e la susseguente pubblicazione del Compendio della poesia tragicomica in difesa di

intimamente diversificati richiede un aggiustamento alla realtà, con modifiche profonde della lingua letteraria, della metrica, della materia e dei canoni di riferimento. Dopo una fase di discreta apertura e di sostanziale libertà d’intenti, seppur legati dalla convergenza sul fronte della ricerca della forma più alta e perfetta, l’irrigidirsi dell’idea letteraria conduce ad un’indicizzazione e ad una codifica minutamente capillari. Il principio di imitazione non è più una scelta, piuttosto un obbligo; l’esistenza di nuovi generi (il romanzo cavalleresco e le sue diramazioni romanzesche) e l’aggiornamento dei vecchi (l’epica, declinata nella nuova forma del «poema eroico» di matrice più tenacemente storica e illustre, e non meno la tragedia) rimanda alle tracce degli antichi e richiede la consultazione di poetiche specifiche, in primis quella aristotelica, presenza pressoché ineludibile nel dibattito contemporaneo.

Il confronto con Aristotele porta alla luce un nuovo modo di intendere la storia, una nuova interpretazione del reale e del verisimile, del meraviglioso e del sublime, della finzione e dell’artificio; concetti non più nell’arbitrio del poeta, bensì assoggettati ad una normativa sempre più categorica, in netto contrasto con la varietà d’ispirazione dell’età precedente, che ammetteva un riuso dei classici più sperimentale ed intentivo. L’attività dei teorici si muove un’inclinazione ormai pienamente baroccheggiante, nella ricerca di diletto in luogo del giovamento e della libertà creativa in luogo della fissità formale. La divaricazione tra commedia e tragedia (l’una più libera, di ambientazione cittadina, anticipata già in epoca umanistica; l’altra aristocratica, necessariamente legata alla classicità per mancanza di modelli attuali, più recente) caratterizza in senso oppositivo la cultura del periodo, e apre spiragli molteplici verso il futuro a partire da un presente che non insiste più sul bivio tra genere drammatico e narrativo, ma si proietta sulla distinzione tra lirica, epica e dramma, con ulteriori sottodivisioni, regolate altrettanto rigidamente. La minaccia della Commedia dell’Arte e in generale dell’impoverimento del pubblico è ricordata da un contributo comico dello stesso Tasso, autore di un prologo ai

Suppositi, in cui attraverso la voce di un redivivo Ariosto critica gli indirizzi della commedia

attuale, irrispettosi dei precetti terenziani e più latamente classici, e la perdita di un modello strutturale preciso.

in direzione della ricerca di un ordine preciso e di una strutturazione a maglie strette dei generi letterari. Il dibattito da un certo momento in avanti si concentra principalmente sul confronto tra l’epica e il romanzo cavalleresco, a partire dalle discussioni iniziate negli anni Quaranta attorno al poema dell’Ariosto, e finisce col calamitare i nomi di intellettuali e letterati di provenienze e intenti quanto mai diversi. Ma il Trissino già nel 1529, in anticipo sui tempi, aveva rinviato al testo di Aristotele, diffondendosi a parlarne anche nella dedica del suo poema: cardini principali l’azione unica, grande e illustre, determinata da uno sviluppo preciso nelle tappe fisiologiche dell’inizio, del mezzo e della fine, l’imitazione solenne di Omero all’interno di un capillare rimando ai classici, il riconoscimento della giustezza delle regole offerte dal filosofo eletto a maestro. La sua Poetica, pubblicata postuma nel 1562 a Venezia, si propone di schematizzare e approfondire lo studio dei generi letterari e delle relative caratteristiche, come accade nel concreto con la Sofonisba e con L’Italia liberata dai Goti; un esemplare dell’opera è presente tra i postillati del Tasso, che ne condusse infatti una lettura puntuale anche se ricca di motivi polemici.6 Nel 1548 esce a Firenze,

6 Come si può vedere dal già citato intervento di Carini (A.M. CARINI, I postillati barberiniani del

Tasso, in «Studi tassiani», XII, 1962, 97-110) e dall’edizione di Baldassarri (G. BALDASSARRI, La

biblioteca del Tasso. I postillati ‘barberiniani’, Bergamo, Centro di Studi Tassiani, 1983 [Postille inedite allo Scaligero e allo pseudo-Demetrio]); inoltre si vedano T. TASSO, Lettere, cit., IV, 989, p.

