• Non ci sono risultati.

Il consenso informato è il processo attraverso cui un soggetto, dopo aver ricevuto informazioni esaustive sulla propria condizione e i trattamenti disponibili, afferma volontariamente il proprio assenso ad essere curato o a partecipare ad una sperimentazione.

Il consenso informato è una condizione imprescindibile e necessaria all’inclusione dei soggetti in una sperimentazione, ed è uno egli elementi più importanti nella costruzione della “alleanza terapeutica” tra medico/sperimentatore e paziente/partecipante. Quando il processo del consenso informato si svolge correttamente i partecipanti alla sperimentazione sono generalmente più soddisfatti per le informazioni ricevute e mostrano una maggiore compliance con le procedure della sperimentazione stessa.

Per esprimere un consenso realmente informato, i partecipanti:

− devono essere accuratamente informati degli obiettivi, metodi, rischi e benefici della ricerca e delle sue alternative;

− devono comprendere le informazioni ricevute e le loro conseguenze per la propria situazione clinica;

− devono poter scegliere volontariamente e liberamente se partecipare. Purtroppo il processo del consenso informato non è privo di difficoltà.

Alcuni medici ad esempio considerano il consenso informato come un elemento di burocratizzazione del rapporto con il paziente.

Inoltre, nonostante gli sforzi del medico, i pazienti possono avere difficoltà nel comprendere e ricordare le informazioni ricevute.

Molta parte del dibattito sul consenso informato per la sperimentazione in oncologia riguarda il problema del cosiddetto “fraintendimento terapeutico”, che è la convinzione errata di molti pazienti di poter trarre un beneficio diretto dalla partecipazione ad una sperimentazione. Questo problema riguarda soprattutto le sperimentazioni di fase I (58, 59). I pazienti che partecipano a queste sperimentazioni possono non comprendere gli obiettivi dello studio e spesso non ricevono le informazioni necessarie per fare una scelta realmente informata e consapevole. Inoltre, durante il processo del consenso informato, i partecipanti possono selezionare le informazioni positive, enfatizzando i benefici del trial e minimizzandone i rischi. Questo potrebbe essere dovuto alla confusione dei trial di fase I con quelli di fase II e III, in cui gli obiettivi terapeutici e di ricerca possono essere compresenti. L’equivoco è rafforzato quando i pazienti confondono il ruolo dello sperimentatore con quello del medico o di operatore con cui possono instaurare una relazione terapeutica.

In questo capitolo si descrive il concetto di “fraintendimento terapeutico” e le sue conseguenze di etica nella conduzione di un trial clinico.

6.1. Fraintendimento terapeutico: storia e definizioni Il problema del fraintendimento terapeutico fu descritto per la prima volta da Paul Applebaum e colleghi nel 1982 (60), e introdotto alla comunità dei bioeticisti nel 1987 (27). In uno studio con farmaci psichiatrici, Applebaum e colleghi notarono che i partecipanti davano spesso un’interpretazione sbagliata dei rischi e benefici della partecipazione, non rendendosi conto di come le varie procedure di ricerca potessero interferire con le loro cure di routine. Ad

esempio, anche dopo essere stati informati della possibilità di ricevere un placebo, i potenziali partecipanti continuavano a credere che lo sperimentatore li avrebbe assegnati al ramo di trattamento più adatto alle loro condizioni mediche.

La prima formulazione del concetto dunque era incentrata sull’incapacità dei partecipanti di comprendere che la ricerca richiede procedure potenzialmente in conflitto con il modo tradizionale di praticare la medicina (61).

Nel 2001, la Commissione Nazionale Americana per la Bioetica (NBAC, National Bioethics Advisory Commission) ha definito il fraintendimento terapeutico “La convinzione che l’obiettivo primario di un trial clinico sia il beneficio del singolo paziente piuttosto che la raccolta di informazioni necessarie alla conoscenza scientifica” (62). La NBAC sottolinea l’importante distinzione tra gli obiettivi di una ricerca in quanto attività che genera conoscenze e i suoi possibili effetti, che includono a volte un potenziale beneficio dell’intervento (beneficio diretto) e altri aspetti della partecipazione dello studio (benefici collaterali o collegati alla partecipazione). Il rapporto afferma che: “Il fraintendimento non consiste nel credere che i partecipanti probabilmente riceveranno buone cure mediche durante una ricerca. Il fraintendimento consiste nel credere che l’obiettivo del trial clinico sia la somministrazione di un trattamento e non la conduzione di una ricerca” (62).

Jonathan Kimmelman ha proposto di distinguere il fraintendimento terapeutico “forte” dal fraintendimento “debole”, essendo l’ultimo più accettabile (63).