72 («Ma in tutti i casi ricuperatemi la Poetica del Trissino [...]»), e 997, p. 83 («De la Poetica del Trissino ho bisogno [...]»), ambedue indirizzate al Costantini. Anche la Sofonisba rientra in quest’elenco di opere annotate, assieme a testi importanti come ’Ars poetica di Orazio e la

Commedia, sempre largamente postillata: per la quale si fa riferimento all’edizione veneziana

del Giolito dei primi ventiquattro canti, del 1555 (poi Città di Castello, Lapi, 1895) e le versioni Sessa (Venezia, 1564) e da Fino (Venezia, 1568), ambedue edite poi sotto la cura definitiva del Rosini (Pisa, Capurro, 1830). Del Giolito Tasso possedeva anche i volumi, ampiamente annotati, del Convivio e del Canzoniere del Petrarca. Riferimenti a libri postillati si ritrovano in alcune lettere a padre Niccolò degli Oddi (T. TASSO, Lettere, cit., IV, 1240, p. 307; 1241, pp. 307-308;

1248, p. 318); si veda inoltre IV, 1183, p. 256, al Costantini. L’elenco completo si rintraccia nel quarto volume della raccolta Guasti, pp. 311-313. Tra i libri postillati, anche numerosi testi di

per i tipi del Torrentino, la Poetica di Aristotele, annotata sul testo latino da Francesco Robortelli; nel 1549 è la volta della traduzione - sempre pubblicata a Firenze - di Bernardo Segni, la prima in lingua volgare, seppur condotta sulla traccia delle versioni latine (in particolare del Robortelli); nel 1550 vede la luce per i tipi del Valgrisi il commento di Vincenzo Maggi, steso in collaborazione con Bartolomeo Lombardi e recante in appendice il trattato De ridiculis, concepito in polemica con il Robortelli; degli anni Settanta (in particolare 1570 e 1572) è l’attività del Castelvetro, pietra di paragone costante per Tasso, particolarmente per quanto riguarda la vituperata unità d’azione e il senso della storia, fonte delle geremiadi dei revisori, dei «bottoli ringhiosi» e dei pedanti senesi (e proprio la lettura del Castelvetro e il contatto con il pubblico toscano fa sì che Tasso inclini maggiormente ad un gusto più approfondito della storia, a scapito dell’inventio romanzesca). Del 1575 è il gran volume del Piccolomini, letto prima della partenza per Roma e dell’incontro con i revisori, senza dimenticare l’esegesi del Vettori (Firenze, Giunti, 1560) e del Salviati, quest’ultima dai destini editoriali alquanto accidentati e difficili. Per quanto riguarda le poetiche in senso lato, inviluppate attorno alla vexata quaestio imitazione della natura – imitazione dei modelli, nel 1551 viene pubblicato il trattato Dell’arte poetica di Girolamo Muzio, precettore a suo tempo del Tassino, interessato anch’egli alla composizione di un testo sulla riconquista di Gerusalemme, cui poi rinunciò dopo aver saputo della coincidenza di intenti con il suo allievo; nel 1561 compare la Poetica dello Scaligero, campione del classicismo; nel 1563 è la volta dell’Arte poetica di Antonio Minturno. Figura importante dell’esegesi cinquecentesca è inoltre Benedetto Varchi, celeberrimo per le sue Lezioni e marca platonica (Platone stesso, Plotino, Proclo, Porfirio), tutti ampiamente consultati, e tutti nella versione del Ficino.

per tutta una serie di opere che testimoniano l’attività e l’orientamento di un secolo per sua stessa natura incline all’approfondimento critico ed alla classificazione; e sempre nel Cinquecento si hanno le prime edizioni del trattato Del sublime (1554 e 1555, a cura del Robortelli e per i tipi degli eredi del Manuzio, testo diffuso poi in tutta Europa grazie all’interesse del Boileau).

Nel presente e nel passato si moltiplicano le occasioni di polemica e di definizione di codici e limiti sempre più stretti. Le indicazioni aristoteliche e quelle degli esegeti successivi arricchiscono il dibattito sullo stile sublime, sulle forme della metrica (l’adozione dell’endecasillabo sciolto in luogo dell’esametro classico, strutturalmente improponibile, trainata da esperimenti di successo come l’Eneide del Caro), sulle celeberrime unità (in particolare l’unità d’azione, luogo di scontro tra la magnificenza unica dell’epica e l’entrelacement di derivazione boiardesca e in senso lato cavalleresca),7 sulla liceità dell’argomento storico, sulla legittimazione del

7 Le famigerate unità non compaiono in effetti in maniera precisa all’interno del testo aristotelico, risultando invece una rielaborazione posteriore (di radice antica, ripresa poi in epoca cinquecentesca) impostasi sul testo, a scapito del testo. Gli elementi che definiscono le unità sono presenti nella Poetica (con l’eccezione dell’unità di luogo, mai descritta esplicitamente), ma ben lungi dall’essere statutari. L’unità di tempo viene menzionata sporadicamente, tendenzialmente nel corso di comparazioni tra epica e tragedia: si vedano ARISTOTELE, Poetica, a.c. di D. Lanza, Milano, Bur, 1987, 49b 10-15, dove si dice che « […] l’una [la

tragedia] cerca quanto più può di essere compresa in una sola giornata o di eccederne poco, l’epica è invece indefinita per il tempo […]»; 51a 1-5, «Pertanto, come per i corpi e gli animali ci deve essere una grandezza e questa deve essere facilmente abbracciabile con uno sguardo, così anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve consentire una facile memorizzazione»; 62b 1-5, «[…] per il compiersi il fine dell’imitazione in minor ampiezza: ciò che è più concentrato è più gradevole di ciò che è diluito in molto tempo […]»). L’unità di azione è più presente: si vedano 50b 23-25, «[…] la tragedia è l’imitazione di un’azione compiuta e intera, dotata di una certa grandezza. […] Intero è poi ciò che ha un principio, un mezzo e una fine»; 50a 15-22, «La tragedia è infatti imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita. […] pertanto i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte»; 51a 20-35, «Pensano [i poeti] che, poiché Eracle era uno solo, ne segua che anche il racconto sia

volgare e sul rapporto con gli antecedenti. Eliminato presto lo scomodo riferimento del Pulci, troppo discontinuo e grossolano per fungere da modello (autore da «tragicommedia», come è definito nell’Apologia),8 lo

sguardo dei letterati si concentra sui prototipi più facilmente perseguibili e più consonanti con la nuova ispirazione. L’Inamoramento de Orlando del Boiardo si poneva in questo senso come ideale trait d’union tra l’ispirazione epica della chanson de geste e l’inclinazione avventurosa e amorosa della materia bretone e arturiana, arricchendola di apporti popolareggianti e di contaminazioni classiche; Ariosto si era inserito nel medesimo solco, sviluppando così una nuova concezione di cavalleria filtrata dal suo spirito ironico, ben diverso dalla plumbea serietà del Tasso. La materia cavalleresca e carolingia richiede infine nuovi sviluppi e una fedeltà così ostinata da condurre, all’estremo opposto, all’inventiva eclettica e al rigetto: l’Adone del Marino, commistione di pastorale, epico, romanzesco, didascalico, erudito, ispirata a forme ellenistiche e ovidiane, in opposizione rispetto ai diktat omerico-virgiliani, ne è l’esempio più sfavillante. Ma già Pulci, lo stesso Boiardo e in parte Ariosto si muovono con grande libertà strutturale, diversamente dal tentativo tassiano (fissato nei Discorsi del poema eroico, ma fondamentalmente presente nelle sue riflessioni fin dalla prima unitario. Omero invece, come si distingue in tutto il resto, anche in questo appare aver visto bene, vuoi per arte vuoi per natura: facendo l’Odissea non ha rappresentato tutto quel che accade ad Odisseo, […] perché non era necessario o verisimile; compose invece l’Odissea intorno ad un’azione unica nel senso che si è detto, e in modo simile costruì anche l’Iliade. Come dunque nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico soggetto, così anche è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti dei fatti siano così connesse che, trasposta o sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato, perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce nulla di evidente, non è parte dell’intero».

8 T. TASSO, Apologia in difesa della Gerusalemme liberata, in ID., Opere, a.c. di B. Maier, Milano,

giovinezza) di irreggimentare il suo racconto secondo le direttive della norma letteraria, anche a costo di numerose rinunce.

La dialettica tra l’epico e il romanzesco fa emergere implicitamente la novità del secondo e ne fa un genere del tutto nuovo, per quanto intimamente legato al riuso di formule e meccanismi epici: meccanismi e strutture che ne circoscriveranno la novità e contribuiranno ad una definizione sempre più limitata dello stesso, a vantaggio della forma pastorale, in ascesa sul fronte dei contenuti come su quello del prestigio.9 Il

Discorso intorno al comporre dei romanzi del Giraldi Cinzio e i Romanzi del Pigna (entrambi datati 1554, e in competizione polemica per la primogenitura; i Romanzi ebbero notevole risonanza presso la corte estense, data anche l’appartenenza dell’autore e la dedica al cardinale d’Este) ne riconoscono infatti l’intrinseca novità e la necessità di darne definizione su basi aristoteliche, evidenziando come il romanzesco tenda a delinearsi per strutture episodiche e per elementi minori piuttosto che per esplicita affermazione. Il confronto – ormai scontro – tra epica classica e tradizione ricavata dal roman courtois accende il dibattito. Per il Giraldi, il nuovo genere si distaccava consapevolmente dalla vecchia epica e dalle sue regole e pretendeva il riconoscimento della sua diversità, se non addirittura della sua