Esempi di un fraintendimento terapeutico forte possono essere i seguenti:

− Alcune persone con un male incurabile partecipano ad un trial randomizzato e controllato per ricevere un farmaco già approvato, che sperano dia loro un beneficio. Questi partecipanti non stanno necessariamente fraintendendo la ricerca. Il fraintendimento esiste se i partecipanti non capiscono che lo sperimentatore non può garantire loro di ricevere il farmaco sperimentale, anziché ad esempio un placebo.

− Una persona con una malattia cronica e incurabile potrebbe partecipare a un trial nella speranza di costruire un’alleanza terapeutica di lungo periodo con il medico sperimentatore. La sua decisione è infondata se, dopo il completamento del trial, lo sperimentatore non ha intenzione di continuare a seguirla.

Accanto ad un fraintendimento terapeutico “forte” e problematico, si può ammettere l’esistenza di un fraintendimento terapeutico “debole”, in cui i partecipanti alla ricerca non comprendono che il trial, pur avendo valore terapeutico, ha obiettivi principalmente conoscitivi. Questo tipo di fraintendimento terapeutico sembra essere piuttosto diffuso. In alcune circostanze, la comprensione degli obiettivi scientifici di uno studio, o anche del fatto che uno studio ha obiettivi scientifici, può condizionare le decisioni del soggetto, il suo livello di benessere e la sua esperienza di partecipazione. Tuttavia, secondo Kimmelman, le conseguenze del fraintendimento debole sono meno importanti del fraintendimento forte, e non rischiano di frustrare gli obiettivi terapeutici del paziente che partecipa ad un trial.

Chiaramente, anche il fraintendimento debole è indesiderabile. I pazienti dovrebbero essere sempre informati degli interessi di ricerca che potrebbero influenzare le loro cure. È importante prestare attenzione alle circostanze in cui il fraintendimento terapeutico è più probabile. Queste circostanze includono i trial con disegni o interventi particolarmente rischiosi, o i trial ampiamente sponsorizzati e preceduti da affermazioni sensazionalistiche sul loro valore medico e sociale.

6.2. Perché evitare il fraintendimento terapeutico?

Il fraintendimento terapeutico è un elemento problematico della sperimentazione. L’incapacità dei soggetti di distinguere gli obiettivi della ricerca dai suoi potenziali benefici rischia di compromettere il consenso informato. Se i partecipanti attribuiscono ingiustamente un intento terapeutico alla ricerca, è anche più probabile che sottovalutino i rischi o sopravvalutino i benefici della ricerca stessa.

Nella formulazione originaria del problema, Applebaum e colleghi vi identificarono due problemi di etica: la possibilità di sfruttamento dei soggetti partecipanti e la validità del consenso informato (60).

Più tardi altri autori hanno identificato altri problemi di etica, che riguardano soprattutto l’interferenza del fraintendimento terapeutico con la qualità della ricerca: diminuzione del valore dello studio, perché inibisce la compliance con le attività di ricerca; diminuzione della validità dello studio, perché produce un effetto placebo più ampio o interferisce con l’utilizzo di alcune procedure, come i controlli con placebo; effetti sull’integrità professionale poiché porta i ricercatori ad avere idee contraddittorie sulla pratica medica (64).

Altre conseguenze negative del fraintendimento terapeutico riguardano la perdita di fiducia del soggetto nella propria capacità di fare scelte, nei ricercatori e professionisti sanitari e nell’impresa della ricerca in generale (65).

Se la stessa persona ha avuto aspettative irrealistiche dalla partecipazione a un trial, in caso di delusione potrà rimproverare ingiustamente lo sperimentatore. Inoltre, se il paziente ha partecipato al trial seguendo i consigli del proprio medico, nel rendersi conto dell’equivoco potrebbero perdere fiducia anche in lui. Questo potrebbe avere effetti importanti sulla sua compliance con altri trattamenti in corso e sul suo desiderio di partecipare a ricerche in futuro.

Infine, dal momento che l’impresa della ricerca non può riuscire senza la fiducia, tradendo la fiducia dei partecipanti si rischia di far perdere alla ricerca la legittimazione sociale che permette ai ricercatori di svolgere il proprio lavoro.

Il pubblico infatti potrebbe non perdonare certi comportamenti, anche se attuati in nome della ricerca e del progresso medico.

Per tutti i motivi elencati, i medici sperimentatori dovrebbero dedicare più tempo e risorse a spiegare ai partecipanti le differenze tra procedure sperimentali e cure standard, anche se il fraintendimento terapeutico potrebbe rimanere.

Il problema del fraintendimento terapeutico è rimasto invariato dalla sua prima formulazione nel 1982, nonostante i tentativi di correggerlo e i miglioramenti apportati al processo del consenso informato (66). Il problema in molti casi dipende da un’opinione infondata dei potenziali partecipanti sulle possibilità terapeutiche della ricerca. In altri casi le idee ottimistiche dei pazienti potrebbero dipendere dal loro desiderio di fare comunque qualcosa per la propria salute. L’idea di fraintendimento terapeutico dunque deve essere distinta da quella di ottimismo terapeutico.

6.3. Una distinzione tra fraintendimento e ottimismo terapeutico

Il problema dell’ottimismo terapeutico è stato ben descritto da Agrawal e colleghi in articolo pubblicato nel 2006 nel Journal of Clinical Oncology (67). Agrawal e colleghi hanno valutato il processo decisionale dei pazienti con tumore avanzato che partecipavano a studi oncologici di fase I. Gli autori trovarono che il 75% dei pazienti inclusi in un trial di fase I che avevano

risposto al loro questionario erano molto o abbastanza desiderosi di partecipare a questi studi poiché il loro tumore stava progredendo e loro non stavano migliorando. In modo coerente con questi risultati, il 74% dei pazienti dichiarò di voler partecipare poiché il non ricevere alcun tipo di trattamento antitumorale li rendeva molto o abbastanza ansiosi. Anche per questo motivo i pazienti ritenevano di poter trarre un beneficio dal trial, e la loro valutazione includeva fattori diversi dalla cura o dal prolungamento della sopravvivenza.

Per i pazienti, infatti, il beneficio poteva derivare dalla routine associata con la partecipazione allo studio, inclusa la possibilità di ricevere un farmaco, di fare dei test per valutare lo stato di avanzamento del tumore, e di avere visite regolari con gli oncologi. Il 78% riportò che effettuare test diagnostici e visite con il medico almeno una o due volte al mese dava loro sollievo. Per il 44% dei pazienti partecipare ad uno studio oncologico di fase I dava un senso di controllo, e per il 56% provare un nuovo tipo di chemioterapia aumentava il senso di speranza. La motivazione principale di questi pazienti sembrava essere il desiderio di fare qualcosa per combattere il cancro. Di conseguenza, l’informazione che essi consideravano più importante nel decidere se partecipare o meno al trial era se il farmaco sperimentale uccidesse le cellule tumorali, non i dettagli dello studio o gli effetti collaterali del trattamento. Questi partecipanti (specialmente quelli con una storia pregressa di chemioterapia) erano ben consapevoli degli effetti collaterali del trattamento antitumorale, eppure l’informazione sugli effetti collaterali non sembrava condizionare troppo la decisione di partecipare allo studio. La nausea, la fatica, una biopsia osteomidollare, il dover passare la notte in ospedale, anche il 10% di possibilità di morire non avrebbe impedito al 90% dei pazienti di arruolarsi nello studio di fase I.

In modo coerente con il desiderio di combattere il cancro, questi pazienti traevano sollievo dai frequenti test diagnostici e dalle visite con gli oncologi per valutare lo stato di avanzamento della malattia e non li trovavano pesanti.

Infine, i pazienti tendevano a considerare che loro stessi, più di altri pazienti, avrebbero probabilmente beneficiato dalla partecipazione. Tutto ciò suggerisce che i pazienti siano spesso ottimisti, nel senso che partecipano alla ricerca nella speranza di ottenere un buon risultato di salute e non perché confondono gli obiettivi della ricerca con quelli dell’assistenza. Lo studio di Agrawal e colleghi inoltre indica che partecipare ad uno studio di fase I permette ai pazienti di mantenere la speranza. In questa prospettiva, più che un problema etico, l’ottimismo terapeutico sembra essere una comprensibile strategia di adattamento (coping). Questo concetto è ben illustrato dalle parole di George Zimmer, un paziente oncologico, in un articolo scritto per promuovere il ruolo dei pazienti nella pianificazione dei trial di fase I: “... Il nemico non è il dolore o anche la morte, che per noi arriveranno comunque. Il nemico è il cancro, e noi vogliamo vederlo annientato e sconfitto. (...) è così che preferisco morire: non da suicida, non nell’accettazione passiva, ma nell’impegno della mia lotta” (68).

È probabile che le parole di Zimmer riflettano i sentimenti di molti malati di cancro. In ogni caso, è importante che l’ottimismo terapeutico non sia confuso con il fraintendimento terapeutico, e che il medico ricercatore faccia del proprio meglio per rendere i partecipanti più informati e consapevoli di tutti i rischi e, se il caso, dei benefici della ricerca.

Nel capitolo “Consenso informato” sono proposte alcune metodologie per diminuire il fraintendimento terapeutico e migliorare il processo del consenso informato, migliorando la qualità dei moduli di consenso informato scritto e la discussione tra medici sperimentatori e pazienti sulla partecipazione ad un trial clinico.

Documenti correlati